Il poeta Mariengof
Ossignore, pof, pof, pof,
C’è il poeta Mariengof.
Molto beveva, molto mangiava,
Senza mutande in giro andava.
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, p. 79]
Ossignore, pof, pof, pof,
C’è il poeta Mariengof.
Molto beveva, molto mangiava,
Senza mutande in giro andava.
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, p. 79]
Era un tizio, si chiamava Karamanlis o qualcosa del genere: Karamanz? Karawak? Karacova? Insomma: Karacoso. Comunque sia, un nome per niente banale, un nome che vi diceva qualcosa, che non si dimenticava facilmente.
[Georges Perec, Quale motorino con il manubrio cromato giù in fondo al cortile?, traduzione di Emanuelle Caillat, Roma, e/o 2004, p. 11]
Capivo che l’innamoramento è un sentimento che deve continuamente crescere, muoversi, che per il suo movimento esso doveva avere delle spinte come il cerchio dei bambini che, appena perde la spinta e rallenta, subito cade. Ora capivo quanto sono felici gli innamorati che a causa di persone loro ostili o di circostanze sfavorevoli vengono privati della possibilità di vedersi spesso e per molte ore. Li invidiavo perché sapevo che il loro amore cresceva insieme con gli ostacoli che si frapponevano tra loro. Vedendo Sonja ogni giorno e rimanendo con lei per molte ore di seguito cercavo di divertirla come potevo, ma le parole che le dicevo non contribuivano né alla crescita dei nostri sentimenti, né al nostro avvicinamento spirituale: le mie parole riempivano il tempo, ma non lo sfruttavano.
[M. Ageev, Romanzo con cocaina, traduzione di Ljudmila e Lila Grieco, Roma, e/o 1991, p. 89]
Ancora ai tempi della libreria, quadri e incisioni rare cominciarono ad abbandonare le pareti dell’appartamento di Aleksandr Malent’evič. E dopo poco cominciarono a diradarsi i libri sugli scaffali.
Accadde che per quasi un anno non andai a casa sua. Quando entrai il mio cuore si mise la coda tra le zampe e cominciò a guaire: per un uomo che vive di libri, avere la libreria vuota è come tenersi in casa un cadavere.
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, pp. 54-55]
La vita di Bohumil Hrabal cominciò a prendere una piega drammatica fin dal periodo prenatale – scrisse Jaroslav Kladiva. – Sei mesi prima della sua nascita successe questo fatto: «Una domenica Mařa tornò a casa e disse ai genitori che aspettava un bambino e che il tizio con cui stava non la voleva. Il collerico nonno Tomaš prese lo schioppo dall’armadio e poi cacciò Mařa in cortile e gridò: In ginocchio, che ti sparo! La nonna Kateřina servì la minestra di fagioli, uscì in cortile e disse: Smettetela e venite a mangiare, o si raffredderà!».
[Aleksandr Kaczorowski, Il gioco della vita. La storia di Bohumil Hrabal, traduzione di Raffaella Belletti, Roma, e/o 2007, p. 18]
Noi eravamo una famiglia a prescindere dagli ammonimenti. Tutti i compagni stavano diligentemente seduti dietro al bancone del calzolaio o servivano nei caffè, solo noi ci aggiravamo continuamente nel nostro cucinotto, anche senza una ragione precisa. Tutti gli altri costruivano pompe per biciclette, timbri e spazzolini per le scarpe, solo noi non producevamo nulla, il che si notava. Parlavano ininterrottamente di qualcosa, insomma, facevamo discorsi, invece di stare zitti ad ascoltare gli altri, magari anche più stupidi di noi. Il nonno diceva molte cose in faccia a tutti, il che era completamente sbagliato. La mamma snocciolava frequentemente terribili episodi storici, anche se realmente accaduti, invece di dimenticarli e di sostituirli con altri, più belli, che non si sono mai verificati. I nostri sguardi sul futuro erano spesso molto più confusi, a causa dei libri che avevamo letto in un’epoca precedente, e questa era la nostra unica, assolutamente incorreggibile, colpa. Ci avevano insegnato per benino che la cosa migliore per l’organismo umano era stare in piedi sul tram, mangiare senza sale e dormire sul duro, ma noi non ci credevamo, anche se era necessario. Continuavamo a leggere i grandi romanzi, nella maggior parte dei casi senza figure, invece di portarli in un ricovero per bambini ciechi che non possono venire rovinati dalle letture. Ci avvisavano di non utilizzare delle stupide cose dei vecchi tempi come l’ombrello, il dentifricio e simili, ma noi ci impuntavamo, anche se non avevamo nessuno giustificazione. Ci pregarono di origliare i discorsi dei nemici fra i vicini, ma noi ci rifiutammo a causa di una stupidità congenita, permettendo così che l’attività nemica continuasse senza limiti.
[Bora Ćosić, Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale, traduzione di Nicole Janigro, Roma, e/o 1996, p. 82]
Da qualche parte deve esserci un manuale per un soggiorno nel ventesimo secolo, solo io non sono mai riuscito a scovarlo. Così ho trascorso gran parte del secolo senza alcuna istruzione, il che si vede benissimo su di me, da come vivo.
[Bora Ćosić, Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale, traduzione di Nicole Janigro, Roma, e/o 1996, p. 90]
I lettori lo adoravano, un po’ come si adora un vecchio nonno dal quale ci si aspetta che ci diverta con aneddoti sui bei tempi andati. E lui non aveva nessuna voglia di ridere. Scrisse allora: Quand’è che i clienti della Tigre d’Oro mi cacceranno via? Perché non faccio che mandarli al diavolo, perché li chiamo imbecilli, perché dico che i clienti della Tigre d’Oro e in generale tutta l’umanità sono una stirpe malvagia, stupida e scellerata… ma anche mite e geniale (…). È che sono anch’io un imbecille e sono malvagio, stupido e scellerato… E così sono uno scrittore ceco, erede di Jaroslav Hašek, e non so comportarmi, mi comporto come quell’isterico di McEnroe quando dà di matto sui campi da tennis perché gli sembra che gli facciano torto sia i giudici di linea che quelli di rete, e anche il pubblico, soprattutto quando non vince… ma nel ritratto fotografico di Andy Warhol, McEnroe è un giovanotto sensibile e simpatico, com’ero io prima che dessero inizio al culto della mia personalità… E così sono diventato l’Aurora… in secca. Ben mi sta!
[Aleksandr Kaczorowski, Il gioco della vita. La storia di Bohumil Hrabal, traduzione di Raffaella Belletti, Roma, e/o 2007, p. 11]
Mio nonno poi, perché la mela non cadesse lontana dall’albero, faceva a sua volta l’ipnotizzatore e lavorava nei piccoli circhi, e tutta la città vedeva nelle sue ipnosi il desiderio di fare più che poteva la vita dello scioperato. Quando però i tedeschi in marzo passarono le nostre frontiere per occupare l’intero paese e avanzavano in direzione di Praga, soltanto il nonno andò loro incontro, soltanto il nonno andò ad opporsi ai tedeschi come ipnotizzatore, ad arrestare i carri armati in avanzata con la forza del pensiero. E così il nonno camminava sulla strada con gli occhi fissi sul primo carro che guidava l’avanguardia di quelle truppe motorizzate. E su quel carro, dentro la torretta fino alla vita, stava un soldato del Reich, in testa aveva il berretto nero col teschio e le tibie incrociate, e mio nonno continuava ad avanzare dritto verso quel carro, aveva le braccia distese e con gli occhi iniettava ai tedeschi il pensiero fate dietrofront e tornate indietro… e davvero, quel primo carro armato si fermò, tutto l’esercito restò fermo, il nonno con le dita toccava il carro armato e continuava a trasmettere lo stesso pensiero… fate dietrofront e tornate indietro, fate dietrofront, e poi il colonnello con la bandierina fece segnale e il carro armato partì, ma il nonno non si mosse e il carro lo investì, gli strappò la testa, e niente più impediva il passo all’esercito del Reich. E mio padre andò a cercare la testa del nonno. Quel primo carro armato era rimasto fermo fuori Praga, aspettava una gru per la rimozione, la testa del nonno era incastrata tra i cingoli e i cingoli erano avvolti in modo che che papà ottenne di poter rimuovere la testa del nonno e poi seppellirla col corpo come si conviene a un cristiano. Da allora in tutta la regione la gente litigava. Gli uni gridavano che il nonno era matto, gli altri invece he non poi tanto, che se tutti si fossero opposte come il nonno ai tedeschi con le armi in pugno, chissà come sarebbe finita, coi tedeschi.
[Bohumil Hrabal, Treni strettamente sorvegliati, traduzione di Sergio Corduas, Roma, e/o 2011, p. 14]
[Stasera, alla scuola elementare di scrittura emiliana e letteratura russa, per provare a raccontare come mai, in Russia, uno scrittore, nel XIX e XX secolo, erano tanto importanti, ho letto questo pezzo di un romanzo del poeta russo Anatolij Mariengof, ambientato a Mosca sul finire degli anni 10 del novecento]
Sto tornando a notte inoltrata dalla casa d’un amico. Nel cielo una nube come un lavabo di ferro col rubinetto rotto d’una casa di campagna: butta giù una pioggia maledetta, continua, ininterrotta.
I marciapiedi della Tverskaja sono neri, lucidi come il mio cilindro. Mi appresto a svoltare nel vicolo Kozickij. D’un tratto dall’altro lato della strada sento:
– Straniero, fermati!
Gli ingenui erano stati ingannati dal mio cilindro e dal cappotto di sartoria.
Cinque uomini si scostarono dal muro.
Mi fermo.
– Cittadino straniero, i suoi documenti!
Un cocchiere col suo vecchio cavallo arrancava sulle pozzanghere del selciato irregolare. Guardò dalla nostra parte, e via, frustando il suo bucefalo che partì a razzo: non era mica stupido. Nei pressi del caffè Lira, all’angolo del vicolo Gnezdnikovskij, un guardiano sonnecchia nella sua giacca rossa. Un attimo e già sgattaiola nella viuzza, e chi s’è visto s’è visto.
Non un’anima viva. Non un cane randagio. Non un pallido lampione. Chiedo:
– In base a quale diritto, compagni, volete i miei documenti? Avete il mandato?
– Il mandato?…
E un ragazzo col berretto da studente e il viso pallido e sciupato, come un cuscino non sprimacciato dopo la notte, agitò davanti al mio naso un revolver:
– Ecco il mandato, cittadino!
– Ma allora volete il cappotto, non i documenti!
– Grazie a Dio, l’ha capita…
E come per aiutarmi a togliermi i paramenti, il ragazzo dal viso sciupato si appostò dietro di me, come il portiere di un buon albergo.
Provai a scherzare. Ma non era il momento. Il cappotto me l’avevano appena confezionato. Di buon taglio, stoffa inglese di ottima qualità.
Il viso sciupato mi guardava malinconicamente.
E quando, scoraggiato al massimo, già mi stavo sfilando le maniche, in mio aiuto giunse puntualmente l’amore senza confini dei russi per l’arte.
Uno della cordiale compagnia, dopo avermi osservato, chiese:
– E come ti chiami, cittadino?
– Mariengof…
– Anatolij Mariengof…
Piacevolmente sorpreso dalle dimensioni della mia fama, ripetei con orgoglio:
– Anatolij Mariengof!
– L’autore di Magdalena?
In quell’istante fortunato e magico della mia vita non solo ero pronto a consegnare loro il cappotto di sartoria, ma ad aggiungervi spontaneamente pantaloni, scarpe di vernice, calzini di seta e fazzoletto.
Nonostante la pioggia! Nonostante non fosse molto dignitoso tornare a casa in mutande! Nonostante l’equilibrio spezzato del nostro bilancio! Nonostante! Mille volte nonostante! E tuttavia quanto è complesso, appetitoso, prelibato il lauto pasto per l’ambizione dell’ingordo Falstaff che abbiamo dentro di noi!
Occorre dire che i miei conoscenti notturni non toccarono il cappotto, il capo che aveva scoperto in me Mariengof si profuse in mille scuse, mi accompagnarono amabilmente fino a casa e, nel salutarli, strinsi loro forte le mani e li invitai alla Stalla di Pegaso ad ascoltare le mie nuove composizioni.
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, pp. 31-32]