Una maglietta
Ci son delle volte che penso Ma quella maglietta là, che non mi metto da dei mesi, dov’è andata a finire? La cerco, e la trovo. E quando l’ho trovata penso Incredibile. L’ho trovata.
Ci son delle volte che penso Ma quella maglietta là, che non mi metto da dei mesi, dov’è andata a finire? La cerco, e la trovo. E quando l’ho trovata penso Incredibile. L’ho trovata.
Anche stamattina non ne avevo voglia allora sono andato a correre.
Ci sono dei momenti, quando son lì che scrivo, alle tre del mattino, che ho l’impressione di essere l’unico al mondo, a lavorare; lo so che non è vero, ma alla mia impressione non interessa, che io sappia che non è vero. Ecco quelli son dei momenti che mi piacciono molto, del mio mestiere.
Quando faccio un viaggio in treno lungo, su un treno scomodo, pieno di americani pieni di valigie, che son stanco, e mi accorgo che manca ancora un’ora, se apro il taccuino e scrivo Manca ancora un’ora, dopo quando chiudo il taccuino sono meno stanco non lo so, come mai.
A guardare le partite dei campionati europei di calcio e a pensare a Italia Svizzera mi viene in mente quella pezzo di De Gregori, Povero me povero me povero me, mi guardo intorno e sono tutti migliori di me.
Tutte le volte, tutte le volte, tutte le volte che devo partire penso Ma non è meglio se sto a casa?
Quello davanti a me, in treno, continua a allungare le gambe e a prendere contro ai miei piedi. Gli mando dei messaggi telepatici ma o io non sono abbastanza bravo o lui non è abbastanza ricettivo. Mancano 51 minuti. Magari, da qui a Milano, uno dei due impara.
Era l’inverno che avevamo tutti paura che la bolletta del gas fosse il triplo di quella dell’inverno precedente.
La prima volta che ho patito freddo in casa mia.
Tenevo sempre spento.
La Battaglia studiava con addosso dei panni.
Quando si alzava per andare a prendere da bere, sembrava un cavaliere col suo mantello.
Non eravamo poveri, eravamo coglioni, come sempre.
Io, da quando son piccolo, sempre stato.
Una coerenza, ammirevole, mi viene da dire.
L’odore che hai te lo dice la tua prima fidanzata.
[Ho voglia di rimettermi a scrivere L’amore è una banana ma non posso, ancora]
Dei mondiali del 1970 non ho visto neanche una partita ma me li ricordo benissimo, e la prima cosa che mi ricordo, sembra che non c’entri niente, è il fatto che in Russia, per qualche decennio, tra prima guerra mondiale, rivoluzione e guerra civile, era stato impossibile fare arrivare delle banane.
C’eran bambini che facevano le elementari, che non avevano mai mangiato, né mai visto, una banana, e che credevano che i loro fratelli maggiori, quando parlavano loro di quel frutto così strano, giallo, a mezzaluna, dolcissimo, con quel nome che sembrava finto si fossero messi d’accordo per raccontare una balla.
Quella generazione di bambini russi, quando sentiva raccontare una balla, diceva che era una banana.
«Non dire banane!», dicevano.
[Inizio di un pezzo che forse esce tra qualche giorno sul Foglio, e forse, tra un paio d’anni, finisco un romanzo che si intitola L’amore è una banana, ma forse no]