16 ottobre – Bologna
Martedì 16 ottobre,
a Bologna,
alla libreria Coop Ambasciatori,
in via degli Orefici, 19,
alle 18,
La grande Russia portatile
Martedì 16 ottobre,
a Bologna,
alla libreria Coop Ambasciatori,
in via degli Orefici, 19,
alle 18,
La grande Russia portatile
Sabato 6 ottobre,
a Formigine,
in biblioteca,
in via Sant’Antonio, 4,
alle 17 e 30
La grande Russia portatile
– La grande Russia portatile è un libro di storia, letteratura, storia della lingua e del costume russo, ma anche un romanzo autobiografico, una riflessione su grandi temi del presente: da cosa è nata l’idea? Nasce prima da un desiderio di raccontare un’esperienza personale o come “guida” al mondo intimo russo, a partire dalla scrittura?
Nel gennaio del 2018, stavano andando al collegio Borromeo di Pavia a parlare di traduzione a dei dottorandi e, intanto che andavo in stazione in bicicletta, ho pensato che per me, che prima di mettermi a studiare russo avevo lavorato per un anno e mezzo in Algeria, sulle montagne del piccolo Atlante, e per un anno e un po’ a Baghdad, in mezzo alla guerra Iran – Iraq, ecco per me, studiare russo era stata un’avventura più grande delle montagne del piccolo Atlante e della guerra Iran – Iraq, era stata una cosa che aveva cambiato il mio modo di camminare, di pensare, di muovermi, di dormire, di leggere, di parlare, di mangiare, di immaginare, di stare fermo, di ridere, di piangere, di sospirare, di disperarmi, di chiedere scusa, di arrabbiarmi, di concentrarmi e di portare pazienza e che era stata una cosa che, se non l’avessi fatta, nella mia vita, chissà dove sarei andato a finire, e mi sono detto che forse valeva la penna di raccontarla, questa avventura qua.
– Più volte in questo romanzo, ritorna il tema del suo periodo russo come chiave di volta interpretativa sul mondo, ma anche rispetto ad un percorso esistenziale. Ma che cos’è stata questa formazione russa?
Credo che, come vale per me con la Russia, vale per qualcun altro per la Francia, o per il Sudamerica, o per il Portogallo, o non so, è la fortuna di trovare un posto del quale non finisci mai di esser curioso. Io l’ho conosciuta nel ’91, in una condizione che viene raccontata bene da una storiella di una serie televisiva americana, The Americans, dove c’è un colonnello del Kgb che racconta che, nella strada principale di Mosca, ulica Gor’kogo una donna entra in un ristorante e chiede: «Non avete della carne?», e il ristoratore risponde «La carne non ce l’hanno nel ristorante di fronte, qui non abbiamo il pesce». Non c’era niente, allora, a Mosca, ed era bellissimo.
– E la Russia di oggi come le appare?
All’epoca, nel ’91, mi sembrava che la Russia fosse trent’anni indietro, rispetto all’Italia, adesso, nel 2018, Mosca è una città modernissima e molto più avanti, per esempio, di Roma, che, dopotutto, è la nostra capitale; ma una cosa che trovo incantevole è il fatto che oggi, a Mosca e a San Pietroburgo, convivono questa Russia moderna, quella sovietica che ho conosciuto io nel ’91 e quella imperiale del sette e dell’ottocento.
– Il titolo del libro richiama un’altra opera – La piccola battaglia portatile – che affronta, come tema principale, il rapporto padre/figlia. In questo caso invece sembra quasi che il cuore del romanzo sia un rapporto madre/figlio, dove la madre è la Russia, paese di elezione e formazione. Anche nel libro torna spesso il tema della relazione affettiva: esiste un nesso fra questi due mondi che, sempre stando alle parole del testo, non si toccano mai, o si sono toccati un’unica volta?
Ho presentato il libro a Mantova, e una mia amica, che era lì a sentire, mi ha detto che tutti e due i libri, secondo lei, sono due libri d’amore. Io le ho risposto che amore è una parola che faccio fatica a dire, e che amare è un verbo che non uso quasi mai, probabilmente perché in dialetto parmigiano non esiste, non si dice “Ti amo”, da noi, si dice “At voi ben”, e “A mor”, in parmigiano, non significa Amore, ma “Io muoio”, e la mia lingua, anche quando parlo della Russia, ha molto a che fare col dialetto parmigiano, credo, e con il modo in cui si parla per le strade di Parma. Credo però che forse avesse ragione quella mia amica, sono due romanzi d’amore.
– E adesso quale prossimo viaggio ci aspetta?
Adesso vediamo.
[Intervista a Caterina Bonetti uscita oggi sulla Gazzetta di Parma]
E se un popolo non ha poeti, è come se gli avessero tagliato la lingua.
Jurij Lotman
[Si ristampa La grande Russia portatile: grazie a tutto lo staff di Salani, che sta lavorando benissimo, a tutti quelli che l’hanno letto e che ne hanno parlato, che son stati così cari, con questo libretto]
[Mi hanno chiesto di mettere qui il discorso che ho fatto sabato scorso a Gressoney, l’ho un po’ ricostruito, in fagottone, ci saranno dei refusi, ho aggiunto anche delle cose (Perec non c’era), lo copio qua sotto, è un po’ lungo (tempo di lettura: venti minuti)]
Sabato 15 settembre,
a Gressoney,
dentro il premio Subito,
alle 16.30, leggo una brevissimo discorso
(tra i 15 e i 20 minuti)
che si intitola
Ei fu, siccome immobile (elogio della letteratura russa)
e che è una specie di riassunto della
Grande Russia portatile.
E l’ultimissima cosa che mi preme di dire è una cosa che riguarda un paese in provincia di Reggio Emilia e un musicista italiano che si chiama Massimo Zamboni che l’anno scorso, nel 2017, ha fatto uno spettacolo dedicato alla rivoluzione russa e mi ha chiesto di interpretare la parte di Lenin, cosa che io non ho fatto perché, nel 2017, non volevo far niente che avesse a che fare con la rivoluzione russa, e anche perché, in quello spettacolo, io avrei dovuto dire le cose che mi dicevano loro e io, è una mia debolezza, cerco di dire le cose che dico io, allora pazienza.
Peccato però, perché il finale dello spettacolo mi piaceva molto e riguardava Cavriago, che è un paese in provincia di Reggio Emilia dove c’è ancora un busto di Lenin, busto che era stato donato a Cavriago in considerazione del fatto che nel 1919 il partito socialista di Cavriago aveva approvato un Ordine del giorno che apprezzava «il programma del Soviet di Russia» e plaudiva «al suo capo Lenin per l’instancabile opera che sostiene contro i reazionari sostenitori dell’imperialismo».
Questo ordine del giorno, pubblicato dall’Avanti, era stato citato da Lenin in un intervento del 6 marzo 1919 alla seduta del Comitato Esecutivo Centrale del Soviet di Mosca. Aveva citato Cavriago. Lenin.
Allora Cavriago ha sempre avuto una relazione, non so come dire, privilegiata, con l’Unione Sovietica, e quando, il 25 dicembre del 1991, sulla piazza rossa di Mosca era stata ammainata la bandiera sovietica, quella rossa, a Cavriago si eran trovati in tanti, in piazza Lenin, e, piangendo, avevano liberato dei palloncini rossi che si erano alzati in cielo.
Il cielo di Gagarin.
Quello senza Dio.
E senza santi.
Ecco.
Arrivederci.
Domenica 9 settembre,
a Mantova,
alle 12 e 30,
all’officina del gas – vicolo stretto,
La grande Russia portatile
(è la cosa numero 182, costa 6 euro)
In una serie televisiva americana del 2013, The Americans, ambientata negli anni ottanta, c’è un colonnello del Kgb che racconta che, nella strada principale di Mosca, ulica Gor’kogo (che adesso si chiama Tverskaja), una donna entra in un ristorante e chiede: «Non avete della carne?», e il ristoratore risponde «La carne non ce l’hanno nel ristorante di fronte, qui non abbiamo il pesce».
Era un periodo, il periodo in cui io ho conosciuto Mosca, e la Russia (che era ancora, per qualche mese, una delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), che nei negozi non si trovava niente, la vodka, la carta igienica, il pane, e uno come me, che veniva dall’occidente, veniva considerato uno che veniva dal progresso, da un posto in cui le cose funzionavano.
Il fatto che, in quel periodo, mancasse, tra le altre cose, la vodka, che, in Russia, non è un bene accessorio, è un bene essenziale, indispensabile, fondamentale, il centro attorno al quale ruota l’intera gastronomia russa, mi viene da dire (anche se non sono un esperto di gastronomia e se questa, forse, è un’affermazione un po’ azzardata) era un fatto, l’assenza della vodka, che comportava delle conseguenze, per esempio il fatto che, dovendo bere qualcosa, si beveva l’acqua di Colonia, che costava poco, si trovava, e produceva un effetto simile, a quello prodotto dalla vodka.
E questa cosa, il dover bere acqua di Colonia invece di qualcosa come si deve, aveva alimentato, tra i russi, un certo senso di inferiorità nei confronti del mondo occidentale, senso di inferiorità espresso, all’epoca, in una celebre canzone di un gruppo che si chiama Nautilus Pompilius; la canzone si intitola Vsgljad s ekrana (Sguardo dallo schermo) e il suo protagonista è Alain Delon, il celebre attore francese; il ritornello fa così: «Alain Delon, Alain Delon, non beve Eau del Cologne; Alain Delon, Alain Delon, beve dei gran bourbon; Alain Delon, lui parla il francese».
[La grande Russia portatile, prima presentazione domani a Castelsardo, se riesco a arrivare]
In un libro di Sergej Dovlatov a un certo momento si legge:
Questa cosa è successa all’accademia d’arte drammatica di Leningrado. Si era esibito davanti agli studenti il noto chansonnier francese Gilbert Becaud. Alla fine l’esibizione era finita. Il presentatore si era rivolto agli studenti.
– Fate delle domande.
Tutti avevan taciuto.
– Fate delle domande all’artista.
Silenzio.
E allora il poeta Eremin, che si trovava in sala, aveva detto, ad alta voce:
– Chèl òr ètìl? (Che ore sono?)
Gilbert Becaud aveva guardato l’orologio e aveva risposto, gentilmente:
– Le cinque e mezza.
E non si era offeso.
Ecco. La Russia di Dovlatov non era la Russia triste, seria e noiosa che in Italia si immaginava che fosse, la Russia di Dovlatov era un posto che mi sembrava di essere in un bar della periferia di Parma, con degli asini che erano simili, secondo me, agli asini parmigiani che conoscevo io.