Un rovinoso compito ideologizzante

lunedì 21 Aprile 2014

Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se un angelo intervistatore mi ponesse una domanda sulla condizione attuale del romanzo, io penso che, con la compunzione necessaria, risponderei all’incirca così:
«Io provo uno scarso interesse per il romanzo in genere – inteso come protratta narrazione di eventi o situazioni verosimili – e talora un sentimento più prossimo alla ripugnanza che al semplice fastidio; ho l’impressione che oggi codesto genere sia caduto in tanta irreparabile fatiscenza che il problema è solo quello dello sgombero delle macerie, non del loro riattamento a condizioni abitabili; codesto sprofondamento ha, a mio avviso una causa precisa. I romanzieri sono persone serie, o si comportano come tali. Sono persuasi che nelle pieghe del loro raccontare debba essere disposto il coonestante aroma di una qualche idea generale, di un messaggio. Diventato nutrimento ideologico, insaporito di frammenti di idee, il romanzo è decaduto (come nota Giuliani) a messaggio edificante; questo di per sé non sarebbe ancora rovinoso, giacché le vie della salvezza letteraria sono infinite; ma ci rattrista constatare a qual punto i romanzieri siano riusciti nel loro compito. Non per caso, il romanzo appare nella letteratura europea proprio nel momento in cui decadono il gusto e l’intelligenza della retorica classica: quando, cioè, entra in crisi l’idea dell’opera letteraria come artificio; in particolare, l’esplosione ottocentesca del romanzo coincide con la liquidazione della retorica classica.
Dimentico che non v’è discorso letterario senza macchinazione, il romanziere si è via via persuaso che quel che egli faceva aveva qualcosa a che fare col mondo in cui viveva; critici pazienti gli hanno spiegato che, di quel mondo, il romanzo era volta a volta specchio, testimonianza, interpretazione; indotto da queste insinuazioni a sottovalutarsi, il narratore si è coinvolto in un rovinoso compito ideologizzante: non pago del messaggio, ha tentato la visione del mondo. Corrotto dalla serietà propria e dei critici, ha perso la limpida gioia della menzogna, l’irresponsabilità, la doppiezza morale, l’ilare arroganza che sono, a mio avviso, le virtù fondamentali di coloro che attendono a quel perpetuo scandalo che è il lavoro letterario. Persuaso di avere delle idee, e che il romanzo sia mezzo atto ad esprimerle, lo scrittore ha perso il candido cinismo, in primo luogo il cinismo verso se medesimo. Ha scelto di balbettare delle verità, mentre era suo compito declamare delle fluenti menzogne, anzi esaltare il vero a menzogna; ha cercato di far capire che egli si proponeva di interpretare il mondo per i suoi lettori, invece di rivolgersi a lettori non nati, già morti o destinati a non nascere mai; ha voluto collocarsi nella storia, che fra tutti gli abitacoli che la letteratura ha sperimentato si è rivelato il più estraneo e disagevole. Infine ha rinunciato alla disubbidienza, si è fatto morigerato: ed ora si stupisce che la letteratura, aureolata sgualdrina, respinga e irrida la sua corte goffa e onesta.

[Giorgio Manganelli, Il romanzo, in Il rumore sottile della prosa, Milano, Adelphi 2013 (2), pp. 57-58]