La noia
Correre tutte le mattine uno potrebbe pensare Che noia, invece no, tutti i giorni una fatica diversa.
Correre tutte le mattine uno potrebbe pensare Che noia, invece no, tutti i giorni una fatica diversa.
Dmitrij Nikolaevič Ljubimov, che era presente, quel giorno, alla seduta degli amanti della letteratura russa, racconta: «Credo che le pareti del Circolo dei nobili di Mosca non siano mai state investite, né prima né dopo, da un tale entusiasmo. Gridavano e battevano le mani praticamente tutti, in sala e sul palco. Aksakov è corso a abbracciare Dostoevskij, Turgenev, trascinandosi come un orso, correva verso Dostoevskij a braccia aperte. Dostoevskij sul palco si asciugava il sudore con un fazzoletto, e il presidente ha suonato la campanella con vigore e ha ricordato che il convegno doveva continuare, e ha invitato sul palco Ivan Sergevič Aksakov. Aksakov è corso al podio e ha gridato: «Signori, non voglio e non posso parlare dopo Dostoevskij. Dopo Dostoevskij non si può parlare. Il discorso che abbiamo sentito, è un avvenimento. Turgenev è d’accordo con me».
Esce il 16 aprile, per gli Oscar Mondadori, il discorso di Dostoevskij su Puškin tradotto da Sofia Ballan, Antonella Castria, Claudia Coppola, Asia Mariancini, Sophia Simo, Monica Triglia e Andrea Vercelli, studenti della specialistica Iulm. Ci sono anche l’introduzione di Dostoevskij, una risposta, sempre di Dostoevskij, alle critiche di un giornalista, Gradovskij, e il discorso che, nella stessa occasione, ha tenuto Turgenev. Preordinabile qui: clic
E i lettori di Dostoevskij si arrampicavano su per le scale fino all’ultimo piano e i muri delle scale erano pieni di scritte, e di graffiti, come quelli della casa dove abitava Bulgakov a Mosca, e dicono che ci fossero stati degli studenti che avevano scritto, sulla porta della soffitta di vicolo dei Falegnami, al numero 5: «Raskol’nikov, abbiamo una vecchia che, per favore, valla a trovare, si chiama Irina Dmitrievna, abita in ulica Rubinštejn, al numero 12 interno 21, è la nostra insegnante di letteratura russa, alle sette di sera è sempre in casa; vai, per favore, e non dimenticarti la scure. Grazie!».
Venerdì 29 marzo, alle 16, sono a Fahrenheit a parlare di Una notte al Museo Russo
La mia agente, si chiama Valentina, una volta mi ha telefonato mi ha detto che la casa editrice Laterza voleva fare una collana che si intitolava Una notte al museo, dove chiedevano a degli scrittori di passare una notte in un museo e di raccontare com’era, e che avevano pensato che io avrei potuto scrivere un libro sull’Ermitage di San Pietroburgo.
«Sei contento?» mi ha chiesto Valentina.
«No», le ho risposto io.
[Martedì 5 marzo, a Bologna, in Salaborsa, alle 18, con Nicola Borghesi e Alessandro Freno presento il libro Una notte al museo russo (esce il primo marzo). Nella foto di @claudiosforza_photography) Aleksandr Traugot]
Che io, meglio se concentro tutti i miei impegni lavorativi un solo giorno la settimana, la domenica, quando le forze del bene sono stanche dopo lo sforzo della creazione e il settimo giorno si riposarono. Io invece vengo da sei giorni che non ho fatto un cazzo, sono fresco come una rosa.
[Oggi vado a Milano a registrare l’audiolibro di Diavoli e, stasera, a presentare Grandi ustionati alla libreria Verso]
Mi ricordo di aver fatto un test del Q. I. e di essere risultato al di sotto della norma. (Non l’ho mai detto a nessuno)
Joe Brainard
[Ieri sera, a una scuola che si chiama Una piccola macchina per lo stupore, abbiamo parlato di Joe Brainard]
Tanti anni fa ho fatto una proposta a un editore: una raccolta di racconti di scrittori emiliano-romagnoli. Gli ho scritto: «Il titolo, Allegri e disperati, significa nella mia testa un ragionamento che è cominciato da una frase di Gogol’. Nella mia testa c’è questa frase di Gogol’ che gira e dice più o meno “Non avete provato anche voi quella sensazione di quando finisce la festa, che vi sembra che vi si stacchi la pelle di dosso?”. Questa sensazione di cui parla Gogol’, che la pelle ti si stacca di dosso dopo la festa, è secondo me tipica della nostra terra, dove il carattere gioviale della gente convive con una discrezione che impedisce di manifestare in pubblico i propri sentimenti e i propri affetti. Allora il momento della disperazione è un momento solitario. Non ci sono, da noi, e non potrebbero esserci», gli ho scritto, «quelle donne che in Sicilia sono pagate per piangere ai funerali. Noi affrontiamo il mondo come se fossimo tutti d’un pezzo, con una dignità e una coerenza che ci hanno insegnato che vanno bene. E quando crolliamo, che crolliamo, crolliamo da soli, dentro le stanze. E uno che viene da fuori non lo direbbe mai, a vederci che teniamo su una compagnia di trenta persone e beviamo lambrusco e diciamo cazzate, non lo direbbe mai che diamo i pugni al muro, quando torniamo a casa».
[Forse facciamo un altro spettacolo teatrale. Si chiamerà, forse, La disperazione. Primo episodio. Nella foto (fatta alle collezioni comunali d’arte di Bologna) il pianoforte della scuola di musica Giuseppe Sarti di Faenza dopo l’alluvione]
ogni tanto mi chiedono «Ma come mai tieni per il Parma, con tutte le squadre che ci sono?», e io mi vien da rispondere che ho preso tanto di quel freddo, allo stadio Tardini di Parma, e, tutto il freddo che ho preso, non posso tenere per un’altra squadra, devo tener per il Parma.
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