lunedì 5 Giugno 2017
– Vuoi tornare indietro? – aveva chiesto Kuz’mičóv.
– Sì… voglio… – avevo risposto Egóruška singhiozzando.
– E torna indietro. Tanto è inutile, ti rimandano poi ancora via.
– Non è niente, non è niente, caro… – continuava padre Chrístofor. – Chiedi aiuto a Dio. Anche Lomonósov era partito così, coi pescatori, poi però è diventato un uomo che lo conoscevano in tutta Europa. L’intelligenza, unita alla fede, dà dei frutti che piacciono a Dio. Come si dice nella preghiera? «Per la gloria del Creatore, per la consolazione dei genitori, per il bene della chiesa e della patria»… Ecco.
– Il bene poi dipende … – aveva detto Kuz’mičóv, accendendo un sigaro a buon mercato. – C’è della gente che studia vent’anni e non risolve poi niente lo stesso.
– Succede.
– C’è chi la scienza gli fa bene, e chi lo confonde e basta. Mia sorella, una donna che capisce poco, cerca di fare come fanno i nobili e vuole che Egórka diventa uno scienziato, e non capisce che io, coi miei affari, potrei farlo contento per tutta la vita, a Egórka. Mi spiego: se tutti diventavano scienziati e nobili, allora nessuno commerciava più, nessuno seminava il grano. Morivano tutti di fame.
– Me se tutti commerciassero e seminassero il grano, allora nessuno più capirebbe le scienze.
E convinti tutti e due di aver detto delle cose convincenti e solenni, Kuz’mičóv e padre Chrístofor avevano fatto una faccia seria e avevano tossito contemporaneamente. Déniska, che aveva ascoltato i loro discorsi e non ci aveva capito niente, aveva scosso la testa e, dopo essersi tirato su, aveva frustato tutti e due i cavalli bai. Tacevano tutti.
[Anton Čechov, La steppa, tradotto io, con un testo di Fausto Malcovati, Macerata, Quodlibet 2017, esce il 15 giugno]
giovedì 4 Maggio 2017
– Dica, per cortesia, – aveva detto Ivàn Ivànyč a un vecchietto che era seduto davanti a un negozio: – dov’è qui, la casa di Anastàs’ja Petróvna Toskunóvaja.
– Non ce n’è, di Toskunóvye, qua. – aveva detto il vecchio dopo averci pensato. – Timošénko, forse?
– No, Toskunóvaja…
– Scusi, di Toskunóvye, non ce n’è.
Ivàn Ivànyč aveva alzato le spalle e si era avviato per andare oltre.
– Ma cosa cerca a fare? – gli aveva gridato dietro il vecchietto. – Se dico che non c’è, vuol dire che non c’è.
– Ascolta, cara, – aveva detto Ivàn Ivànyč a una vecchia che a un angolo della strada, a una bancarella, vendeva dei semi di girasole e delle pere, – dov’è qui la casa di Nastàs’ja Petróvna Toskunóvaja?
La vecchia l’aveva guardato stupita e era scoppiata a ridere.
– Adesso va a finire che Nastàs’ja Petróvna sta a casa sua? – aveva chiesto. – Signore benedetto, son già otto anni, che ha sposato sua figlia e ha lasciato la casa a suo genero. Adesso lì ci abita suo genero.
E i suoi occhi dicevano: «Ma voi, coglioni, come fate a non sapere una cosa del genere?».
– E adesso lei dove abita? – aveva chiesto Ivàn Ivànyč.
– Signore benedetto! – si era stupita la vecchia, e aveva battuto le mani tra di loro. – In un appartamento in affitto, abita, ma da tanto tempo. Son già otto anni, che ha lasciato al casa a suo genero! Eh!
Probabilmente si aspettava che anche Ivàn Ivànyč si stupisse e esclamasse «Ma è incredibile!», invece lui, molto calmo, aveva chiesto:
– E dov’è il suo appartamento?
La commerciante si era rimboccata le maniche e, indicando con la mano, si era messo a gridare con una voce sottile e acuta:
– Andate sempre dritto, dritto, dritto… Quando trovate una casetta rossiccia, allora sulla sinistra c’è un vicoletto. Allora voi prendete quel vicoletto e andato al terzo portone sulla destra…
[Anton Čechov, La steppa, capitolo 8]
sabato 24 Dicembre 2016
Scrivi: «Dovunque mi caccio, non vedo che muri». Ma dove ti sei cacciata?
[Anton Čechov, Vita attraverso le lettere, traduzione di Gigliola Venturi e Clara Coïsson, Torino, Einaudi 1989, p. 277]
mercoledì 16 Novembre 2016
Padre Chrístofor d’un tratto si era ricordato qualcosa, aveva sbuffato nel bicchiere e si era messo a tossire perché il riso gli era andato di traverso. Mojséj Mojséič, per cortesia, si era messo a anche lui a ridere e a tossire.
– Che ridere! – aveva detto padre Chrístofor e aveva agitato una mano. – Viene a trovarmi il mio figlio più grande Gavríla. È medico, e lavora nel governatorato di Černigóv, nello zémstvo… Be’, insomma, io gli dico «Ecco, gli dico, ho un po’ il fiato corto, tu sei medico, cura tuo padre». Allora mi fa spogliare, mi bussa, mi ausculta, dice delle sciocchezze… Tasta la pancia e poi dice: «Lei, papà, dovrebbe curarsi con l’aria compressa».
Padre Chrístofor era scoppiato a ridere in modo convulso, fino alle lacrime, e si era alzato.
– E io gli dico: «Dio sia con lei, la tua aria compressa!» – aveva balbettato tra le risate e agitando entrambe le mani. – Dio sia con lei, la tua aria compressa!
Mojséj Mojséič si era alzato anche lui e, prendendosi la pancia, era scoppiato in una risata rumorosa che sembrava l’abbaiare di un cane maltese.
– Dio sia con lei, la tua aria compressa! – aveva ripetuto padre Chrístofor ridendo.
Mojséj Mojséič rideva due toni più sopra ed era scosso da un riso così convulso che stava in piedi a malapena.
– Oh, Dio mio, – gemeva tra le risate, – Lasciatemi respirare. Mi diverto tanto, che, oh, muoio!
[Anton Čechov, La steppa, capitolo III]
martedì 15 Novembre 2016
Nel momento in cui Egóruška stava guardando i volti dei dormienti, si era sentito d’un tratto un cantare sommesso. Da qualche parte, poco lontano, una donna cantava ma dove fosse, e in che direzione, era difficile dirlo. La canzone sommessa, monotona e malinconica, simile a un pianto e appena percettibile, si sentiva ora a destra, ora a sinistra, ora dall’alto, ora da sotto terra, come se la steppa fosse stata percorsa da uno spirito invisibile che si era messo a cantare. Egóruška si era guardato intorno e non capiva da dove venisse quella strana canzone; poi, a forza di ascoltare, aveva cominciato a sembrargli che fosse l’erba, a cantare; nella sua canzone, semimorta, quasi andata, senza parole, lamentosa, sincera, cercava di convincere qualcuno che non era colpa sua, che il sole l’aveva bruciata senza una ragione; assicurava di avere un’appassionata voglia di vivere, che era ancora giovane e che sarebbe stata anche bella, se non ci fossero stati il caldo e la siccità; non aveva colpe ma chiedeva lo stesso perdono a qualcuno e giurava che provava un dolore insopportabile e che era triste e si compiangeva…
Egóruška aveva ascoltato ancora un po’ e gli era sembrato che per quella malinconica, monotona canzone, l’aria fosse diventata più calda, più soffocante e più ferma… Per far tacere la canzone, canticchiando e cercando di fare rumore coi piedi era corso fino al carice. Da lì aveva guardato da tutte le parti e l’aveva trovato, chi cantava. Vicino all’isba più lontana del piccolo villaggio c’era una donna con una sottana corta, con delle lunghe gambe sottili, come un airone, che setacciava qualcosa; dal setaccio scendeva lento dal poggio un pulviscolo bianco.
[Anton Čechov, la steppa, capitolo II]
sabato 27 Agosto 2016
Oggi mi son tagliato i capelli! Sono stato in città per la prima volta dopo la malattia, sono andato malgrado gelasse (-2°) e mi son fatto tagliare barba e capelli – questo per il caso d’un tuo arrivo. Tu sei severa,bisogna avere un aspetto decente, decoroso.
Maša ha assunto una cuoca. Io, si può dire, non scrivo nulla, esattamente nulla! Ma non amareggiarti, a tutto si fa in tempo. Ho già scritto undici volumi, uno scherzo da nulla! A quarantacinque anni ne avrò scritti venti. Non prendertela, tesoro, moglie mia! Io non scrivo, però leggo tanto, che presto diventerò intelligente.
[Anton Čechov, Lettera a Ol’ga L. Knipper del 3 gennaio 1902, in Anton Čechov, Vita attraverso le lettere, traduzione di Gigliola Venturi e Clara Coïsson, Torino, Einaudi 1989, p. 274]
giovedì 2 Giugno 2016
La vita è orribile e meravigliosa.
[La steppa di Čechov, capitolo VI]
domenica 22 Maggio 2016
Stamattina sto traducendo La steppa di Čechov e sono arrivato al punto che Dappertutto, dovunque si guardasse, si stendeva una pianura triste, infinita e marroncina.
mercoledì 4 Maggio 2016
Nel momento in cui Egóruška stava guardando i volti dei dormienti, si era sentito d’un tratto un cantare sommesso. Da qualche parte, poco lontano, una donna cantava ma dove fosse, e in che direzione, era difficile dirlo. La canzone sommessa, monotona e malinconica, simile a un pianto e appena percepibile, si sentiva ora a destra, ora a sinistra, ora dall’alto, ora da sotto terra, come se la steppa fosse stata percorsa da uno spirito invisibile che si era messo a cantare. Egóruška si era guardato intorno e non capiva da dove venisse quella strana canzone; poi, a forza di ascoltare, aveva cominciato a sembrargli che fosse l’erba, a cantare; nella sua canzone, lei, semimorta, quasi andata, senza parole ma con un lamento sincero, cercava di convincere qualcuno che non era colpa sua, che il sole l’aveva bruciata senza una ragione; assicurava di avere una appassionata voglia di vivere, che era ancora giovane e che sarebbe stata anche bella, se non ci fossero stati il caldo e la siccità; non aveva colpe ma chiedeva lo stesso perdono a qualcuno e giurava che provava un dolore insopportabile e che era triste e si compiangeva…
Egóruška aveva ascoltato ancora un po’ e gli era sembrato che per quella malinconica, monotona canzone, l’aria fosse diventata più calda, più soffocante e più immobile… Per far tacere la canzone, canticchiando e cercando di fare rumore coi piedi era corso fino al carice. Da lì aveva guardato da tutte le parti e aveva trovato, chi cantava. Vicino all’isba più lontana del piccolo villaggio c’era una donna con una sottana corta, con delle lunghe gambe sottili, come un airone, e setacciava qualcosa; dal setaccio scendeva lento dal poggio un pulviscolo bianco.
[La steppa di Čechov, capitolo 2]
giovedì 17 Settembre 2015
Quando Ol’ga gli annuncia che la Chaljutina, interprete di Šarlotta, è incinta e deve essere sostituita, Čechov, che è insoddisfatto di quasi tutti gli interpreti del Giardino, commenta: “Peccato che non possa rimanere incinta anche Leonidov (secondo lui pessimo Lopachin) o Aleksandrov (sostituto mediocre di Trofimov)”. E aggiunge: “Sogno l’estate! Ho voglia di rimanere solo con te, scrivere, pensare”. Quando lei, in un momento di depressione, si chiede che senso abbia la sua vita, Čechov le risponde: “Che cos’è la vita? È come chiedere che cos’è una carota. Una carota è una carota, di più non si sa”.
[Fausto Malcovati, Il medico, la moglie, l’amante, Milano, Marcos y Marcos 2015, p. 206 (è uscito oggi)]