Un capolavoro

sabato 16 Giugno 2018

Giorgio Manganelli diceva che c’è una condizione indispensabile per scrivere un libro: l’incompetenza. «Ci vuole un incompetente – scriveva – perché l’opera funzioni. Eccomi qua, – aggiungeva, – sono la persona giusta: totalmente irresponsabile e assolutamente squalificato». Ecco, se siete incompetenti, possiamo andare avanti, e se siete competenti in qualche campo, basta che cerchiate di non scrivere di quello, e va bene lo stesso. Dopo, data per assodata l’incompetenza, e ricordato che, per scrivere un libro, le due cose che servono, secondo l’insegnamento di Charles Bukowski, sono «una macchina da scrivere e una sedia», e che è importantissimo, soprattutto, trovare la sedia, tutti i giorni, fatte queste premesse, tutti i metodi son buoni, secondo me. Il mio non è cambiato tanto, nel corso del tempo. Nel senso che i primi libri che ho scritto erano dei libri un po’ strani, come mi ha detto un ragazzo che si chiama Giacomo che ho conosciuto quando, alla fine del 1999, mi sono trasferito a Bologna dopo aver pubblicato i primi due libri che ho pubblicato Questo Giacomo è stato una delle prime persone che ho conosciuto, a Bologna, e, siccome mi aveva conosciuto, aveva letto un libro che avevo scritto io che era uscito in quei giorni, che si chiamava Bassotuba non c’è, e quando mi aveva rivisto mi aveva detto che gli era piaciuto ma l’aveva trovato, appunto, strano, un po’ il contrario dei libri di avventura, mi aveva detto. Che nei libri di avvenuta, mi aveva detto Giacomo, tipo I tre moschettieri, ogni pagina ci son dei duelli, delle agnizioni, dei delitti, delle tragedie, e tu volti le pagine perché vuoi vedere cos’altro succede. «Nel tuo romanzo, – aveva concluso Giacomo, – tu volti le pagine perché vuoi vedere se finalmente succede qualcosa». Non so se era un complimento, ma io, devo dire, quando Giacomo mi aveva detto questa cosa, ero stato contento. Perché per me, come lettore, la letteratura è quella cosa che ti trasforma in una macchina che volta le pagine. Che poi il libro sia costruito sul tutto o sul niente, è una cosa che io trovo del tutto secondaria, come lettore. Io sono stato un lettore appassionato sa di libri costruiti sul tutto, come Il conte di Montecristo, di Alexandre Dumas, o La cripta dei cappuccini, di Joseph Roth, o Guerra e pace, di Lev Tolstoj, che di libri costruiti sul niente, come La coscienza di Zeno, di Italo Svevo, nel quale succede che uno che vuol smettere di fumare non riesce a smettere di fumare, allora va in analisi e non riesce a finire l’analisi, e per far dispetto al suo analista scrive il libro, o come Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, nel quale succede che uno aspetta tanto l’arrivo dei tartari, per tutta la vita, e i tartari non arrivano, e quando lui va in pensione arrivano i tartari, e a lui, tutto sommato, non dispiace neanche tanto, o come il primo spettacolo teatrale che ho visto in francese, al Piccolo teatro di Milano, Aspettando Godot, di Beckett, dove, com’è noto, la cosa che succede è che Godot non arriva neanche lui, come i tartari.
Introduco un altro elemento autobiografico, mi sembra sia utile, e mi sento giustificato dal fatto che, ormai, buona parte della narrativa contemporanea è di un genere chiamato autofiction, che sono quei testi in cui la figura dell’io narrante e dell’autore si possono confondere. Quando la moda dell’autofiction si è diffusa in Italia, una dozzina di anni fa, per via di alcuni romanzi francesi che erano stati tradotti, una scrittrice italiana ha chiesto, su Twitter, se c’era qualche autore italiano che avesse mai praticato questa autofiction, e io, mi ricordo, mi era venuto da scrivere «Dante Alighieri». E non era questo l’elemento autobiografico, quanto il fatto che io, il mio primo romanzo l’ho cominciato a scrivere che avevo otto anni, ed era un romanzo dove un signore partiva per un lungo viaggio con il suo servitore in seguito a una scommessa. Avevo appena letto il primo romanzo lungo che ho letto, Il giro del mondo in ottanta giorni, e pensavo che i romanzi fossero tutti così, come inizio, e il mio lo scrivevo a penna, e mia mamma me lo batteva a macchina, su dei fogli azzurri, mi ricordo ancora, al tatto, quei fogli azzurri, un po’ pelosi, mi piacevano moltissimo, ero molto fiero, e pensavo che mio nonno, che, in casa, era quello che leggeva di più, sarebbe stato fiero anche lui, invece lui, mi ricordo, mi aveva chiesto «Ma tu lo sai, come va a finire?».
E io gli avevo detto «No». E lui mi aveva detto «Ah, be’, allora…». E io c’ero rimasto così male che non ero più andato avanti e il romanzo successivo l’ho cominciato venticinque anni dopo, quando di anni ne avevo trentatré. E quando l’ho cominciato, non avevo idea di come sarebbe finito, e così per tutti i libri che ho scritto poi dopo, e li ho scritti lo stesso.Non è indispensabile, avere una storia, per scrivere un libro; la storia, o la non storia, la si può trovare anche strada facendo. Una volta ho parlato di questa possibilità di scrivere senza scaletta e senza sapere dove si va a parare con Carlo Lucarelli, che, com’è noto, scrive dei gialli, e lui mi ha raccontato che, il primo romanzo che ha scritto, quando ha cominciato pensava che il colpevole fosse uno, poi, a metà, si è accorto che non era quello, pensava fosse un altro, poco prima della fine si è accorto che non era neanche l’altro era un terzo.
Un’idea, anche bella, quando poi la traduci in parole, in frasi, in pause, in dialoghi, in personaggi, diventa tutta un’altra cosa e io, col tempo, ho imparato a cercare di non pensare, ma a sforzarmi di fare, tutti i giorni, quella cosa difficilissima di cui parlava Bukowski, trovare la sedia.
Quanto al problema del pubblico, Anton Čechov, a un suo conoscente aveva consigliato di non preoccuparsi, del pubblico. Che tanto, gli aveva detto «Per qualsiasi sciocchezza che viene stampata, si trova subito qualcuno disposto a giurare che è un capolavoro». E a un altro conoscente, Ivan Bunin, Čechov aveva confessato: «Secondo me, finito di scrivere un racconto bisognerebbe buttare via l’inizio e la fine. È lì che noi scrittori concentriamo la maggior parte delle bugie».

[Uscito ieri sulla Verità]