Non c’era niente

domenica 30 Settembre 2018

– La grande Russia portatile è un libro di storia, letteratura, storia della lingua e del costume russo, ma anche un romanzo autobiografico, una riflessione su grandi temi del presente: da cosa è nata l’idea? Nasce prima da un desiderio di raccontare un’esperienza personale o come “guida” al mondo intimo russo, a partire dalla scrittura?

Nel gennaio del 2018, stavano andando al collegio Borromeo di Pavia a parlare di traduzione a dei dottorandi e, intanto che andavo in stazione in bicicletta, ho pensato che per me, che prima di mettermi a studiare russo avevo lavorato per un anno e mezzo in Algeria, sulle montagne del piccolo Atlante, e per un anno e un po’ a Baghdad, in mezzo alla guerra Iran – Iraq, ecco per me, studiare russo era stata un’avventura più grande delle montagne del piccolo Atlante e della guerra Iran – Iraq, era stata una cosa che aveva cambiato il mio modo di camminare, di pensare, di muovermi, di dormire, di leggere, di parlare, di mangiare, di immaginare, di stare fermo, di ridere, di piangere, di sospirare, di disperarmi, di chiedere scusa, di arrabbiarmi, di concentrarmi e di portare pazienza e che era stata una cosa che, se non l’avessi fatta, nella mia vita, chissà dove sarei andato a finire, e mi sono detto che forse valeva la penna di raccontarla, questa avventura qua.

– Più volte in questo romanzo, ritorna il tema del suo periodo russo come chiave di volta interpretativa sul mondo, ma anche rispetto ad un percorso esistenziale. Ma che cos’è stata questa formazione russa?

Credo che, come vale per me con la Russia, vale per qualcun altro per la Francia, o per il Sudamerica, o per il Portogallo, o non so, è la fortuna di trovare un posto del quale non finisci mai di esser curioso. Io l’ho conosciuta nel ’91, in una condizione che viene raccontata bene da una storiella di una serie televisiva americana, The Americans, dove c’è un colonnello del Kgb che racconta che, nella strada principale di Mosca, ulica Gor’kogo una donna entra in un ristorante e chiede: «Non avete della carne?», e il ristoratore risponde «La carne non ce l’hanno nel ristorante di fronte, qui non abbiamo il pesce». Non c’era niente, allora, a Mosca, ed era bellissimo.

– E la Russia di oggi come le appare?

All’epoca, nel ’91, mi sembrava che la Russia fosse trent’anni indietro, rispetto all’Italia, adesso, nel 2018, Mosca è una città modernissima e molto più avanti, per esempio, di Roma, che, dopotutto, è la nostra capitale; ma una cosa che trovo incantevole è il fatto che oggi, a Mosca e a San Pietroburgo, convivono questa Russia moderna, quella sovietica che ho conosciuto io nel ’91 e quella imperiale del sette e dell’ottocento.

– Il titolo del libro richiama un’altra opera – La piccola battaglia portatile – che affronta, come tema principale, il rapporto padre/figlia. In questo caso invece sembra quasi che il cuore del romanzo sia un rapporto madre/figlio, dove la madre è la Russia, paese di elezione e formazione. Anche nel libro torna spesso il tema della relazione affettiva: esiste un nesso fra questi due mondi che, sempre stando alle parole del testo, non si toccano mai, o si sono toccati un’unica volta?

Ho presentato il libro a Mantova, e una mia amica, che era lì a sentire, mi ha detto che tutti e due i libri, secondo lei, sono due libri d’amore. Io le ho risposto che amore è una parola che faccio fatica a dire, e che amare è un verbo che non uso quasi mai, probabilmente perché in dialetto parmigiano non esiste, non si dice “Ti amo”, da noi, si dice “At voi ben”, e “A mor”, in parmigiano, non significa Amore, ma “Io muoio”, e la mia lingua, anche quando parlo della Russia, ha molto a che fare col dialetto parmigiano, credo, e con il modo in cui si parla per le strade di Parma. Credo però che forse avesse ragione quella mia amica, sono due romanzi d’amore.

– E adesso quale prossimo viaggio ci aspetta?

Adesso vediamo.

[Intervista a Caterina Bonetti uscita oggi sulla Gazzetta di Parma]