Un rituale
Scrivere è in fondo un rituale che impariamo a scuola, quando siamo bambini: un rituale dove si cerca di mettere in moto il pensare-immaginare, per farsi venire in mente una frase, per ricordare una parola. Tutto questo fa parte di qualcosa che è molto costruito in noi, e va inevitabilmente insieme a un certo grado di fantasticazione. Poi c’è qualcos’altro, che è la distanza da cui si guarda la figurazione delle parole che sorge dai segnetti scritti. In Altrove di Henri Michaux si parla di una popolazione immaginaria, se ne descrivono i costumi e i teatri: «A teatro si rivela il loro gusto del lontano. La sala è lunga, il palcoscenico è profondo. Le immagini, le forme dei personaggi vi appaiono grazie a un gioco di specchi. gli attori recitano in un’altra sala, e vi appaiono più reali che se fossero presenti. Più concentrati, più purificati, più definitivi, sbarazzati di quell’alone che produce sempre la presenza reale, faccia a faccia…» Questa idea di attori che recitano in un teatro dove sono visti attraverso un gioco di specchi, mi sembra una figurazione del gioco dello scrivere, che non può mai essere diretto. È sempre un gioco sulla distanza che ci sottrae al faccia a faccia con la realtà, e al tempo stesso potenzia la percezione come un gioco di specchi. Perché in questo modo non vediamo soltanto qualcosa: vediamo il vedere, guardiamo il guardare, percepiamo l’atto di percepire. Il rituale dello scrivere prevede questo effetto, come una messa a distanza delle percezioni, per sottrarle alla casualità e portarle verso la trasparenza dell’intelleggibile. Solo in questi termini riesco a scrivere, e sopporto poco chi prende lo scrivere come un riflesso della sua esperienza personale o della cosiddetta realtà nuda e cruda, senza vedere il processo rituale a cui le parole devono essere sottoposte (metrica, ritmo, colore tonale, distanza focale).
[Gianni Celati, Conversazioni del vento volatore, cit., pp. 79-80]