Tutto tranne che il liscio (4-5)

venerdì 5 Giugno 2009

Apro una parentesi, brevissima: Questa canzone, secondo me, ogni tanto salta fuori il dibattito sull’inno nazionale, questa canzone, che noi Italia un po’ la snobbiamo, sentirla fuori dall’Italia uno si accorge che questa è la vera canzone che dovrebbe diventare l’inno nazionale. A me piacerebbe moltissimo, un giorno, magari non tanto lontano, vedere i giocatori della nazionale che, una mano sul cuore, al centro del campo cantano: Buongiorno Italia gli spaghetti al dente, e un partigiano come presidente, con l’autoradio sempre nella mano destra e un canarino sopra la finestra, e ho paura che non succederà mai, chiusa la parentesi.

C’era, allora, dicevamo, questo conflitto tra Emilia e Unione Sovietica, che è stato un conflitto che, in un certo senso, si è sanato con un viaggio che ho fatto, nel 1995, un viaggio in macchina, una citrone 2 cavalli grigia e nera, sono partito da Basilicanova, sono arrivato a San Pietroburgo, ci ho messo quattro giorni, e dopo quel viaggio, ho l’impressione, non so, io per molto tempo mi sono occupato della Russia, e le cose di cui ti occupi in un certo senso ti occupano, e le componenti emiliane che abitavano dentro di me e le truppe sovietiche che erano entrate dentro di me in forma, come dire, di occupanti, io ho l’impressione che dopo quel viaggio è stato come se avessero firmato una specie di armistizio, è stato un viaggio stupefacente, è durato quattro giorni e ne parliamo magari domani.

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Tutto tranne che il liscio (4-4)

venerdì 5 Giugno 2009

Solo che poi, quando son poi tornato a casa, nel 91, ancora una volta, l’Italia, a me, Parma, la mia città, è un’espressione un po’ forte, mi faceva schifo. Non riuscivo a guardare la gente, per strada. Mi sembrava che tutti mi dicessero Guardami Guardami, Guarda come son bello, e mi dava giù il cuore. Mi veniva da tornare a casa e star tutto il giorno sopra il divano, alla russa, come Oblomov, ero un disadattato. Dopo un po’ mi è passata, ma allora, per un periodo non corto, diciamo tre quattro anni, per me i momenti in cui stavo in Italia eran dei momenti di pausa tra un viaggio in Russia e un altro, e quello è stato un periodo che, diversamente dal resto della mia vita, ascoltavo un sacco di musica, musica russa, prevalentemente, ma non solo, perché in Russia, avevo scoperto, i russi conoscevan benissimo la musica italiana, il festival di Sanremo, in Unione Sovietica, è stato per anni l’unico spettacolo occidentale che facevano vedere in diretta, e c’eran delle canzoni, che in Italia io non avrei cantato neanche se mi pagavano, che in Russia avevo cantato più volte, ma con piacere, dentro degli appartamenti sovietici, in cucine strettissime, seduti su degli sgabelli intorno a un tavolo con sopra una bottiglia di vodka, un baton di pane nero, due cetrioli e tre pomodori.

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Tutto tranne che il liscio (4-3)

venerdì 5 Giugno 2009

C’è una canzone di Dino Sarti dove lui racconta di essere stato in Russia e dice che la cosa più interessante, della Russia, è quando torni, dalla Russia, le domande che ti fanno, che a lui gli avevano chiesto Di mo, Dino, com’ela la Rossia, e lui aveva risposto La Rossia l’è granda. Ecco, per me, una cosa stranissima, quando son stato in Russia, è stato che in un posto così grande, sarà stato che studiavo la lingua, e la letteratura, ma la cosa stranissima era che mi sembrava di essere come nel mio quartiere.

C’era un centro commerciale, a Mosca, in periferia, si chiamava Raduga, che significa Arcobaleno, e io, era una fesseria, era un centro commerciale, sovietico, nella periferia di Mosca, nel 91, scalcinatissimo, ma era come illuminato da una luce che io e lui sapevamo cos’era.

Era come se la mancata attenzione all’esteriorità, in Russia, il fatto che le cose non ti dicessero continuamente Guardami guardami come son bello, era come se ti obbligassero a guardare, e guardare è una cosa che è come pensare, che noi, a sforzarci, siam capaci di farlo, ma è una di quelle cose che bisogna esercitarle continuamente, come andare in palestra, e l’unione sovietica, per me, nel 91, è stata come un’enorme palestra di sguardi.

E tra le altre cose che avevo guardato, avevo guardato anche un film, in Unione Sovietica, lo facevan vedere sempre l’ultimo dell’anno, si intitolava Ironia del destino, e dentro c’era una canzone, scritta da un certo Aleksandr Aronov, che tradotta un po’ grossolanamente, faceva così: Se non avete una casa, Non c’è da aver paura di incendi, E la moglie non vi lascerà per un altro, Se non avete moglie. Se non avete un cane, Il vicino non lo avvelena, E non litigherete con un amico Se non avete amici. L’orchestra rimbomba di bassi, Il trombettista soffia negli ottoni, Pensate da soli, Decidete da soli, Avere o non avere? Se non avete una zia, Non vi toccherà perderla, E se non vivete, Non vi toccherà morire. L’orchestra rimbomba di bassi, Il trombettista soffia negli ottoni, Pensate da soli, Decidete da soli, Avere o non avere?

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Tutto tranne che il liscio (4-2)

venerdì 5 Giugno 2009

Invece mi sarebbe piaciuto andare in Russia, e alla fine poi ci sono andato. E la cosa stranissima, della Russia, ce n’erano tante, di cose strane, ma la cosa forse più strana, era che in Russia, che allora, quando ci sono andato io, era ancora una delle Repubbliche che componevano l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, la gente, a guardarla, sembravano tutti dei musicisti jazz, eran vestiti tutti in un modo normale.

Qualche anno dopo, quando avevo già finito l’università, mi ero messo a fare l’interprete, e avevo fatto un interpretariato per degli architetti di Piacenza che avevano invitato una delegazione composta dai principali collaboratori di El’cin per l’architettura. Be’, questi architetti russi, eran vestiti un modo, avevano dei girocolli mistolana, ce n’era uno che aveva un cappellino da ciclista, e un borsello a tracollo, e due occhiali con delle lenti spessissime e in mano, sempre, una macchina fotografica, e fotografa tutto. C’erano questi architetti di Piacenza, tutti eleganti, in divisa, gessati, Armani, Versace, erano stupefatti, vedere i loro colleghi ex sovietici, e i loro colleghi ex sovietici uguale, erano stupefatti, a vedere i loro colleghi piacentini, e una volta giel’avevano anche detto. Il capo della delegazione russa aveva detto, al capo della delegazione Piacentina. Sembrate dei patrizi, come siete vestiti. Io avevo tradotto, e il capo della delegazione piacentina era rimasto un attimo così che non sapeva cosa dire poi aveva detto Patrizi? Mia moglie si chiama Patrizia.

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Tutto tranne che il liscio (4-1)

venerdì 5 Giugno 2009

All’università, io mi ero messo, un po’, ad ascoltare del jazz. Andavo anche a sentir dei concerti, ogni tanto. Mi piacevano proprio anche i musicisti, di jazz, l’atteggiamento loro un po’ generale: era della gente che, diversamente dai musicisti rock, o hard rock, o anche pop, o grunge, che c’è stato anche quello, o indi, che allora non c’era ma adesso mi sembra che ci sia anche l’indi, diversamente insomma da quelli, mi sembrava che i jazzisti, in generale, poi c’erano le eccezioni, mi sembrava che fossero della gente che non aveva bisogno di mettersi delle uniformi, per salire sul palco a suonare. Si vestivano come se facessero un mestiere normale, e vestiti così, da persone normali, salivan sul palco e suonavano. Poi venivano giù, ricominciavano la loro vita da persone normali, o poco normali, però vestite comunque da persone normali, cioè senza divisa.

Al liscio, allora, non ci pensavo minimamente. Che prima di tutto, quelli che suonavano il liscio, in generale, eran della gente che avevan l’uniforme, a andare sul palco, e per la maggior di loro questa uniforme comprendeva il taglio di capelli, che era standard, e sembrava fatto da un barbiere educato ai tempi della distensione, anni cinquantotto sessanta. Secondariamente, il liscio, per me, che ero di Parma, a pensarci adesso, era una cosa che poi dopotutto non faceva neanche parte della mia tradizione, era romagnola, era là, era là in fondo, era là oltre Bologna che era proprio un posto, non dico lontano, lontanissimo. C’era da fare Reggio Emilia, Rubiera, Modena, Castelfranco Emilia, Bologna, e poi bisognava andare ancora più in là, se fossimo stati nell’ottocento ci sarebbero state da passar tre frontiere, prima di arrivare nella terra del liscio. C’era un lettore di inglese, lì all’università, che era americano, e una volta mi aveva detto che sua moglie si era messa a andare a ballare il liscio: una volta alla settimana la moglie di questo ragazzo montava sopra una macchina, piena di dopobarba, e partiva nella nebbia su delle strade statali per andare chissà dove. In Romagna, avevo pensato io, e poi avevo pensato che no, non erano cose per me, il dopobarba, no no, io stavo bene a Parma, all’università, in viale san Michele, stavo lì tutto il giorno, al massimo ogni tanto potevo andare a Fiorenzuola a sentir dei concerti di jazz che almeno lì la gente si vestiva in un modo normale e che il dopobarba, per loro, era catalogato sotto la voce Non sappiamo neanche cos’è.

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Tutto tranne che il liscio (3-5)

mercoledì 3 Giugno 2009

L’università c’erano dei tubi, grossi, arancioni, che portavano l’aria. C’era un prato, in mezzo. Che non si poteva pestare. Per via che il custode ci teneva moltissimo. Lo tagliava anche due volte la settimana. Dava fastidio, un po’, quando facevamo lezione, però avevamo un prato, bellissimo. Ci sedevamo poi sul cemento.

Era appena al di là della colonne d’ercole, ai confini col centro, ma era diventato quasi subito un posto famigliare: mi trovavo bene. Mi trovavo talmente bene che aveva smesso perfino di andare al Bar Riviera. Non lo so perché.

Ero all’università, in viale San Michele, lì vicino al centro, in un posto che avrebbe dovuto mettermi in imbarazzo, e non ero per niente in imbarazzo. Proprio stavo benissimo. Come essere al bar Riviera. Si poteva fare quello che si voleva, si poteva leggere quel che si voleva, ci si poteva andare quando si voleva, io c’ero sempre, dal mattino alla sera.

Mi è successo poi tre o quattro volte, dopo che mi son laureato, di partire da casa con la mia macchina soprappensiero e di trovarmi davanti all’università, in viale San Michele, e invece dovevo andare da tutt’altra parte. Per me, dopo ognuno ha i suoi gusti, per me, era bellissimo, era pieno di gente, ognuno fatto a modo suo, però analizzabili, se così si può dire, anche per gruppi, secondo diversi parametri. Gli studenti di russo, per esempio, un po’ si vedeva, che studiavano russo, da com’eran vestiti: erano i più scalcinati.

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Tutto tranne che il liscio (3-4)

mercoledì 3 Giugno 2009

Si stava benissimo. Però insomma, c’era sempre il problema di cosa dovevo fare nella mia vita. Avevo del tempo, poi, per decidere, tipo sei sette anni, però. Allora una volta, in un libro di Bulgakov, che si intitola La guardia bianca, a un certo punto avevo trovato scritto: E soprattutto un inesauribile faro davanti, l’università, ossia la vita libera, capite cosa significhi la vita libera, capite cosa significhi l’università, i tramonti sul Dnepr, la libertà, il denaro, la forza e la gloria.

Poi, sempre nello stesso libro, qualche pagina dopo, avevo trovato scritto: Tutti dovevano andare a combattere, tanto dall’università non si ricavava un accidente.

Ecco. L’università era proprio quello che ci voleva per me, avevo pensato. Tanto più che lì a Parma, avevo scoperto, all’università, da qualche anno avevano aperto anche un corso di russo.

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Tutto tranne che il liscio (3-3)

mercoledì 3 Giugno 2009

Dopo, di musica, nessuno di ascoltava il liscio, nessuno. Ognuno ascoltava la sua roba. C’erano i metallari, c’era Massimo Donelli e quelli di via Compiani che andavano in discoteca, c’erano i vecchi che quando avevan bevuto cantavano le arie delle opere liriche, e si fermavano allora fino a tardi, e quelle sere lì a un certo punto squillava sempre il telefono a gettone e era una donna che voleva indietro suo marito, c’erano i giovani che ascoltavano la roba da giovani, che allora eran gli U2, è passato del tempo, c’eravamo io e Nadir che non ascoltavamo niente, anche se ogni tanto si affacciava una canzone, così a tradimento, da qualche stereo di una macchina di passaggio, era un periodo che intorno agli stereo delle macchine c’era un traffico anche maggiore del traffico che c’era stato qualche anno prima intorno agli orologi con le fasi lunari, si affacciava qualche canzone, a tradimento, che ti lasciava lì, al tavolino del bar, con la bocca aperta a pensare Vacca boia.

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Tutto tranne che il liscio (3-2)

mercoledì 3 Giugno 2009

Era un bar, il bar Riviera, che più o meno la clientela eran tutti gente normale, meccanici, falegnami, elettricisti, muratori quelli un po’ più su d’età, e quelli più giovani eran figli di meccanici, falegnami, elettricisti, muratori.
Il condominio, che era quello dove abitava Nadir, l’aveva costruito mio babbo, e l’aveva chiamato condominio Riviera, allora per quello il bar si chiamava, e si chiama, Bar Riviera, che è un nome un po’ strano, per un bar della periferia sud di Parma, però a me piaceva, mi ci ero abituato.
E in quel periodo, nell’ottantotto, mi sembrava che si fosse placata quella febbre dell’oro che avevo trovato nell’ottantacinque, stavo benissimo, avevo solo qualche problema per il fatto che io, che passavo praticamente metà delle mie giornate nel bar, mi piaceva anche leggere, e tra i frequentatori del bar non è che si potesse tanto parlare di letteratura, neanche con Nadir.
Una volta, eravamo stati alla festa dell’unità, e io nella bancarella dei libri avevo trovato un libro di Sciascia, mi piaceva molto Sciascia, all’epoca, e Bulgakov, erano i miei due scrittori preferiti, avevo ancora in testa questa idea che adesso mi fa un po’ senso degli scrittori preferiti, avevo trovato un libro di Sciascia che non avevo mai letto, un’intervista con un francese che si intitolava La Sicilia come metafora, e l’avevo comprato.
Quando eravamo tornati al bar avevo appoggiato il libro sul tavolino e ci eravam messi lì fuori io e Nadir a guardare la gente, che è una cosa che mi piaceva e mi piace tantissimo ancora. A un certo punto era arrivato un nostro amico, che abitava anche lui nel condominio Riviera, e si chiamava Luca, e era l’allenatore della squadra di calcio Bar Riviera, campionato amatori, e Nadir, mi ricordo, l’aveva salutato con un gesto della testa, e poi, facendo segno, sempre con la testa, al libro che era sul tavolino aveva detto: C’è della gente qua che vogliono fare gli intellettuali.

Però, insomma, tutto sommato, quello lì è stato un periodo, da un certo punto di vista, bellissimo. Ho passato praticamente sei mesi seduto al tavolino del bar Riviera a guardare quel che succedeva e succedevan di quelle cose. Al venerdì sera c’era un ragazzo, che di mestiere faceva il facchino, arrivava al bar il venerdì sera con un sorriso, si vedeva benissimo che gli sembrava incredibile, avere davanti a sé due giorni interi senza dover fare il facchino. E la cosa bellissima era che era una cosa, incredibile, che succedeva puntualmente tutte le settimane il venerdì sera intorno alle ore 18.

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Tutto tranne che il liscio (3-1)

mercoledì 3 Giugno 2009

Terzo giorno

Ero tornato in Italia nel 1988, in febbraio, e mi sembrava di avere un sacco di soldi. Forse non ho mai più avuto tanti soldi in vita mia. Cioè: se consideriamo i soldi che avevo e quelli che spendevo, io potevo stare sei o sette anni senza far niente, dopo che era tornato dall’Iraq.

E forse avrei fatto meglio a far così, invece, sempre rispondendo a un annuncio sul giornale, avevo trovato un lavoro, da ragioniere, in un’impresa che si occupavan di moda, facevan delle borse, di pelle, e avevano soprattutto l’esclusiva per la vendita a Parma e in provincia di Parma delle borse di pelle che faceva uno stilista famoso che viveva a Milano.

Era un posto, no ma, la gente era anche simpatica, mi trattavano bene. Solo che era un posto là, in via Jenner, che era una parte della città che io non avevo mai frequentato, verso ovest, verso Piacenza, un quartiere stranissimo, con dei capannoni, dei casermoni, dei palazzoni. Era un quartiere, non so come dire, sembrava di essere a Cernusco sul Naviglio, non a Parma. E poi io. Avevo una seggiolina, lì, in un angolino. Ero lì con la mia cravattina, nel mio angolino, che facevo le mie cosettine. Allora cosa vuoi fare. Allora niente. Due settimane. Poi, il terzo lunedì, invece di mettermi la cravattina, mi ero messo una camicia a scacchi, me la ricordo ancora, rossi e neri. E invece di andare in ufficio mi ero fermato in piazzale maestri e da lì, dal telefono a gettoni del bar riviera, avevo chiamato l’ufficio avevo detto che io preferivo stare a casa; e niente, avevo fatto colazione, mi ero messo a leggere il giornale, dopo neanche dieci minuti era arrivato Nadir. Ci eravam presi su, eravamo andati a fare un giro. Sai cosa siamo io e te? mi aveva detto lui.
Cosa siamo?
Siamo due che non abbiam voglia di far niente, e lo facciamo.

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