Il giornale che farei io

lunedì 17 Settembre 2018


[Mi hanno chiesto di mettere qui il discorso che ho fatto sabato scorso a Gressoney, l’ho un po’ ricostruito, in fagottone, ci saranno dei refusi, ho aggiunto anche delle cose (Perec non c’era), lo copio qua sotto, è un po’ lungo (tempo di lettura: venti minuti)]

Mi hanno chiesto di scrivere, sulla Verità, una serie sui social network, e l’ultimo pezzo è uscito ieri, e io, sapendo che dovevo venire qui, ho scritto un pezzo che ha a che fare con questo convegno e con il tema Guardare is the new leggere, e comincerei leggendovi quello:
Mi hanno detto che i social network che uso io, che sono Facebook e Twitter, sono, soprattutto Facebook, dei social network da vecchi.
Mia figlia, che ha quasi 14 anni, e i suoi compagni di classe, che hanno 14 anni anche loro, non hanno un profilo di Facebook e non hanno nessuna intenzione di aprirlo. Che è un po’ un peccato, per Facebook. Che è nato nel 2004 e, per una manciata di anni, è stata una cosa molto moderna. Adesso non più. E, tra dieci anni, o poco più, in Italia lo useranno solo gli over cinquanta.
Ci sono, quelle mode che duran pochissimo. Come la moda dei paninari. O la moda degli orologi con le fasi lunari. O la moda delle giacche con le spalline. Negli anni ottanta eran delle cose da giovani, da gente che sapeva stare al mondo, che era informata di tutto, adesso sembrano un po’ ridicole, come ridicoli, agli occhi dei giovani di oggi, devono probabilmente sembrare quelli che hanno un profilo di Facebook, tra i quali anch’io, c’è da dire.
C’è però anche da dire che io non ho solo un profilo di Twitter e di Facebook, ne ho anche uno di Instagram, che invece mi dicono che sia un social network che quello sì, che oggi è di moda e che promette di restarlo per tutto il 2019, forse, perfino.
Non l’ho mai usato, il mio profilo di Instagram, cioè l’ho usato solo per andare a vedere i profili di altri, ma di pochi, seguo pochissima gente, su Instagram: Gervinho, che è un giocatore del Parma, che è la squadra per cui tengo; Alicia Piazza, che era la vicepresidente della Reggiana, che era la squadra antagonista di quella per cui tengo (adesso è fallita, si chiama in un altro modo, Audace, o qualcosa del genere, e Alicia Piazza non è più vicepresidente); Pierluigi Bersani, Maria Elena Boschi e Corrado Passera.
Maria Elena Boschi e Corrado Passera li seguo perché mi piacciono i fallimenti (politici, non personali, non li conosco e magari loro, come persone, stanno benissimo), Bersani è quello che seguo da più tempo e proprio per seguire Bersani, nel 2012, devo avere aperto il mio profilo di Instagram, se non ricordo male.
Perché c’era appena stato il terremoto, in Emilia, e Bersani aveva postato una foto, Instagram è il social che la gente, soprattutto, ci mette delle foto, Bersani aveva postato una foto che c’era una strada di Mirandola piena di mattoni. Sembrava un fiume di mattoni, come uno tzunami di mattoni, un’ondata di mattoni che aveva distrutto tutto quello che aveva trovato sulla sua strada, faceva impressione, faceva paura, e immaginarti che quella cosa era una cosa vera e vicinissima a casa tua, io quella foto l’avevo guardata dalla mia casa di Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna, era doloroso, perfino.
E, anche per questo, la scritta che c’era sotto quella foto suonava in un modo stranissimo. C’era scritto: «pbersani sta usando Instagram – un modo divertente ed alternativo per condividere la tua vita con i tuoi amici attraverso una serie di immagini. Scatta una foto e scegli un filtro per trasformare lo scatto in un ricordo che rimane per sempre».
Che Bersani, dite quel che volete, ma secondo non è mai stato capace, di maneggiar la modernità, chissà come si vestiva negli anni ottanta, mi vien da pensare. Il suo profilo, tra l’altro è in disuso, l’ultimo post è del 2013, cinque anni fa.
Ma, a parte Bersani, che è anche lui un po’ passato di moda, forse, a parte Bersani mi viene da chiedermi come mai Instagram è più moderno, di Facebook e di Twitter.
Forse c’entra il fatto che Instagram è un social prevalentemente di immagini. Puoi postare anche un testo, ma quello che domina, lì, sono le immagini, le foto, come quella di Bersani.
Mi viene in mente un convegno a cui son stato invitato, sabato e domenica, a Gressoney, convegno che si intitola Visto si stampi e il cui tema è «Guardare is the new leggere», dove credo si ragionerà sul fatto, che è vecchio anche lui di cent’anni (lo diceva un poeta russo straordinario che si chiama Velimir Chlebnikov) che l’immagine ha vinto, che è più potente, del testo.
Ecco, io, devo dire, non lo so, se sono d’accordo.
E non so se sono d’accordo perché nella mia esperienza, semplicemente, non è vero.
Il primo libro da grandi che ho letto, il primo libro senza figure, sono passati più di quarant’anni e io, di quel momento lì che ho scoperto i libri da grandi, quante cose ci possono essere dentro un libro senza figure, mi ricordo tutto: mi ricordo dov’ero, sotto il portico di casa nostra in campagna, mi ricordo mia nonna che cantava in cucina, mi ricordo che passava mio babbo con dei secchi di calce, mi ricordo la sedia arancione su cui ero seduto, mi ricordo la polvere che c’era nell’aria, mi ricordo la sensazione stranissima dovuta al fatto che io, incantato dal libro, non ero per questo incanto estraniato dal mondo ero dentro, nel mondo: leggere produceva un effetto stranissimo, faceva diventare il mondo più mondo.
E questa sensazione di esser nel mondo (più mondo) l’ho poi riprovata ogni volta che ho riconosciuto la letteratura: Delitto e castigo, di Dostoevskij, sdraiato nel letto della mia stanzetta minuscola di Basilicanova, mi sembra di vedere ancora il copriletto, le Poesie di Chlebnikov, da in piedi, appoggiato allo scaffale dei russi della Biblioteca Guanda di Parma, e potrei quasi descriver le facce di chi stava studiando, il primo libro che ho letto per intero in russo, Romanzo teatrale, di Michail Bulgakov, sulla metropolitana di Mosca nel 1993, che ero così contento, che finalmente leggevo un libro in russo che mi chiedevo “Come andrà a finire?”, e mi ricordo, perfettamente, come ho alzato la testa, in quella metropolitana, quando mi sono accorto che era un libro incompiuto, e mi sembrava che, in quel vagone verde e marrone, tutti i passeggeri mi guardassero scuotendo la testa e pensando “Che deficiente”.
A ciascuno di questi libri, e a tanti altri, io devo, dentro di me, un’immagine potentissima, e la potenza di queste immagini che sono lì, nella memoria della mia pancia, è dovuta a un testo, non a una figura; i testi, quando ci prendono, sono produttori di immagini che, credo, resisteranno anche a Instagram, ben oltre il 2019, secondo me.
Come il cielo della Russia; a me piace molto andare in Russia, e il cielo della Russia io ho cominciato a vederlo quando ho letto una poesia di Chlebnikov che dice: «Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / Un ditale di latte, / E questo cielo / E queste nuvole». Senza questa poesia io vedrei molto meno, quando sono là.
Certo, anche le immagini, quando ci prendono, producono degli effetti stupefacenti, e, su questa cosa, vorrei leggervi un pezzetto che ho scritto a proposito di un Almanacco sulla via Emilia curato dallo scrittore Ermanno Cavazzoni che aveva a che fare con il fotografo Luigi Ghirri.
Per uno che abita in Emilia, ho scritto, scrivere un pezzo che parli dell’Emilia, o della via Emilia, a me sembra una cosa difficilissima.
Mi viene in mente il periodo in cui una rivista di viaggi mi aveva mandato nel Mississippi a scrivere di blues, nel 2002, e io ci ero andato e molti di quelli che incontravo per strada e ai quali chiedevo cosa pensavan del blues mi guardavano stupiti e poi mi dicevano che loro, del blues, non ne pensavano niente, e che ascoltavano della musica tutta diversa.
E io mi ero sentito come credo si sarebbe sentito un americano che fosse venuto in Emilia convinto che tutti gli emiliani ascoltassero il liscio, bevessero il lambrusco e mangiassero i tortellini quando si fosse accorto che c’eran degli emiliani che il liscio non lo ascoltavano e erano astemi e vegetariani.
E mi è tornato in mente un esempio che mi torna in mente spesso, in questi ultimi mesi, l’esempio di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.
Che, per uno che non ha mai visto un guinzaglio, e non ha idea neanche di cosa sia, è esattamente quello che succede tutte le mattine, anche sotto casa mia, solo che vederlo è difficile, perché io son così abituato, ai guinzagli, che ho smesso di vederli, e con l’Emilia, mi sembra, succede la stessa cosa, e è per ovviare a questa mancanza di intelligenza nel mio sguardo, che secondo alcuni critici e alcuni teorici dell’arte esistono l’arte e la poesia.
L’arte, ha scritto una volta un filosofo che si chiama Agamben, non serve per rendere visibile l’invisibile, serve per rendere visibile il visibile, e questa cosa, con l’Emilia, a me è successa grazie alla fotografie di Luigi Ghirri.
Prima di vedere le fotografie di Luigi Ghirri, se pensavo all’Emilia io, oltre che al ballo liscio, al lambrusco e ai tortellini, pensavo a poche cose, ai pioppi e al fiume Po, prevalentemente; c’erano queste immagini bucoliche che non avevano niente a che fare con le mie giornate, abito lontano dai pioppi e dal Po, ma che erano da qualche parte nella mia testa dentro una cartellina con su scritto «Emilia».
Dopo che ho visto le fotografie di Ghirri, io mi sono accorto che in Emilia ci sono anche i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità, il cielo. Lui
, Ghirri, con le sue fotografie, è come se avesse preso con due dita l’imballaggio che avvolgeva l’Emilia, sotto casa mia, e avesse tolto dal loro imballaggio che li rendeva invisibili i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità e il cielo che c’erano sotto casa mia e io adesso, è incredibile, riesco a vederli, e la cosa è ancora più incredibile se si considera che Ghirri, sotto casa mia, probabilmente, non c’è mai neanche passato.
C’è un testo dello scrittore francese Georges Perec che dice che i quotidiani parlano di tutto tranne che del quotidiano, e che lui vorrebbe che non parlassero solo dello straordinario, degli ma anche dell’infraordinario, di quello che succede per le strade, dei guinzagli, appunto: « Quello che succede davvero, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Quello che succede tutti i giorni e che torna a succedere ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, come renderne conto, come interrogarlo, come descriverlo?».
A me sembra che questa cosa, più che i giornali, l’abbiano fatta i libri, e, tra tutti i libri che ho letto, quelli che mi sembra l’abbiano fatta meglio, sono i libri russi, la migliore letteratura del mondo, per conto mio, e io ho anche l’impressione di avere capito perché, la letteratura russa è la migliore del mondo, e l’ho scritto in un libretto che si chiama La grande Russia portatile dove a un certo punto c’è questa citazione, non breve, ma è l’ultima:
Nel 2008 ero a presentare un libro in Toscana e avevo detto che, a studiare una lingua straniera, uno si accorge di cose dell’italiano che non aveva ma notato, e che mi sembrava che la cosa fosse particolarmente vera con il russo, per via del fatto che il russo e l’italiano sono molto diversi; l’italiano, per esempio, per la maggior parte degli italiani, per mia nonna, per dire, che era nata nel 1915, era stata prima una lingua scritta, imparata a scuola, poi una lingua parlata (mia nonna, quando è nata, la lingua che parlava, la sua lingua madre, era il dialetto parmigiano), mentre il russo, per tutti i russi, è prima una lingua parlata poi una lingua scritta (i russi hanno l’alfabeto solo nel IX secolo dopo Cristo e in Russia non esistono i dialetti, il russo di Mosca, di San Pietroburgo e di Vladivostok è praticamente lo stesso).
Proprio andando a Vladivostok, sulla transiberiana, a un certo punto era montato sul treno un saldatore che citava l’Onegin, il romanzo in versi di Puškin, con una naturalezza che mi aveva stupito ma che, a pensarci, non era per niente stupefacente, perché l’inizio dell’Evgenij Onegin, il romanzo in versi di Puškin, scritto ai primi dell’ottocento, che può essere considerato l’inizio della letteratura russa moderna, quell’inizio lì, «Moj djadja samych čestnych pravil, kogda ne v šutku sanemog, on uvažat’ sebja sastavil, i lučše vydumat’ ne mog», che in italiano può esser tradotto approssimativamente «Mio zio, che aveva dei princìpi molto onesti, quando si è ammalato per davvero, ha preteso che tutti lo rispettassero, e non poteva aver miglior pensiero», quell’inizio lì, in Russia, lo capiscono anche i bambini, invece una poesia italiana contemporanea all’Onegin, non so, il cinque maggio, di Manzoni, «Ei fu, siccome immobile, / dato il mortal sospiro, / stette la spoglia immemore, / orba di tanto spiro», questi versi qui, se li dici a un bambino italiano chissà cosa capisce, adesso quando torno a Bologna voglio provare, avevo detto quella volta lì, e pensavo che l’avrei letta a mia figlia, la Battaglia, che allora aveva cinque anni.
Dopo mi ero scordato.
Mia nonna, che aveva fatto la seconda elementare, con l’italiano lei non aveva un rapporto, non so come dire, sereno, non lo sapeva benissimo, faceva degli errori, per esempio il boiler lo chiamava «Bolide».
Dopo un’altra volta, ero in giro a presentare un libro, avevo parlato ancora di come erano diversi il russo e l’italiano, e del fatto che i primi versi dell’Onegin, in Russia li capiscono anche i bambini, invece, per dire, «Ei fu, siccome immobile, / dato il mortal sospiro, / stette la spoglia immemore, / orba di tanto spiro», se lo dici a un bambino italiano chissà cosa capisce, adesso quando torno a Bologna voglio provare, avevo detto quell’altra volta lì. Dopo mi ero scordato.
Un’altra volta ancora, ero in giro a presentare un libro, avevo parlato di come sono diversi il russo e l’italiano, e del fatto che i primi versi dell’Onegin in Russia li capiscono anche i bambini, invece, per dire, «Ei fu, siccome immobile, / dato il mortal sospiro, / stette la spoglia immemore, / orba di tanto spiro», se lo dici a un bambino italiano chissà cosa capisce, «Adesso quando torno a Bologna voglio proprio provare», avevo detto quella volta lì.
Dopo poi ero tornato a casa, avevo preso la Battaglia, le avevo detto: «Ascolta, adesso ti dico una cosa e tu mi dici quello che capisci».
«Va bene», mi aveva detto lei.
E io le avevo detto: «Ei fu, siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore, orba di tanto spiro», e poi le avevo chiesto: «Cos’hai capito?».
E lei ci aveva pensato un po’ e poi mi aveva detto: «Che lui è lì, in piedi, che gioca a memory respirando».
Ecco.
Manzoni, e quelli che scrivevano in italiano nell’ottocento, non avevano lo strumento, per farsi capire; Settembrini, nel 1870, finiva le sue lezioni sulla letteratura italiana augurandosi che l’italiano sarebbe diventata una lingua viva. Questo significa, come nota De Mauro, che l’italiano allora era una lingua morta, nel 1870, nove anni dopo l’unità d’Italia.
Ma come mai l’italiano era una lingua morta e il russo invece era una lingua viva? Come mai, non lo so.
Quello che so è che il russo, la lingua di Puškin, è prima una lingua parlata, e poi una lingua scritta, e che i russi, come ho già datto, fino al IX secolo non hanno neanche l’alfabeto (la missione di evangelizzazione di Cirillo e Metodio, che inventano l’alfabeto glagolitico, che poi verrà ribattezzato, dai discepoli di Cirillo, cirillico, è dell’846), e quindi quando i russi scrivono, adesso semplifico ma un po’ è così, scrivono usando una lingua che tutti i russi parlano e che conoscono tutti, invece gli italiani che si mettono a scrivere, nel 1861, scrivono in una lingua che, secondo le stime di De Mauro, parlava il 2 e mezzo per cento degli italiani.
Questo vuol dire che il 97 e mezzo per cento degli italiani non sapevano l’italiano, e per i loro discendenti, ivi compresa mia nonna, e i nostri nonni, e i nostri padri, la lingua madre, «quella cui i bambini vengono abituati da chi sta loro accanto quando per la prima volta cominciano ad articolare distintamente le parole», dice Dante, la lingua madre, non era l’italiano, era il dialetto, e l’italiano, per loro, era lingua della scuola, che imparavano a scuola, che imparavan sui libri, e questa differenza tra la lingua che leggiamo nei libri e la lingua che parliam tutti i giorni è una differenza che ce la portiamo dietro fino ad oggi, anche se non è evidente, perché a noi sembra naturalissimo che dentro nei libri ci siano scritte delle cose diverse da quelle che sono dette per strada, e invece non è naturale per niente, secondo me, è la situazione che si è creata in Italia per via di un fatto stranissimo che per qualche decennio, una quindicina, dall’unità d’Italia in poi, il fatto di conoscere bene l’italiano, in Italia, non era una cosa normale che succedeva a tutti i madrelingua, era una cosa speciale che succedeva a chi aveva avuto la possibilità di studiare, e mia nonna, per dire, che veniva da una famiglia povera, e che erano diciassette fratelli e sorelle, era andata a lavorare, a servizio da un generale, che aveva nove anni, per aiutare in famiglia, e per quello non era riuscita a studiare, aveva fatto la seconda elementare, e quando sentiva, per radio, per televisione, qualcuno che faceva un discorso difficile, con un lessico complicato e una sintassi articolata che lei non capiva molto bene, la sua reazione, di solito, era ammirata, diceva: «Ha parlato come un libro stampato», perché i libri stampati, secondo lei, erano scritti da quelli che avevano studiato e erano da ammirare, perché sapere l’italiano era un segno distintivo, voleva dire avere studiato e esser stati bravi a scuola, questo in Italia all’epoca di mia nonna, dagli anni dieci agli anni novanta del novecento, invece in Russia, cento anni prima, intorno al 1820, la situazione era come ribaltata.
Perché quelli che avevano studiato, erano anche lì una minoranza, della popolazione, ma era una minoranza che conosceva meglio il francese del russo, perché i loro educatori erano quasi tutti francesi e la lingua che usavan tra di loro, sia nella conversazione che nella corrispondenza, era il francese.
Cosa che è evidente da molti romanzi russi dell’ottocento, come Anna Karenina, per esempio, dove le donne della famiglia del fratello di Anna, la famiglia Bolkonskij, quando si rivolgono alla mamma non dicono «mama» (in cirillico: мама, il cirillico è facilissimo, si impara in ungiorno), non usan la parola russa, dicon «maman», segno evidente del fatto che la loro lingua madre, «quella cui i bambini vengono abituati da chi sta loro accanto quando per la prima volta cominciano ad articolare distintamente le parole», non era il russo, era il francese.
Nel 1822, prima di mettersi a scrivere in prosa (avrebbe poi previsto, per la fine della propria vita, di deviare sempre più spesso verso «l’umile prosa»), in un appunto intitolato Sullo stile, Puškin scrive: «Una volta D’Alembet disse a La Hapre: non elogiatemi Buffon, una persona che scrive: La più nobile tra tutte le acquisizioni umane fu questo animale superbo, focoso, ecc. Perché non dire semplicemente: cavallo? E cosa dire allora dei nostri scrittori – continua Puškin – che ritenendo cosa meschina lo spiegare con semplicità le cose più normali, pensano di ravvivare una prosa infantile con aggiunte e logore metafore? Costoro non diranno mai: Amicizia senza aggiungere: codesto sentimento sacro, la cui nobile fiamma, ecc. Bisogna dire: la mattina presto, e loro scrivono: Non appena i primi raggi del sole che sorgeva rischiararono le contrade orientali dell’azzurro cielo: – ah, che novità, che freschezza! È forse meglio perché è più lungo? Leggo la recensione di un amatore del teatro: Questa giovane allieva di Talia e Melpomene, generosamente dotata da Apollo… Dio mio! Ma scrivi: Questa brava giovane attrice, e continua così, sta pur sicuro che nessuno presterà attenzione alle tue frasi, nessuno ti dirà grazie. Un vile zoilo, la cui mai sopita invidia riversa il suo soporifero veleno sui laure del Parnaso russo, la cui spossante ottusità può essere paragonata soltanto all’insaziabile cattiveria… Dio mio!, perché non dire semplicemente cavallo?».
Ecco.
Lui, Puškin, quando si sarebbe messo a scrivere in prosa, avrebbe detto semplicemente cavallo, e non solo in molti l’avrebbero poi ringraziato, ma avrebbero cominciato anche tutti a scrivere come lui, con quella lingua che era il russo parlato da quelli che non sapevo leggere e scrivere, il russo degli ignoranti, dei semicolti, il russo delle fiabe che gli raccontava, fin da quanto era piccolo, la sua njanja, la sua nutrice, la sua bambinaia, come si può dire, la sua tata, Arina Rodionovna, una serva della gleba alla quale, nel governatorato di Pskov, dove Puškin è nato, le hanno fatto un monumento, e io credo che abbiano fatto bene, perché lei, questa contadina schiava e ignorante è un po’ la madre della lingua russa, perché buona parte della letteratura russa moderna viene da lei, perché è stata lei l’intermediaria tra Puškin e quella lingua straordinaria, così diffusa, così comprensibile a tutti, una lingua nella quale era possibile chiamare cavallo il cavallo, una lingua che ha fatto la fortuna della letteratura russa dell’ottocento e ben diversa dalla lingua in prosa che l’ha preceduta (Turgenev scriverà, qualche anno dopo: «Puškin, da solo, ha dovuto fare due lavori che, in altri paesi, sono stati fatti a distanza di interi secoli, e anche di più, vale a dire: organizzare una lingua, e creare una letteratura»).
Insomma è come se la letteratura russa fosse scritta tutta in dialetto, come se fosse tutta scritta con uno strumento così duttile, così flessibile, così popolare, così parlabile, così intelligente, così fatto di terra e di carne come un dialetto, è per quello che ci piace tanto.
Quindi, per concludere, io adesso ho ascoltato molte suggestioni su come fare un quotidiano e ho pensato che io, se dovessi fare un quotidiano, lo farei che parla di cose ordinarie, di guinzagli, e scritto praticamente in dialetto, e non lo comprerebbe nessuno, credo, forse è meglio se continuo a scriver dei libri.
Finito.