Un racconto che non scriverò
Dopo tutto il male che hanno fatto alla mia mamma, a mia sorella e a me, io; col cuore in tumulto, malato, orribilmente spaurito dai sistemi della borghesia della mia città, e della città dove mi portarono fin da bambino, e della città vicina nella quale per caso ero andato come a rifugiarmi, io; rimasto senza terra e senza averi, rimasto privo di affetti, torturato per beffa persino dal medico di P. che mi ha ridotto con le mascelle gonfie e gli orecchi quasi sordi, abbandonato da una falsa fidanzata ricchissima che faceva a società con l’avvocato che derubava gli ultimi margini delle mie terre: io avevo ben deciso di scrivere un racconto, un racconto enorme, sconfinato, pieno terribile, vendicativo e giustiziere; un racconto che avrebbe dovuto diventare un romanzo; un romanzo che avrebbe dovuto trasformarsi nella realtà di una Storia Risoluta; io avevo dunque deciso, dopo tutto il male che hanno fatto alla mia mamma, a mia sorella e a me, avevo dunque deciso, davanti a Dio e agli uomini, e ove avessi avuto ancora vita tempo e intelletto, avevo dunque deciso di scrivere senza paura né del Tribunale né degli immondi figuri che mi sono stati appresso derubandomi svilendomi e riducendomi nella solitudine, nel vuoto, nel silenzio dell’angoscia (e così alla mamma, alla sorella). Avevo dunque deciso di scrivere. E doveva diventare il più grosso libro del nostro tempo. Doveva diventare la più grossa condanna del nostro tempo e di quello che l’ha generato, la più grossa condanna perciò dell’antifascismo e dei partiti borghesi antifascisti e del loro padre ambosesso, del loro unico genitore: il fascismo.
Ieri sono andato in pellegrinaggio al Santuario della Madonna Miracolosa di Montenero. Ero naturalmente, come sempre, solo. La mia commozione era tremenda. Reprimevo a ogni passo, a ogni parola, a ogni richiesta (del biglietto del treno, delle cartoline, dei francobolli, delle immagini), reprimevo un pianto talmente profondo, talmente pieno, talmente vero che se l’avessi lasciato sgorgare in lagrime, queste sarebbero state tante che avrebbero finito con l’inondare il fosso della funicolare e avrebbero creato un fiume: le lagrime sarebbero andate a fondersi nel mare. Temevo il verificarsi di un Miracolo, che avrebbe portato maggior dolore ai miei cari, e ancora spasso e un divertimento per quegli esseri immondi e imprecisabili che sono coloro che hanno fatto tanto male alla mia famiglia, a me, alla mia terra e alle immagini di lei, ai miei avi e antenati, alla Storia tutta del mio paese. Ero religioso e al tempo stesso blasfemo se potevo pensare, che come […] di un Peccatore orribile come me, la Santissima Vergine di Montenero avesse voluto premiarmi trasformandomi un un unico fiume di lacrime.
[Antonio Delfini, Diari, Torino, Einaudi 1982, pp. 401-402]