Pippo

domenica 1 Ottobre 2017

A proposito di censura, negli anni Ottanta mi ricordo che erano uscite un paio di canzoni di Zucchero che nella mia famiglia creavano un po’ di scompiglio.
Una si intitolava Pippo e mi pare iniziasse così, secco: ‘Pippo, che cazzo fai!’
Ancora adesso io non son buona a dir questa parola che nella mia famiglia è stata da sempre vietatissima.
Non so spiegarlo, se la dico faccio sorridere, son proprio un po’ impedita.
Difetto mio di fabbricazione.
Con l’aggravante che in Romagna abbiamo anche la z un po’ blesa diciamo pissa, ragassa, piassa e così via.
Ad ogni modo, quando passava quella canzone per radio, o la sentivamo da qualche parte, nei miei genitori si creava una specie di vuoto d’aria, come un scossone senza appiglio da cui preservare alla meglio noi figlie.
Mi ricordo che una volta eravamo in montagna, in vacanza, e nella hall dell’albergo stava seduto un gruppetto di ragazzi con la chitarra.
Io aspettavo buona buona mio babbo passato dal bar della reception per una grappa.
Avevo su dei calzoncini da ciclista con dentro le mie cosciarine da grillo, e una felpina azzurro elettrico troppo corta con la stampa di Snoopy, borraccia al collo e scarponcini. Sembravo un ragnetto, ero bruttissima, ma una ragazza del gruppo mi aveva detto: «come sei carina!» e io ero tutta contenta.
E dopo, quei ragazzi, uno ha dato una pennata sulle corde e la ragazza che mi aveva detto «come sei carina!», è partita come quando scatta il verde: ‘Pippo, che cazzo fai!’
E mio babbo dal bancone, si è voltato di botto verso di me, mi ha fissato con una faccia, e nella mano teneva il bicchierino vuoto.
A me mi è sembrato che si era appena staccata una slavina in val di Fiemme.

[Elvira Antinozzi, per Qualcosa]

Questo piccolo grande amore

domenica 1 Ottobre 2017

A casa mia c’è sempre stata una specie di censura.
I miei genitori non li ho mai visti farsi un’effusione.
Con noi figlie, in compenso, andavano alla grande i baci in fronte.
Qualsiasi altra forma di affettività veniva scansata come la rogna.
Se in tv, per esempio, c’era la scena di un bacio, mia mamma improvvisamente aveva sete, andava in cucina, e mio babbo, solo e perduto, di solito cambiava canale, diceva a me e a mia sorella: questa scena qua, a noi, non ci interessa, è vero bambine?
Di film, ricordo di aver visto tutto di fila, forse forse, solo il Maggiolino tutto matto.
Ed era così per i film, le canzoni e tutto quanto.
Un continuo.
Finché a mia sorella Lucia, che è più grande di me di cinque anni, gli è venuta la passione per Baglioni, e per sfinimento i miei le avevano regalato una cassetta con Questo piccolo grande amore.
Disastro.
La prima frase con la ‘sua maglietta fina’ e ‘tanto stretta’ che lui si immaginava tutto, poteva passare, ma dopo, dopo c’era qualcosa di terribile, diceva ‘e chiare sere d’estate, il mare i giochi le fate, e la paura e la voglia di essere nudi’. Insomma, una roba gravissima.
E almeno per me, che ero la piccola, si doveva intervenire.
C’è da dire che dopo un po’, nel testo, la stessa frase si ripete uguale, salvo che, al posto della parola ‘nudi’ c’è ‘soli’ e ‘l’essere soli’ era accettabile.
Tant’è che sostituendo ‘nudi’ con ‘soli’, anche i miei a volte canticchiavano per casa Questo piccolo grande amore.
Poi un giorno ho sentito dire da mio babbo la parola primogenita a proposito di mia sorella.
E mi ha dato fastidio, perché la primogenita, nientemeno, volevo essere io. E basta.
– Babbo ma anche io sono la primogenita? Gli ho chiesto e lui ha detto: no, te sei la secondogenita.
– Ma perché io non sono anch’io la primogenita?
E lì è intervenuta mia sorella: perché te sei nata per seconda, la prima sono io.
E a me questa cosa mi stava qui, volevo un primato, allora le ho detto che tanto io ero più brava di lei a cantare, e la sapevo anch’io Questo piccolo grande amore.
E allora abbiamo iniziato a cantarla insieme e a fare una gara.
E lì ho sentito per la prima volta la versione originale. E ho pensato: ma mia sorella? ma cosa va a dire, ‘e la paura e la voglia di essere nudi’? e l’ho corretta subito: va Lucy che dice ‘soli’. E lei mi ha detto che no, che diceva ‘nudi’.
– No no, dice ‘soli’, me l’ha detto la mamma.
– Allora vieni, ti metto la cassetta.
Ero sicura.
Ci son rimasta di un male, ma di un male.
E non smettevo più di dire: Lucy ma come nudi, ma da far che?
Non poteva essere.
E lei tutta contenta che aveva avuto ragione lei.
Mia mamma non ha potuto far nulla.
Cosa poi si sia inventata da raccontarmi non me lo ricordo ma – e ho vergogna a dirlo – in un certo senso son rimasta in quello sgomento là.
Che anche adesso, se devo usare la parola nudo uso il diminutivo, nudino, non so, mi fa meno impressione, perché nudo, buttato là così, insomma, esser nudi e basta, è davvero troppo dura.

[Di Elvira Antinozzi, per Qualcosa]

Montenegro

martedì 29 Novembre 2016

[Alla scuola media inferiore di letteratura popolare (come scrivere un romanzo che venda moltissimo) il compito di ieri era: Raccontate una brutta figura, copio qua sotto la soluzione di Elvira Antinozzi (grazie)]

Se potessi andare a scavare in quel buco. Ci andrei. Per cavarla fuori di lì, anche solo per un po’, perché io sono una giuggiolona grande ma di mamma ne ho ancora una gran voglia. Se io potessi!
Anche se, da viva, dirla tutta, era un po’ mattarulla.
Era del ‘41 e, come dire, era un po’ all’antica. Portava il mezzo tacco.
E aveva delle strane convinzioni.
Per esempio sosteneva che è meglio ed è più bello perdere e quindi se giocavi, fai conto, a tombola, non potevi mai dire cinquina, decina o tanto meno tombola, perché era giusto lasciarla fare a qualche altro bambino.
E cose così. Tra l’altro era molto molto spartana, ricordo solo un pochino di rossetto albicocca e il profumo Yves San Loren che le aveva regalato il babbo.
Il suo motto era: bisogna soffrire.
Per questo quando io e mia sorella siamo diventate ‘ragazze’, abbiamo cioè cominciato ad avere il ciclo mestruale, lei era contraria a qualsiasi tipo di antidolorifico. Al massimo un’aspirina.
Diceva che dovevamo resistere, al dolore, che le medicine facevano male e davano assuefazione.
Solo che io stavo veramente malissimo, e una volta sono anche svenuta per strada, a ritorno da scuola e ho ancora in mente mio babbo che l’han chiamato, era a lavorare, è arrivato e mi ha caricato in spalla come un super eroe.
Insomma, lei però non voleva nemmeno che stessimo troppo male e allora aveva detto che quando avevamo il mal di pancia per il ciclo potevamo bere un po’ di liquore perché – secondo lei – l’alcol dilatava i capillari e così, il sangue, defluiva più facilmente e il dolore si sarebbe alleviato.
Per me aveva predisposto proprio una fiaschetta, una di quelle bottigline infrangibili con la chiusura ermetica.
La riempiva con l’amaro Montenegro e me la metteva in cartella. E diceva: se stai male vai in bagno e fai due sorsi, vedrai che poi ti senti meglio.
E io allora, appena cominciavo a star male, andavo in bagno, facevo due sorsi, ma stavo peggio di prima e dopo mi girava anche un po’ la testa.
E una volta son tornata in classe, primo superiore, che era anche un periodo che il mio compagno di banco un po’ mi piaceva, si chiamava Cristian Gallo (che l’ho già scritto nell’altro compito della brutta figura, mi prendeva sempre in giro, mi diceva nell’orecchio: ciao bella mora lo so che ti fai suora) e a un certo punto mi si è rovesciata la cartella con tutto il contenuto, e – passi pure uno di quegli assorbenti antidiluviani alto 4 centimetri – ma, ahimè, tutti han visto che io andavo in giro con una fiaschetta di liquore in borsa. Mi son vergognata tantissimo e ho provato a spiegare la cosa ma peggioravo la situazione.
Il mese dopo ho rubato a mia mamma i soldi e mi son comparata il primo moment.

Una crisi

giovedì 10 Novembre 2016

[L’altro giorno, alla scuola media inferiore di letteratura popolare (come scrivere un romanzo che venda tantissimo) il compito era Descrivete una crisi, e questa è la soluzione di Elvira]

Direi che è sempre stato un disastro.
Non c’incontriamo, nei pensieri, nei modi. Tu a levante e io a ponente.
Ci siamo anche sposati, che scemi. Zucche vuote. Ma litigavamo già da prima.
Come i matti.
Ma perché delle volte mi urli dietro ‘anoressica di merda’!?
Ma cosa ti ho fatto?
E poi a me piacciono le cose piccole, han tutta una loro grazia e custodiscono la poesia del minuscolo.
E non mi piace quel barattolo enorme di pasta lavamani Cyclon che ti sei preso al Brico. È da un chilo, c’era anche da quattro etti, non mi importa che il vaso grande costava meno. Da far che tutta quella pasta lavamani che ti sopravviverà? E quel barattolo, guardarlo, starò male!
Hai ragione, mi sono fatta rubare la tua bicicletta.
Mi dici bugiarda, ma di balle ne racconto poche, qualcuna appena. Che di solito mi auto-costituisco quasi subito, non dovresti arrabbiarti, dovresti lodarmi, dovresti, per la sincerità. Per esempio, la tua bici non me l’hanno proprio rubata, è che io non l’avevo chiusa. Ecco. Adesso mi costringi a scappare in balcone così ti vergogni dei vicini e non puoi gridarmi.
E poi mi dai sempre della bigotta e che andare in chiesa e tutte quelle messe, che mi fa male. Ma mi vuoi lasciare in pace?
Ti ho chiesto se mi accompagnavi a Medjugorie, mi hai guardato come il fumo negli occhi mi hai detto subito ‘scordatelo’, vacci da sola, ma lo sapevi il motivo. Per quel desiderio. Lo avevamo entrambi, di una bambina.
Che l’abbiamo cercata, l’abbiamo cercata, e non la trovavamo e siamo tornati a cercarla.
E alla fine per provocare mi hai detto ‘ci vengo con te a Medjugorie’ ma solo in bici. Perché lo sai che sono una pappa molla, credevi dicevo no e invece ho detto sì. Ti sta bene. Sei dovuto venire.
Svalicare i Balcani, a momenti morivo con te lì a dirmi: “pedala adesso! Vuoi andare a Medjugorie, pedala!”
Solo che non è bastato, non basta mai, la grazia non l’abbiamo mai ottenuta e la bambina non è arrivata. E me mi veniva da pensare a quei versetti, c’è Maria, e a Gesù che era scappato, quando poi lo ritrova gli dice: Figlio, Perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo.
E infatti poi ti angosciavi anche te. Che dispiacere abbiam passato.
Due rami secchi, senza frutto. Un gran brutto lavoro.
E così abbiam provato coi dottori. Di tutto.
Ma mi hanno torturata e basta. E da quelle gite in ospedale tornavamo sempre a casa muti e poi, per giorni, sempre muti.
Se lo vuoi sapere è stato uno di quei giorni lì, quei buchi neri di crisi, che ho dimenticato aperta la tua bici.