Tutto tranne che il liscio (4-1)
All’università, io mi ero messo, un po’, ad ascoltare del jazz. Andavo anche a sentir dei concerti, ogni tanto. Mi piacevano proprio anche i musicisti, di jazz, l’atteggiamento loro un po’ generale: era della gente che, diversamente dai musicisti rock, o hard rock, o anche pop, o grunge, che c’è stato anche quello, o indi, che allora non c’era ma adesso mi sembra che ci sia anche l’indi, diversamente insomma da quelli, mi sembrava che i jazzisti, in generale, poi c’erano le eccezioni, mi sembrava che fossero della gente che non aveva bisogno di mettersi delle uniformi, per salire sul palco a suonare. Si vestivano come se facessero un mestiere normale, e vestiti così, da persone normali, salivan sul palco e suonavano. Poi venivano giù, ricominciavano la loro vita da persone normali, o poco normali, però vestite comunque da persone normali, cioè senza divisa.
Al liscio, allora, non ci pensavo minimamente. Che prima di tutto, quelli che suonavano il liscio, in generale, eran della gente che avevan l’uniforme, a andare sul palco, e per la maggior di loro questa uniforme comprendeva il taglio di capelli, che era standard, e sembrava fatto da un barbiere educato ai tempi della distensione, anni cinquantotto sessanta. Secondariamente, il liscio, per me, che ero di Parma, a pensarci adesso, era una cosa che poi dopotutto non faceva neanche parte della mia tradizione, era romagnola, era là, era là in fondo, era là oltre Bologna che era proprio un posto, non dico lontano, lontanissimo. C’era da fare Reggio Emilia, Rubiera, Modena, Castelfranco Emilia, Bologna, e poi bisognava andare ancora più in là, se fossimo stati nell’ottocento ci sarebbero state da passar tre frontiere, prima di arrivare nella terra del liscio. C’era un lettore di inglese, lì all’università, che era americano, e una volta mi aveva detto che sua moglie si era messa a andare a ballare il liscio: una volta alla settimana la moglie di questo ragazzo montava sopra una macchina, piena di dopobarba, e partiva nella nebbia su delle strade statali per andare chissà dove. In Romagna, avevo pensato io, e poi avevo pensato che no, non erano cose per me, il dopobarba, no no, io stavo bene a Parma, all’università, in viale san Michele, stavo lì tutto il giorno, al massimo ogni tanto potevo andare a Fiorenzuola a sentir dei concerti di jazz che almeno lì la gente si vestiva in un modo normale e che il dopobarba, per loro, era catalogato sotto la voce Non sappiamo neanche cos’è.
[Si sente qui]