Unico al mondo

sabato 7 Dicembre 2019

La mamma era stata, oltre che mia madre, la cugina più vicina della mia parentela. Essa era stata la mia sola vera Fidanzata. Avrei dovuto e voluto essere il Suo custode. Se ho sempre mancato al mio dovere, niente di male per Lei. Il Suo custode fu sempre presente in Lei stessa. C’era del resto Chi L’aspettava. Il papà, morto il 28 giugno 1909, la stava aspettando da 53 anni. Sorridente, dolce, scanzonato, aspettava la Mamma. Intatto nel viso, nel corpo, nella barba, nei capelli (così come risultò all’apertura della cassa, nel cimitero di Modena, la mattina del 10 febbraio 1962, davanti a me e al mio giovane e carissimo cugino Paolo Tardini e al direttore del cimitero) egli si lasciò vedere da me per la prima volta nella mia vita. Non avevo mai avuto un ricordo visivo di lui. Lui, mio padre, aveva 33 anni; e io, suo figlio, cinquantaquattro. Unico al mondo, io credo, ho visto per la prima volta il papà: lui, in età di un mio figlio; io, in età di suo padre!

Antonio Delfini

[Epigrafe di Qualcosa n. 7]

Del loro padre ambosesso

venerdì 31 Marzo 2017

Un libro che non scriverò

Dopo tutto il male che hanno fatto alla mia mamma, a mia sorella e a me, io; col cuore in tumulto, malato, orribilmente spaurito dai sistemi della borghesia della mia città, e della città dove mi portarono fin da bambino, e della vicina città nella quale per caso ero andato come a rifugiarmi, io; rimasto senza terra e senza averi, rimasto privo di affetti, torturato per beffa persino dal medico di P. che mi ha ridotto con le mascelle gonfie e gli orecchi quasi sori, abbandonato da una falsa fidanzata ricchissima che faceva a società con l’avvocato che derubava gli ultimi margini delle mie terre: io avevo ben deciso di scrivere un racconto, un racconto enorme, sconfinato, pieno terribile, vendicativo e giustiziere; un racconto che avrebbe dovuto diventare un romanzo; un romanzo che avrebbe dovuto trasformarsi nella realtà di una Storia Risoluta; io avevo dunque deciso, dopo tutto il male che hanno fatto a mia mamma, a mia sorella e a me, avevo dunque deciso, davanti a Dio e agli uomini, e ove avessi avuto ancora vita tempo e intelletto, avevo dunque deciso di scrivere senza paura né del Tribunale né degli immondi figuri che mi sono stati appresso per la nostra rovina, che mi sono stati appresso derubandomi svilendomi e riducendomi nella solitudine, nel vuoto, nel silenzio dell’angoscia (e così alla mamma, a mia sorella); avevo dunque deciso di scrivere. E doveva diventare il più grosso libro del nostro tempo. Doveva diventare la più grossa condanna del nostro tempo e di quello che l’ha generato, la più grossa condanna perciò dell’antifascismo e dei partiti borghesi antifascisti e del loro padre ambosesso: il fascismo.

[Antonio Delfini, Diari, Torino, Einaudi 1982, p. 401]

Un racconto che non scriverò

giovedì 7 Maggio 2015

delfini, diari

Dopo tutto il male che hanno fatto alla mia mamma, a mia sorella e a me, io; col cuore in tumulto, malato, orribilmente spaurito dai sistemi della borghesia della mia città, e della città dove mi portarono fin da bambino, e della città vicina nella quale per caso ero andato come a rifugiarmi, io; rimasto senza terra e senza averi, rimasto privo di affetti, torturato per beffa persino dal medico di P. che mi ha ridotto con le mascelle gonfie e gli orecchi quasi sordi, abbandonato da una falsa fidanzata ricchissima che faceva a società con l’avvocato che derubava gli ultimi margini delle mie terre: io avevo ben deciso di scrivere un racconto, un racconto enorme, sconfinato, pieno terribile, vendicativo e giustiziere; un racconto che avrebbe dovuto diventare un romanzo; un romanzo che avrebbe dovuto trasformarsi nella realtà di una Storia Risoluta; io avevo dunque deciso, dopo tutto il male che hanno fatto alla mia mamma, a mia sorella e a me, avevo dunque deciso, davanti a Dio e agli uomini, e ove avessi avuto ancora vita tempo e intelletto, avevo dunque deciso di scrivere senza paura né del Tribunale né degli immondi figuri che mi sono stati appresso derubandomi svilendomi e riducendomi nella solitudine, nel vuoto, nel silenzio dell’angoscia (e così alla mamma, alla sorella). Avevo dunque deciso di scrivere. E doveva diventare il più grosso libro del nostro tempo. Doveva diventare la più grossa condanna del nostro tempo e di quello che l’ha generato, la più grossa condanna perciò dell’antifascismo e dei partiti borghesi antifascisti e del loro padre ambosesso, del loro unico genitore: il fascismo.
Ieri sono andato in pellegrinaggio al Santuario della Madonna Miracolosa di Montenero. Ero naturalmente, come sempre, solo. La mia commozione era tremenda. Reprimevo a ogni passo, a ogni parola, a ogni richiesta (del biglietto del treno, delle cartoline, dei francobolli, delle immagini), reprimevo un pianto talmente profondo, talmente pieno, talmente vero che se l’avessi lasciato sgorgare in lagrime, queste sarebbero state tante che avrebbero finito con l’inondare il fosso della funicolare e avrebbero creato un fiume: le lagrime sarebbero andate a fondersi nel mare. Temevo il verificarsi di un Miracolo, che avrebbe portato maggior dolore ai miei cari, e ancora spasso e un divertimento per quegli esseri immondi e imprecisabili che sono coloro che hanno fatto tanto male alla mia famiglia, a me, alla mia terra e alle immagini di lei, ai miei avi e antenati, alla Storia tutta del mio paese. Ero religioso e al tempo stesso blasfemo se potevo pensare, che come […] di un Peccatore orribile come me, la Santissima Vergine di Montenero avesse voluto premiarmi trasformandomi un un unico fiume di lacrime.

[Antonio Delfini, Diari, Torino, Einaudi 1982, pp. 401-402]

Un inizio

venerdì 11 Luglio 2014

Unknown

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se avessi avuto altri amici, o non li avessi avuti affatto, sarei diventato un grande narratore, prima della caduta del fascismo; e dopo lo sarei rimasto. Ma è più probabile che se non avessi avuto gli amici che ho avuto, io non avrei mai scritto un racconto o un quasi racconto. Molto più bello, più intelligente, più ricco e più aristocratico degli amici che ho avuto, mi sono trovato davanti alla barriera terribile e armata dei loro difetti, vizi e capricci: gelosia, narcisismo e sfrenata (ma sorda) ambizione. Né geloso, né ambizioso, e tanto meno narciso, fortunato negli attributi fisici, morali ed economici, mi sono scoperto (ma troppo tardi) un difetto (che i miei più intimi dicevano una virtù scambiandola per bontà): una mitezza eccessiva nata dal desiderio di non soffrire mai o il meno possibile, si è convertita nel tempo in pigra contemplazione e in una sorda velleitaria rivalsa che non è mai sfociata in una conclusiva spiccata vendetta.
Mentre scrivo continua questa brutta storia. La mia è una discesa continua; talvolta procurata dagli amici che ho avuto; tal’altra, aiutata dalla mia disperazione a vedere gli amici che ho avuto, guardarmi, compiaciuti (col loro sguardo freddo tra di tedesco, di eunuco, e di triglia) scivolare verso il basso. Ma si illudono.

[Antonio Delfini, Il ricordo della Basca, Milano, Garzanti 1992, p. 7]

Antonio Delfini

martedì 14 Maggio 2013

riga, delfini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Verrò a Roma dentro i primi di aprile. Non ne posso più di stare qui fra un marciume di gente professorale e bottegaia, con la quale mi tocca fare a pugni tutti i giorni. L’aria che si respira è mefitica e mi sembra di soffocare. È grassa se son riuscito a scrivere quei poemetti pubblicati sul «Tevere». Il giorno in cui partirò, conto di prendere a nolo la musica e di farmi condurre alla stazione fra uno svolazzìo di bandiere, dopo aver reso i dovuti omaggi al signor prefetto. Tu non puoi immaginare come si senta il peso delle leggi, in una città piccola, dove tutti che hanno un ditino d’autorità la fanno da padreterni senza conoscere il Vangelo. Ne ho proprio abbastanza!
E se Roma non mi andrà, via a Parigi dentro un anno a respirar aria anche se decadente. E se non mi andrà Parigi, cercherò un deserto; e se non troverò questo caschi il mondo se non faccio regolare domanda di andare al manicomio dove troverò qualche persona per bene.
Siamo o non siamo Realtà.

[Antonio Delfini, Lettera a Pannunzio, 12 marzo 1930, in Antonio Delfini, Riga 6, Milano, Marcos y Marcos 1994, p. 128]

17 aprile 1927

martedì 19 Ottobre 2010

Questa sera, dopo cena mi son messo a scrivere una pagina. Ne è venuta fuori una cosa insensata. Volevo scrivere una novella. Non riesco mai ad imprimere il mio pensiero in qualche cosa. Non faccio mai niente di buono.

[Antonio Delfini, Diari, cit., p. 7]

14 aprile 1927

domenica 17 Ottobre 2010

Incomincio questo diario sperando che venga pubblicato in avvenire.
Io non son fatto per i diarii perché, quello che sento e che ho provato, mi piace tenerlo per me.
Però tenterò d’incominciare. Non son capace di non nascondere qualche cosa.
Ieri son stato a bere alla stazione. X un agitatore sindacale, ha giuocato con me a chi doveva pagare. Y e Z ne godevano senza alcun pericolo di rimetterci quattrini. In conclusione chi ha pagato di più sono stato io. La colpa di tutto sono stato io. Eravamo al centro. Io che non ho compagni da Baracca, sento ogni tanto il desiderio di averne. Perciò vedendo X, Y e Z, miei derisori, mi è venuto in mente di andare in carrozza con loro alla stazione per bere – (che scimunitaggine!) – ho fatto la proposta – l’hanno accettata. Abbiamo bevuto vari bicchierini in un bar. Di volta in volta che c’era da fare delle spese ce le giuocavamo fra me e X. Sono tornato a casa alle due di notte. Era quasi un anno che non rincasava così tardi per quelle sciocchezze. Oggi Ciarlantini l’ha saputo. Mi ha incominciato a dire che sono un imbecille ad andare con quella gente. X non è onesto, si guadagna anche i denari spettanti a chi manca il pane – almeno così ha detto Ciarlantini.
Ha trovato a ridire perché vado in certi posti.
Oh bella – che ho d’andare con le donne moderne?
Anche oggi ho fumato varie sigarette.

[Antonio Delfini, Diari, Torino, Einaudi 1982, p. 5]

Un’autobiografia

martedì 12 Ottobre 2010

Autobiografia

Antonio Delfini è nato a Modena il 10 giugno 1907. È discendente per li quattro rami da patrioti: tra i quali il capo di S. M. degli insorti gen. Carlo Rossi e il dott. Antonio Delfini (condannato a morte nel 1937) che si trovarono insieme sul brik “Isotta” fermato dall’ammiraglio austriaco Bandiera nell’aprile 1831, e quindi nelle carceri di Sant’Andrea al Lido di Venezia, senza sapere che sarebbero stati i di lui antenati.
Orfano di padre dall’età di un anno, Antonio Delfini è autodidatta.
Ha vissuto a Modena (1907-1935), a Viareggio (1910-1957), a Firenze (1936-1946), e ancora a Modena (1957-1959), a Milano (1950-51), a Roma (1956). Vive attualmente a Roma. È andato a Parigi nel ’32 e nel ’37.
Il 9 settembre 1943 a Viareggio ruba alcuni mitragliatori in una caserma e li porta, solo, in bicicletta, a un gruppo di comunisti comandati da tali Sergio Breschi e Leonardo di Giorgio che si erano rifugiati in montagna. Combina poi diplomaticamente l’unione dei comunisti e dei monarchici a Viareggio, e si forma così una banda partigiana comandata dal capitano di vascello Brofferio. Fino al Natale del 1943 si trova insieme a Giorgio Bassani a Firenze. S’iscrive a qualsiasi formazione clandestina, dovunque e comunque, ma nessuno lo manda mai a chiamare. Continua a leggere »

Tutto

sabato 18 Aprile 2009

Tutto ciò che avete combinato può anche andare bene, signori studiosi.

[Antonio Delfini, Modena 1831, città della Chartreuse, Milano, Scheiwiller 1993, p. 64]

Assolutamente

domenica 28 Dicembre 2008

delfini-copertina

Il libro venne fermato dal minculpop. Poi liberato, per intercessione di Arrigo Benedetti, pur che si togliessero parole volgari da qualche racconto. Anche il minculpop non aveva capito niente del mio messaggio, della mia invocazione alla rivolta. Forse mi ero troppo nascosto. Anche i lettori più attenti non vi capirono nulla. Effettivamente avevo fatto forse in modo che non si capisse niente. Ad ogni modo, quando il libro poté uscire, non venne diffuso. Anzi fu il meno diffuso, della collezione meno diffusa, dell’editore meno diffuso d’Italia. Io non so come abbia, anche il mio libro, potuto esaurirsi. Venne tenuto nascosto per qualche anno nel magazzino dell’editore. Nessuno mi ha mai richiesto di ristamparlo. L’offrii a Mondadori nel 1952, ma lo scrittore Cantoni, funzionario di quella casa editrice, mi fece capire, con gentilezza, che non era assolutamente il caso di parlarne.

[Antonio Delfini, Il ricordo del ricordo, in Autore ignoto presenta, op. cit., p. 292-293]