Il poeta Mariengof
Ossignore, pof, pof, pof,
C’è il poeta Mariengof.
Molto beveva, molto mangiava,
Senza mutande in giro andava.
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, p. 79]
Ossignore, pof, pof, pof,
C’è il poeta Mariengof.
Molto beveva, molto mangiava,
Senza mutande in giro andava.
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, p. 79]
Uno, che si chiamava Sergej Esenin, diceva che, alla vita, la fortuna bisognava chiederla in un certo modo. Bisognava fare come quel vagabondo di Odessa che chiedeva l’elemosina così: «Cittadina, mi dia cinque copeche! Altrimenti le sputo in faccia: ho la sifilide.»
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, dal Repertorio dei matti della letteratura russa, in preparazione]
Uno era un poeta e quando un suo amico gli aveva confessato di essere innamorato di sua moglie, aveva risposto: “Prenditela per favore, ti sarò riconoscente in eterno”.
[Dal Repertorio dei matti della letteratura russa, in preparazione]
Ancora ai tempi della libreria, quadri e incisioni rare cominciarono ad abbandonare le pareti dell’appartamento di Aleksandr Malent’evič. E dopo poco cominciarono a diradarsi i libri sugli scaffali.
Accadde che per quasi un anno non andai a casa sua. Quando entrai il mio cuore si mise la coda tra le zampe e cominciò a guaire: per un uomo che vive di libri, avere la libreria vuota è come tenersi in casa un cadavere.
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, pp. 54-55]
[Stasera, alla scuola elementare di scrittura emiliana e letteratura russa, per provare a raccontare come mai, in Russia, uno scrittore, nel XIX e XX secolo, erano tanto importanti, ho letto questo pezzo di un romanzo del poeta russo Anatolij Mariengof, ambientato a Mosca sul finire degli anni 10 del novecento]
Sto tornando a notte inoltrata dalla casa d’un amico. Nel cielo una nube come un lavabo di ferro col rubinetto rotto d’una casa di campagna: butta giù una pioggia maledetta, continua, ininterrotta.
I marciapiedi della Tverskaja sono neri, lucidi come il mio cilindro. Mi appresto a svoltare nel vicolo Kozickij. D’un tratto dall’altro lato della strada sento:
– Straniero, fermati!
Gli ingenui erano stati ingannati dal mio cilindro e dal cappotto di sartoria.
Cinque uomini si scostarono dal muro.
Mi fermo.
– Cittadino straniero, i suoi documenti!
Un cocchiere col suo vecchio cavallo arrancava sulle pozzanghere del selciato irregolare. Guardò dalla nostra parte, e via, frustando il suo bucefalo che partì a razzo: non era mica stupido. Nei pressi del caffè Lira, all’angolo del vicolo Gnezdnikovskij, un guardiano sonnecchia nella sua giacca rossa. Un attimo e già sgattaiola nella viuzza, e chi s’è visto s’è visto.
Non un’anima viva. Non un cane randagio. Non un pallido lampione. Chiedo:
– In base a quale diritto, compagni, volete i miei documenti? Avete il mandato?
– Il mandato?…
E un ragazzo col berretto da studente e il viso pallido e sciupato, come un cuscino non sprimacciato dopo la notte, agitò davanti al mio naso un revolver:
– Ecco il mandato, cittadino!
– Ma allora volete il cappotto, non i documenti!
– Grazie a Dio, l’ha capita…
E come per aiutarmi a togliermi i paramenti, il ragazzo dal viso sciupato si appostò dietro di me, come il portiere di un buon albergo.
Provai a scherzare. Ma non era il momento. Il cappotto me l’avevano appena confezionato. Di buon taglio, stoffa inglese di ottima qualità.
Il viso sciupato mi guardava malinconicamente.
E quando, scoraggiato al massimo, già mi stavo sfilando le maniche, in mio aiuto giunse puntualmente l’amore senza confini dei russi per l’arte.
Uno della cordiale compagnia, dopo avermi osservato, chiese:
– E come ti chiami, cittadino?
– Mariengof…
– Anatolij Mariengof…
Piacevolmente sorpreso dalle dimensioni della mia fama, ripetei con orgoglio:
– Anatolij Mariengof!
– L’autore di Magdalena?
In quell’istante fortunato e magico della mia vita non solo ero pronto a consegnare loro il cappotto di sartoria, ma ad aggiungervi spontaneamente pantaloni, scarpe di vernice, calzini di seta e fazzoletto.
Nonostante la pioggia! Nonostante non fosse molto dignitoso tornare a casa in mutande! Nonostante l’equilibrio spezzato del nostro bilancio! Nonostante! Mille volte nonostante! E tuttavia quanto è complesso, appetitoso, prelibato il lauto pasto per l’ambizione dell’ingordo Falstaff che abbiamo dentro di noi!
Occorre dire che i miei conoscenti notturni non toccarono il cappotto, il capo che aveva scoperto in me Mariengof si profuse in mille scuse, mi accompagnarono amabilmente fino a casa e, nel salutarli, strinsi loro forte le mani e li invitai alla Stalla di Pegaso ad ascoltare le mie nuove composizioni.
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, pp. 31-32]
Non esiste una forza che sia riuscita a strappare di dosso, a noi russi, la funesta inclinazione alle arti: non c’è riuscito il pidocchio portatore di tifo, né il fango gelatinoso di periferia che t’arriva alle caviglie, né la mancanza di cessi, né la guerra, né la rivoluzione, né i guanti consunti fino alle unghie.
Possiamo dire d’essere delle nature nobili.
Sto tornando a notte inoltrata dalla casa d’un amico. Nel cielo una nube come un lavabo di ferro col rubinetto rotto d’una casa di campagna: butta giù una pioggia maledetta, continua, ininterrotta.
I marciapiedi della Tverskaja sono neri, lucidi come il mio cilindro. Mi appresto a svoltare nel vicolo Kozickij. D’un tratto dall’altro lato della strada sento:
– Straniero, fermati!
Gli ingenui erano stati ingannati dal mio cilindro e dal cappotto di sartoria.
Cinque uomini si scostarono dal muro.
Mi fermo.
– Cittadino straniero, i suoi documenti!
Un cocchiere col suo vecchio cavallo arrancava sulle pozzanghere del selciato irregolare. Guardò dalla nostra parte, e via, frustando il suo bucefalo che partì a razzo: non era mica stupido. Nei pressi del caffè Lira, all’angolo del vicolo Gnezdnikovskij, un guardiano sonnecchia nella sua giacca rossa. Un attimo e già sgattaiola nella viuzza, e chi s’è visto s’è visto.
Non un’anima viva. Non un cane randagio. Non un pallido lampione. Chiedo:
– In base a quale diritto, compagni, volete i miei documenti? Avete il mandato?
– Il mandato?…
E un ragazzo col berretto da studente e il viso pallido e sciupato, come un cuscino non sprimacciato dopo la notte, agitò davanti al mio naso un revolver:
– Ecco il mandato, cittadino!
– Ma allora volete il cappotto, non i documenti!
– Grazie a Dio, l’ha capita…
E come per aiutarmi a togliermi i paramenti, il ragazzo dal viso sciupato si appostò dietro di me, come il portiere di un buon albergo.
Provai a scherzare. Ma non era il momento. Il cappotto me l’avevano appena confezionato. Di buon taglio, stoffa inglese di ottima qualità.
Il viso sciupato mi guardava malinconicamente.
E quando, scoraggiato al massimo, già mi stavo sfilando le maniche, in mio aiuto giunse puntualmente l’amore senza confini dei russi per l’arte.
Uno della cordiale compagnia, dopo avermi osservato, chiese:
– E come ti chiami, cittadino?
– Mariengof…
– Anatolij Mariengof…
Piacevolmente sorpreso dalle dimensioni della mia fama, ripetei con orgoglio:
– Anatolij Mariengof!
– L’autore di Magdalena?
In quell’istante fortunato e magico della mia vita non solo ero pronto a consegnare loro il cappotto di sartoria, ma ad aggiungervi spontaneamente pantaloni, scarpe di vernice, calzini di seta e fazzoletto.
Nonostante la pioggia! Nonostante non fosse molto dignitoso tornare a casa in mutande! Nonostante l’equilibrio spezzato del nostro bilancio! Nonostante! Mille volte nonostante! E tuttavia quanto è complesso, appetitoso, prelibato il lauto pasto per l’ambizione dell’ingordo Falstaff che abbiamo dentro di noi!
Occorre dire che i miei conoscenti notturni non toccarono il cappotto, il capo che aveva scoperto in me Mariengof si profuse in mille scuse, mi accompagnarono amabilmente fino a casa e, nel salutarli, strinsi loro forte le mani e li invitai alla Stalla di Pegaso ad ascoltare le mie nuove composizioni.
[Anatolij Mariengof, Romanzo senza bugie, traduzione di Sergio Leone, Roma, e/o 1986, pp. 31-32]