Tutto tranne che il liscio (3-5)
L’università c’erano dei tubi, grossi, arancioni, che portavano l’aria. C’era un prato, in mezzo. Che non si poteva pestare. Per via che il custode ci teneva moltissimo. Lo tagliava anche due volte la settimana. Dava fastidio, un po’, quando facevamo lezione, però avevamo un prato, bellissimo. Ci sedevamo poi sul cemento.
Era appena al di là della colonne d’ercole, ai confini col centro, ma era diventato quasi subito un posto famigliare: mi trovavo bene. Mi trovavo talmente bene che aveva smesso perfino di andare al Bar Riviera. Non lo so perché.
Ero all’università, in viale San Michele, lì vicino al centro, in un posto che avrebbe dovuto mettermi in imbarazzo, e non ero per niente in imbarazzo. Proprio stavo benissimo. Come essere al bar Riviera. Si poteva fare quello che si voleva, si poteva leggere quel che si voleva, ci si poteva andare quando si voleva, io c’ero sempre, dal mattino alla sera.
Mi è successo poi tre o quattro volte, dopo che mi son laureato, di partire da casa con la mia macchina soprappensiero e di trovarmi davanti all’università, in viale San Michele, e invece dovevo andare da tutt’altra parte. Per me, dopo ognuno ha i suoi gusti, per me, era bellissimo, era pieno di gente, ognuno fatto a modo suo, però analizzabili, se così si può dire, anche per gruppi, secondo diversi parametri. Gli studenti di russo, per esempio, un po’ si vedeva, che studiavano russo, da com’eran vestiti: erano i più scalcinati.
[Si sente qui]