A meno che

mercoledì 29 Agosto 2018

A meno che voi, lettori occidentali (ammesso che siate dei lettori occidentali) non pensiate di essere superiori, ai russi.
Che, per carità, se lo pensate, potete anche pensarlo, solo che se pensate di essere superiori, o, meglio, se pensate che i russi, o gli slavi, siano inferiori, se pensate, per esempio, che loro, gli slavi, abbiano «iscritta nel proprio DNA una particolare ferocia», potete pensarlo, per carità, solo state attenti a dirlo in giro, che io l’ho sentito detto, qualche anno fa, al parlamento italiano da un deputato di un partito che si chiamava Alleanza Nazionale, il giorno della strage in cui erano morti la mamma e il fratello di Erika, la morosa di Omar. «È chiaramente un delitto compiuto da degli slavi, che hanno iscritta nel loro DNA questa ferocia», aveva detto quel parlamentare.
Il giorno dopo Erika e Omar avevano confessato che eran stati loro.
Figura di merda.
Attenti.

[Domani esce La grande Russia portatile]

Un po’ dappertutto

venerdì 24 Agosto 2018

Una canzone del cantante bolognese Dino Sarti si intitola Com’è la Russia e comincia così: «Sono stato un po’ dappertutto, a Bazzano, a Seul, a Monghidoro, a Teheran, a Beirut, persino a Rho, ma non ero mai stato in Russia; la cosa più divertente, per uno che va in Russia, è il ritorno dalla Russia, tutti chiedono, vogliono sapere. “Be’, allora, Dino, com’è la Russia?”». A questa domanda, che tutti quelli che son stati in Russia (e anche tutti quelli che ci andranno) si sono sentiti (e si sentiranno) fare, Dino Sarti risponde «La Russia è grande».
Così, se andate in Russia, quando tornate che vi chiederanno «Be’, allora, com’è la Russia?», se voi risponderete «La Russia è grande», direte una cosa vera: io, per conto mio, la prima volta che ci sono stato, nell’aprile del 1991, fin dal primo momento che ero lì, all’aeroporto Šermet’evo II, quando ho alzato gli occhi, mi è sembrato evidente, a guardare il cielo, che eravamo in un paese grande, e mi sono tornati in mente i versi di Velimir Chlebnikov che dicono: «Poco, mi serve: una crosta di pane, un ditale di latte, e questo cielo, e queste nuvole».

[Mi sono arrivate le prime copie della Grande Russia portatile, ieri mattina]

Un libro

sabato 18 Agosto 2018

[Mi hanno avvisato che oggi è uscita la prima recensione (su D) della Grande Russia portatile, che esce il 30 agosto, questo, più o meno, è l’inizio del libro)]

Ho cominciato a studiare russo nell’autunno del 1988, trent’anni fa, e, anche se ero già adulto (avevo 25 anni), per me la Russia è stato il posto dove sono diventato grande.
Ci sono arrivato nel 1991, quando era ancora Unione Sovietica, ero là durante la rivoluzione del 1993, con l’assalto alla casa bianca, ci ho vissuto durante il coprifuoco che ne è seguito, ho visto le code davanti alle banche determinate dalla riforma monetaria che ha obbligato tutti i russi a cambiare, in tre giorni, tutti i contanti che avevano, che da lì a tre giorni non sarebbero valsi più niente, carta straccia, ho fatto la fila per comprare il pane, ho comprato un orologio Raketa, ho vissuto a Mosca quando non si trovava la carta igienica, ho visto lo studio del più grande pittore russo contemporaneo, ho fatto una fotografia nella giacca di Sergej Dovlatov, ho partecipato al primo festival d’arte d’avanguardia e delle performance di San Pietroburgo, ho fatto tutta, senza mai scendere, la transiberiana, da Mosca a Vladivostok, ho visto i soldi che distruggevano la rovina incantevole della piazza del Fieno di Dostoevskij, ho dormito su un banco del settore libri rari della biblioteca Pubblica di Pietroburgo, ho pianto nella sala di lettura numero 4 della biblioteca Lenin di Mosca, ho trovato per la prima volta il coraggio di regalare dei fiori a una donna e ho scoperto, in Russia, come mi piace l’Italia, il suo odore, e mi sono accorto, studiando russo, di che lingua meravigliosa è l’italiano: in questo libro ci sono un po’ di queste cose, e qualche altra ancora, ci sono trent’anni che hanno ribaltato il più grande paese del mondo che, miracolosamente, è rimasto il posto stupefacente che era la prima volta che ci sono andato, nel 1991.

Dispiaceri

sabato 28 Luglio 2018

Nel 2010, più o meno, in Italia, in settembre, su un treno regionale affollato, da Bologna a Parma, quei treni da pendolari nei quali, subito dopo le sei di sera, quando la gente finisce di lavorare, si trovano solo posti in piedi, su uno di quei treni io ero lì, in piedi, nel corridoio e avevo sentito, senza volere, un signore che raccontava al suo dirimpettaio, che era probabilmente un suo collega, di esser stato in vacanza a Mosca, e di avere visto delle cose bellissime, come per esempio la metropolitana e, di fronte all’espressione interdetta del dirimpettaio si era sentito in dovere di dire «Ah ma, l’hanno fatta gli zar, eh?».
Ecco.
No.
Non l’avevano fatta gli zar.
L’hanno fatta i sovietici insieme a tante altre cose come si deve che avevano fatto i sovietici, come gli uffici oggetti smarriti delle tranvie di Pietrogrado, o la liberazione di Auschwitz, per esempio, mi viene da dire, e ci arriveremo, c’è il caso, ma per il momento mi preme di dire una cosa che forse dispiacerà, a qualcuno, che l’Unione Sovietica, quando l’ho vista io, nel 1991, mi dispiace, era un posto bellissimo, che era così grigio, così povero, così misero, così fatto a mano, così diverso dai nostri posti, che scintillava di bellezza, di dolore, di amore, di solidarietà, mi dispiace ma a me era sembrato così.

[Dalla Grande Russia portatile, esce a fine agosto]

L’ultimo giro di bozze

mercoledì 4 Luglio 2018


Una canzone del cantante bolognese Dino Sarti si intitola Com’ è la Russia e comincia così: «Sono stato un po’ dap- pertutto, a Bazzano, a Seul, a Monghidoro, a Teheran, a Beirut, persino a Rho, ma non ero mai stato in Russia; la cosa più divertente, per uno che va in Russia, è il ritorno dalla Russia, tutti chiedono, vogliono sapere. ‘Be’, allora, Dino, com’è la Russia?’». A questa doman- da, che tutti quelli che son stati in Russia (e anche tutti quelli che ci andranno) si sono sentiti (e si sentiranno) fare, Dino Sarti risponde «La Russia è grande».
Così, se andate in Russia, quando tornate che vi chie- deranno «Be’, allora, com’è la Russia?», se voi risponde- rete «La Russia è grande», direte una cosa vera: io, per conto mio, la prima volta che ci sono stato, nell’aprile del 1991, n dal primo momento che ero lì, all’aero- porto Šermet’evo II, quando ho alzato gli occhi, mi è sembrato evidente, a guardare il cielo, che eravamo in un paese grande, e mi sono tornati in mente i versi di Velimir Chlebnikov che dicono: «Poco, mi serve. Una crosta di pane, un ditale di latte, e questo cielo, e queste nuvole».

Dal 1988 al 2018

martedì 19 Giugno 2018

Su dei filobus di Leningrado ho cullato la mia solitudine con una tenerezza alla quale solo in Russia, ho avuto accesso, e gli incubi che ho fatto in Russia son stati più incubi che in qualsiasi altra parte del mondo in cui io abbia dormito, e bere, in Russia, per me è stato più bere di quel che è stato bere in Italia, così come una biblioteca, in Russia, come la biblioteca Lenin di Mosca, o la Biblioteca Pubblica di Pietroburgo, son state più biblioteche, delle biblioteche italiane: quello è stato un posto, per me, che le cose erano le cose, dal 1988, quando ho cominciato a studiare russo, fino ad oggi, qui, nel 2018, che provo a raccontare come, e perché, la Russia si fa voler tanto bene.

[Scheda per la lettura della Grande Russia portatile al Festivaletteratura di Mantova]

Forse

domenica 17 Giugno 2018

Ecco, a me, devo dire, piacerebbe moltissimo che qualche politico, di governo o di opposizione, facesse un discorso simile a quello che il poeta Iosif Brodskij ha fatto in occasione della cerimonia annuale per il conferimento delle lauree all’Università del Michigan nel 1988, quando ha detto: «La sola cosa che di sicuro capiterà al mondo è di diventare più grande, vale a dire più popolato senza crescere di dimensioni. Non conta con quanta onestà l’uomo che avete eletto prometterà di suddividere la torta, questa non crescerà di dimensioni; in effetti, le porzioni sono destinate a diventare più piccole. Alle luce – o, piuttosto, all’oscurità – di ciò, dovreste far conto sulla cucina di casa vostra, vale a dire prendervi cura voi del mondo».
Sembra incredibile, ma è come se la profezia di Brodskij si fosse avverata: il mondo è diventato più popolato e, indipendentemente dall’onestà di quelli che abbiamo eletto, è ora che ce ne prendiamo cura noi, forse.

[La grande Russia portatile, siamo alle bozze (esce in agosto)]

Superiorità e disprezzo

sabato 16 Giugno 2018

Una cosa che a me era sembrata stranissima, della Russia sovietica, erano le commesse dei negozi, con le quali, in Unione Sovietica, dovevi avere a che fare più che in Italia, perché per comprare una cosa dovevi chiedere al banco quanto costava, andare alla cassa a pagare, tornare al banco a fartela dare.
Si comportavano in un modo, avevano un’alterigia, ostentavano una superiorità e un disprezzo che sembrava di avere a che fare con qualcuno che ti stava punendo per un tuo comportamento vergognoso che tu avevi pubblicamente, in forma di autocritica, riconosciuto come tale, non con delle commesse di un alimentari che dovevano venderti una rulet s makom, che è una pasta ai semi di papavero che io ci facevo colazione, in Unione Sovietica, quando ci abitavo.
C’è un racconto di fantascienza di Michail Mišin, credo sia stato scritto nei primi anni ottanta, che parla di un uomo che entra in un negozio perché deve comprare del sapone e trova delle commesse che gli sorridono, gli chiedono che tipo di sapone vuole, gli consigliano la qualità migliore, lo ringraziano per aver scelto il loro negozio.
L’uomo, stupefatto, fa per uscire, ma appena prima lo ferma un signore che gli chiede di accompagnarlo nell’ufficio del direttore per un colloquio di due minuti. Lì lo aspettano due persone, una delle quali gli chiede se ha notato qualcosa di strano, nel negozio, se l’hanno servito bene.
«Sì, – dice lui, – mi hanno servito bene, però è stato anche strano».
Gli dicono che quelle che l’hanno servito avevano solo l’aspetto, delle commesse, in realtà erano dei robot, delle commesse meccaniche, il cui inventore è l’uomo seduto di fianco al direttore, che vuole sapere se lui non si è accorto proprio di niente, le commesse robot erano ancora un modello sperimentale, magari avevano dei difetti, dice.
Il cliente dice che subito, quando aveva visto le commesse sorridere aveva pensato che lo prendessero in giro, poi si era accorto che invece erano gentili e in generale questo l’aveva frastornato, ma sarebbe tornato senz’altro a comprare qualcosa, con le commesse robot si era trovato meglio che con quelle normali.
Il direttore e l’inventore ogni tanto avevano annuito, avevano scritto nei loro taccuini «Molto gentili», «Frastornato», «Meglio che con quelle normali».
Qualche giorno dopo l’uomo era tornato al negozio, si era rivolto alla commessa «Buongiorno», le aveva detto, «si ricorda di me?».
La commessa non aveva risposto.
«Buongiorno, – aveva ripetuto l’uomo – si ricorda di me?».
«Voi siete tanti, noi siamo poche, non possiamo ricordarci di tutti», aveva detto la commessa.
«Allora lei non è un robot», aveva detto l’uomo.
«Senta, – aveva detto la commessa, – io non l’ho offesa, lei non mi offenda. Son diventati tutti intelligenti», aveva detto.
L’uomo aveva chiesto del sapone, ce n’era di un solo tipo, si era fatto dire quanto costava, era andato alla cassa, la cassiera non aveva il resto, lui aveva detto che non sapeva come fare «Ah, – aveva detto la cassiera, – non lo so neanch’io. Son diventati tutti intelligenti», aveva aggiunto.
Il cliente era uscito dal negozio senza sapone, appena fuori aveva incontrato l’inventore che gli aveva chiesto «Allora?».
«Be’, – aveva detto l’uomo – perché avete tolto i robot?».
«Ah, – aveva detto l’inventore, – non se n’è accorto? Sono robot anche questi, un modello più sofisticato, uguali alle commesse vere».

[La grande Russia portatile, siamo alle bozze]

Gli ultimi mesi della perestrojka

domenica 6 Maggio 2018

I russi, in quegli anni, non so come mai, erano convinti che gli italiani pasteggiassero con l’amaretto di Saronno, e se uno voleva fare, dall’Italia, un regalo a un russo che voleva esser sicuro che gli sarebbe piaciuto, se gli portava una bottiglia di Amaretto di Saronno era tranquillo che andava bene.
Quando sono arrivato a Mosca, nell’aprile del 1991, erano gli ultimi mesi della perestrojka, che sarebbe finita nell’agosto di quell’anno con l’arresto di Gorbačëv, e, in giro per la città, si vedevano i primi negozi privati, eran dei chioschi che vendevano un po’ di tutto e, tra le altre cose, c’erano della bottiglie di Amaretto di Milano, di Amaretto di Verona, che in Italia non avevo mai visto e che non avrei mai più rivisto, credo fossero prodotti a Tula, o a Kaluga, da qualche parte nella provincia russa chissà com’eran buoni.

La cucina

venerdì 27 Aprile 2018

C’è un romanzo russo che si chiama Filosofia di un vicolo che dice, se non ricordo male, che per i protagonisti di quel romanzo lì, negli anni 50 e 60, una cosa più importante del XX congresso del partito comunista dell’unione sovietica, della denuncia del culto della personalità, della crisi della baia dei porci, della guerra fredda, della nazionalizzazione del canale di Suez, era stato il fatto che uno di loro, Ivan Petrovič, aveva cambiato cucina, e loro avevano cominciato a trovarsi nella sua cucina e le loro vite eran così cambiate. Ecco, a me, mi stan cambiando la cucina, han portato via quella vecchia e la prossima settimana arriva quella nuova, e io, devo dire, già così, mi piace così tanto, il muro della mia cucina, così bianco, che io, se fosse per me, mi fermerei forse anche qui.