Pippo
A proposito di censura, negli anni Ottanta mi ricordo che erano uscite un paio di canzoni di Zucchero che nella mia famiglia creavano un po’ di scompiglio.
Una si intitolava Pippo e mi pare iniziasse così, secco: ‘Pippo, che cazzo fai!’
Ancora adesso io non son buona a dir questa parola che nella mia famiglia è stata da sempre vietatissima.
Non so spiegarlo, se la dico faccio sorridere, son proprio un po’ impedita.
Difetto mio di fabbricazione.
Con l’aggravante che in Romagna abbiamo anche la z un po’ blesa diciamo pissa, ragassa, piassa e così via.
Ad ogni modo, quando passava quella canzone per radio, o la sentivamo da qualche parte, nei miei genitori si creava una specie di vuoto d’aria, come un scossone senza appiglio da cui preservare alla meglio noi figlie.
Mi ricordo che una volta eravamo in montagna, in vacanza, e nella hall dell’albergo stava seduto un gruppetto di ragazzi con la chitarra.
Io aspettavo buona buona mio babbo passato dal bar della reception per una grappa.
Avevo su dei calzoncini da ciclista con dentro le mie cosciarine da grillo, e una felpina azzurro elettrico troppo corta con la stampa di Snoopy, borraccia al collo e scarponcini. Sembravo un ragnetto, ero bruttissima, ma una ragazza del gruppo mi aveva detto: «come sei carina!» e io ero tutta contenta.
E dopo, quei ragazzi, uno ha dato una pennata sulle corde e la ragazza che mi aveva detto «come sei carina!», è partita come quando scatta il verde: ‘Pippo, che cazzo fai!’
E mio babbo dal bancone, si è voltato di botto verso di me, mi ha fissato con una faccia, e nella mano teneva il bicchierino vuoto.
A me mi è sembrato che si era appena staccata una slavina in val di Fiemme.
[Elvira Antinozzi, per Qualcosa]