Il romanesco e l’italiano

sabato 6 Aprile 2019

Nel De vulgari elquentia, Dante scrive che «la lingua volgare è quella che, senza bisogno di alcuna regola, si apprende imitando la nutrice. Abbiamo poi anche, – continua Dante, – oltre a questa, una seconda lingua che fu chiamata dai Romani “gramatica”. Questa seconda lingua è posseduta anche dai Greci e da altri popoli, ma non da tutti. Poche sono d’altronde le persone che giungono alla padronanza di essa, perché non si apprendono le sue regole e non ci si istruisce in essa se non col tempo e con l’assiduità dello studio. La più nobile di queste due lingue, – scrive Dante, – è il volgare, sia perché fu la prima a essere usata dal genere umano, sia perché tutto il mondo ne fruisce (pur nella diversità di pronuncia e di vocabolario che la dividono), sia perché ci è naturale, mentre l’altra è piuttosto artificiale. Proprio di questa lingua più nobile è nostro intento trattare», conclude Dante (la traduzione dal latino è di Sergio Cecchin). Un mio amico, Giuseppe Faso, saputo che mi occupavo di questa cosa (in un libro sul Morgante di Pulci) mi ha raccontato che alcuni dantisti ritenevano questa una contraddizione e proponevano, fino all’ottocento, nelle edizioni a stampa del De vulgari eloquentia, di sostituire quel «più nobile», «Nobilior», in latino, con un «più mobile» («Mobilior»). Che è una cosa che a loro non sembrava contraddittoria e che invece a me sembra incredibile, devo dire.

Questa storia plebea

sabato 28 Maggio 2016

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E l’ultimo motivo per cui mi è sembrato che fosse sensato scrivere questo libro è un fatto di cui parla De Sanctis che lui, anche qui, forse ne parla come di un difetto per me invece è un pregio, cioè il fatto che, nel Morgante, «Morgante è lo scudiere di Orlando, ed è il vero protagonista dello spirito del racconto. Non è il cavaliere, è lo scudiere, l’eroe di questa storia plebea», scrive De Sanctis, e io quando l’ho letto ho pensato che sarebbe come se nel Don Chisciotte il protagonista fosse Sancho Panza, anzi, come se il Don Chisciotte si intitolasse, invece di Don Chisciotte, Sancho Panza, o come se l’Eugenio Onegin di Puškin si chiamasse come voleva Dostoevskij, Tatjana, che Dostoveskij diceva che la vera protagonista era Tatjana e che sarebbe stato meglio se Puškin avesse chiamato il suo romanzo in versi Tatjana, e io quando ho letto così nel De Sanctis mi è sembrato che io, questa storia plebea, era un bel lavoro se provavo a scriverci sopra un libro.

Tre o quattro

martedì 3 Maggio 2016

Stasera ho comprato un libro che alla fine c’è un’intervista dove si chiede all’autore (che è una femmina) di definire con tre aggettivi il libro che ha scritto, e lei dice «Sovversivo, scioccante e spero divertente», e ho pensato che, se me l’avessero chiesto a me per l’ultimo libro che ho pubblicato, che si intitola qualcosa del tipo Paolo Nori riscrive il Morgante di Luigi Pulci, io avrei detto «Lungo, divagante, disperato e con un titolo complicato», che sono quattro, più o meno, e poi ho pensato che forse è per quello, che a me non mi fanno le interviste da mettere alla fine dei libri che pubblico.

I nomi

domenica 24 Aprile 2016

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Dopo, ci siamo quasi, ancora una cosa sui nomi, che i nomi, nel Morgante di Pulci, come, in generale, nelle storie di Carlomagno, a me sembrano bellissimi, e strani molto, c’è un passaggio dell’introduzione di Cavazzoni all’Orlando furioso dove si dice che i nomi, Mandricardo, Turpino, Gradasso, Rodomomonte, Sacripante, Rinaldo, Ferraù, Ruggiero, Frontino, Baiardo, Zerbino Brigliadoro, e anche l’ippogrifo e la Durindana, dentro i nomi hanno tutti almeno una erre, «la erre rumorosa e ruggente di cui quasi tutti i cavalieri son dotati, a indicare la loro natura ferrigna» , scrive Cavazzoni, l’unico senza erre è Astolfo, e, secondo Cavazzoni, Astolfo come cavaliere è un’anomalia, più «evanescente e volatile» degli altri, e non è un caso, secondo Cavazzoni, che sia proprio lui a montare sull’ippogrifo e andare sulla luna e trovarci

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

ma questo è l’Orlando Furioso e viene dopo, invece nel Morgante, i nomi, ci son dei nomi, c’è un gigante che si chiama Marcovaldo, un altro, compagno di Morgante, si chiama Alabastro, c’è un re che si chiama Manfredonio, c’è un pagano che si chiama Fieramonte, che quando muore, e muore subito, a uno gli dispiace, un nome così bello, e c’è il capitano di Gano, che è Gano di Maganza, il traditore, e il suo capitano si chiama Magagna, che è un nome meraviglioso, secondo me, e a me piace moltissimo il fatto che, se il cavallo di Rinaldo si chiama, come sappiamo, Baiardo, il cavallo di Gano si chiama Mattafellone, che può essere solo il cavallo di un cattivo, mi sembra, e anche in questo mi sembra di vedere un legame con le idee di Chlebnikov, che credeva che Puškin portasse, nel suo nome, la sua natura pacifista (Puški significa, in russo, cannoni, e la n finale starebbe per net, no) e Lenin, nel suo, la sua natura volitiva (Len’, in russo, significa pigrizia, e la n finale starebbe sempre per net, no), e mi torna in mente Dego, quando parla dei personaggi del Morgante che sono più assetati di parole, che di sangue, in un universo dove, però, le parole, sono la sostanza delle cose, se così si può dire, che è poi, in generale, l’universo della letteratura, e credo non sia un caso che, nella letteratura russa dell’otto e del novecento, i personaggi con nome e patronimico uguale, Maksim Maksimyč di un eroe dei nostri tempi di Lermontov, Akakij Akakevič del Cappotto di Gogol’, Anton Antonovič del Revisore di Gogol’, Il’ja Il’ič Oblomov dell’Oblomov di Gončarov e Poligraf Poligrafovič di Cuore di cane di Bulgakov sono tutti personaggi comici, sono tutti un po’ delle vittime, non sono gli eroi, per essere eroi, sia pure dei nostri tempi, c’è bisogno di un nome e patronimico come quelli di Pečorin: Grigorij Aleksandrovič; ecco: di un Grigorij Aleksandrovič ci si può innamorare senza vergogna, così come di un Rinaldo o di un Ronaldo, non di uno che, come Gano, ha un capitano che si chiama Magagna e un cavallo che si chiama Mattafellone, né ci si può innamorare di un Morgante, di un Margutte o di un Marcovaldo, che, hanno, tra l’altro, come Akakij Akakevič e Poligraf Poligrafovič, degli interessi tutti diversi, cioè che, ad innamorarsi, mi sembra non ci pensino minimamente.
E, a proposito di nomi e di innamoramenti, sul finire del cantare secondo, quando Orlando va da Manfredonio, che è innamorato di Merediana e, di lei, dice:

E veramente è come ella si chiama,
perché di mezzodì par proprio un sole.
Io innamorai di questa gentil dama,
non per vista, per atti o per parole,
ma per le sue virtù ch’udi’ per fama,
ovver che ‘l mio destin pur così vuole;
e da quel giorno in qua ch’amor m’accese
per lei son fatto e gentile e cortese (II, 68).

E con questo riferimento a un altro nome così bello, Merediana, io, così, più o meno, ho raccontato, in modo, mi rendo conto, abbastanza disordinato, i primi due cantari, oltre a varie cose qua e là, sempre in modo abbastanza disordinato e adesso posso scegliere: o vado avanti e racconto gli altri ventisei cantari, il che, considerando che i primi due li ho raccontati in 150 pagine, mi prenderebbe, se non sbaglio i conti, 2.100 pagine, o mi fermo qui e vi lascio alla lettura diretta di alcuni dei cantari del Morgante, i primi due e quelli in cui compare Margutte, magari, che son stati pubblicati anche per conto proprio, in un’edizione chiamata Morgante minore, o Marguttino, e contrapposta all’edizione definitiva, quella completa, che comprende sia i primi 23 canti, pubblicati nel 1478, sia gli altri 5 usciti nel 1483, conosciuta come Morgante maggiore.

Verdemezzo

giovedì 14 Aprile 2016

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«Avevo appena cominciato a studiare la lingua italiana, – scrive Mandel’štam, – e ne conoscevo appena la fonetica e la prosodia, quando capii di colpo che in essa il baricentro dell’attività fonica è più vicino alle labbra, si sposta verso l’esterno della bocca. La punta della lingua assurge a improvviso onore; il suono si precipita verso la barriera dei denti. Un’altra cosa mi colpì: la puerilità della fonetica italiana, il suo bellissimo infantilismo, l’affinità con un melodico balbettio, con un dadaismo originario», e a leggere questa cosa a me è venuto in mente la ricetta del fegatello, messa in rima da Margutte nel cantare decimo ottavo:

Del fegatello non ti dico niente:
vuol cinque parte, fa’ ch’a la man tenga:
vuol esser tondo, nota sanamente,
acciò che ‘l fuoco equal per tutto venga,
e perché non ne caggia, tieni a mente,
la gocciola che morvido il mantenga:
dunque in due parti dividiàn la prima,
ché l’una e l’altra si vuol farne stima.

Piccolo sia, questo è proverbio antico,
e fa’ che non sia povero di panni,
però che questo importa ch’io ti dico,
non molto cotto, guarda non t’inganni!
ché così verdemezzo, come un fico
par che si strugga quanto tu l’assanni;
fa’ che sia caldo; e puoi sonar le nacchere,
poi spezie e melarance e l’altre zacchere.
(XVIII, 125-126)

dove a me piace moltissimo verdemezzo, che non so bene cosa voglia dire ma è una parola, come sempre mai, che si trova, anche, nel Morgante («Dicea Margutte: Io ho sempre mai inteso / che gnun non si vorrebbe mai beffare» IX, 89), ecco sempre mai è un avverbio che mi sembra incantevole, nella sua apparente insensatezza, ed è uno di quei casi in cui la traduzione, la parafrasi, mi sembra impossibile, dove la linea del suono e la linea del significato trovano un incrocio miracoloso, come dice ancora Mandel’štam in un altro passo del suo Discorso su Dante: «Il discorso o pensiero poetico può essere chiamato sonoro soltanto in via convenzionale; infatti ciò che udiamo è unicamente l’interferenza di due linee, una delle quali, presa da sola, è assolutamente muta, mentre l’altra, senza il sostegno del movimento delle immagini, è priva di ogni significazione e interesse e si presta alla parafrasi, sintomo certissimo, a mio vedere, dell’assenza di poesia: dove è possibile la parafrasi, le lenzuola non sono gualcite, la poesia non ha pernottato».

[questo libro forse è uscito oggi]

Aspettare che dicano di sì

lunedì 15 Febbraio 2016

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Buongiorno.
Si sente?
[aspettare che dicano di sì]
Grazie.
Allora, buongiorno.
Io, mi hanno chiesto di fare questo discorso per spiegare un po’ come mai, io che non so niente di letteratura italiana, ho accettato di scrivere un libro sopra il Morgante di Pulci.
Che, effettivamente, il Morgante, non lo dico per vantarmi, ma io, del Morgante, prima che mi chiedessero di scrivere questo libro, non ne sapevo niente, e non per modo di dire, davvero.
Cioè io non avevo mai letto neanche uno dei 30.080 versi di cui è composto (se ho fatto bene i conti) il Morgante di Pulci e la prima cosa che ho fatto, per dire, sono andato su Google ho digitato Morgante mi è venuto fuori questa scritta qua:

Da oltre mezzo secolo la migliore espressione dei prodotti della salumeria italiana. Ad iniziare dall’inimitabile prosciutto di San Daniele DOP.

Che non c’entrava tantissimo, con il Morgante di Pulci, che non è un salumificio, è un poema della metà del quindicesimo secolo e comincia così, ho scoperto:

In principio era il Verbo appresso a Dio,
ed era Iddio il Verbo e ‘l Verbo Lui:
questo era nel principio, al parer mio,
e nulla si può far sanza Costui.
Però, giusto Signor benigno e pio,
mandami solo un degli angel tui,
che m’accompagni e rechimi a memoria
una famosa, antica e degna storia.
(I,1)

[Il Morgante di Pulci riscritto da me che esce in aprile, se non sbaglio, questa è pagina 21]

13 ottobre – Reggio Emilia

martedì 13 Ottobre 2015

Martedì 13 ottobre,
a Reggio Emilia,
alla sala conferenze Gualdi di Palazzo Magnagni,
in corso Garibaldi 3,
alle 17 e 30,
discorso sul Morgante.

Milone d’Angrante

mercoledì 11 Marzo 2015

Allora, in questo discorso, che è il quarto, come prima cosa volevo finire di dire come finisce il primo cantare, che nel primo cantare (siamo ancora al primo cantare, ce ne sono ventotto, fate un po’ i vostri conti), nel primo cantare, alla fine, siccome Morgante è diventato lo scudiero di Orlando, avrebbe bisogno di un’armatura e ne cercano una lì nell’abazia e ne trovano una che gli va bene, come misure, per via che era di un gigante che era stato ucciso da Milone d’Angrante, che voi, forse, vi chiederete «E chi era, Milone d’Angrante?».
Ecco Milone d’Angrante, per combinazione, era il babbo di Orlando, nonché, altra combinazione, lo zio dell’abate, che si chiamava Chiaramonte e era figlio di Ansuigi, cioè del fratello del babbo di Orlando, cioè era suo nipote, di Milone d’Angrante, cioè del padre di Orlando, e era anche primo cugino di Orlando, che lì, nell’antichità, noi non ci pensiamo, ma provate a leggere l’Iliade, io un paio di anni fa mi son messo a legger l’Iliade e a legger l’Iliade, è stranissimo, son tutti figli di qualcuno, invece noi, nella modernità, non siam più figli di nessuno, mi vien da dire, ma chissà se è vero

[Il Morgante di Pulci, in preparazione, Quarto discorso]

Un titolo

lunedì 9 Marzo 2015

C’è un articolo di Tolstoj che si intitola Chi deve insegnare a scrivere a chi, noi ai figli dei contadini, o i figli dei contadini a noi?, che a me sembra un titolo bellissimo (forse è più bello il titolo dell’articolo, secondo me).

La solita storia

venerdì 20 Febbraio 2015

Ieri sera, 19 febbraio 2015, nel bagno dell’auletta della libreria Modo infoshop di Bologna, intanto che facevo la pipì, mi sembra di aver trovato il finale del libro che sto scrivendo, e subito dopo che mi è sembrato di averlo trovato ho pensato che è sempre così, a me le cose vengono in mente intanto che faccio la pipì.