Tutto è bene quel che finisce bene

sabato 9 Giugno 2018

Un romanzo, quando arriva in libreria, non tutti quelli che lo prendono in mano lo leggono, però tutti, o quasi tutti, quelli che lo prendono in mano, leggono il titolo. È un fatto: il titolo di un romanzo ha molti più lettori del romanzo; allora, uno dei consigli che mi sento di dare a chi voglia scrivere un romanzo, è di scegliere un bel titolo.
Uno scrittore sudamericano che si chiama Augusto Monterroso secondo me ha scritto il libro con il titolo forse più bello che io abbia mai letto: Opere complete e altri racconti. È una raccolta di racconti uno dei quali si intitola Opere complete, quindi il titolo è serissimo e perfettamente coerente.
Monterroso ha scritto anche un decalogo dello scrittore in dodici punti (lo scrittore che decidesse di adottare questo decalogo è libero di scartarne due a sua scelta), il cui primo punto recita: «Quando hai qualcosa da dire, dillo; quando non ce l’hai, anche. Scrivi sempre», che mi sembra che sia una buona politica, per chi vuole scrivere un romanzo.
Uno che faceva così sembra fosse Georges Simenon, e adesso ne parliamo, prima però diciamo ancora un paio di cose sui titoli: Guerra e pace, in un fase intermedia di lavorazione, Tolstoj l’aveva chiamato Tutto è bene quel che finisce, e l’impressione che si ha quando si sa questa cosa è che non sarebbe stato lo stesso romanzo, se si fosse intitolato così, così come Il Maestro e Margherita sarebbe stata un’altra cosa, probabilmente, se si fosse intitolato Il consulente con lo zoccolo, che era il suo primo titolo; mi è difficile immaginare che un libro che si intitola Il consulente con lo zoccolo possa essere un bel libro, e mi è difficile pensare che Bulgakov fosse contento quando, a chi gli chiedeva cosa stesse scrivendo, era costretto a rispondere «Un romanzo», «E come si intitola?», «Il consulente con lo zoccolo».
Un’altra cosa che si legge spesso, dei libri che si prendono in mano, è l’epigrafe, quella citazione che sta all’inizio, tra il titolo e il testo: io, per andare avanti bene a lavorare a un romanzo, devo avere un titolo e un’epigrafe che mi piacciono. Nel libro che sto scrivendo adesso, per esempio, che si intitola Che dispiacere, ho messo, per il momento, un’epigrafe di Leo Ortolani che dice: «Non puoi capire cosa spinga un uomo ad andare nello spazio, fino a che non hai una figlia adolescente».
Un’epigrafe di cui son stato invidioso è l’epigrafe del romanzo di Giorgio Biferali L’amore a vent’anni, uscito quest’anno per Tunué, che è presa da La schiuma dei giorni, di Boris Vian, e dice: «Poi, tutte le volte che le dicevo qualcosa, lei rispondeva “Anch’io”, e viceversa… Così alla fine, tanto per fare un’esperienza esistenzialista, ho provato a dirle “Signorina, la amo tanto”, e lei ha detto “Oh”.
Dopo, una volta esaurite queste importantissime pratiche paratestuali, cioè una volta che si sono scelti titolo e epigrafe, uno dei primi problemi che si trova davanti una persona che vuol scrivere un romanzo, è come chiamare i personaggi che ci vuol mettere dentro. Georges Simenon è uno che di romanzi ne ha scritti parecchi, e li scriveva abbastanza rapidamente, raccontano di una telefonata che a Simenon aveva fatto Alfred Hitchcock, che sembra gli avesse chiesto «La disturbo? Sta scrivendo un romanzo? Se sta scrivendo un romanzo non si preoccupi, aspetto al telefono che finisca»; ecco, Simenon, che scriveva così velocemente, dicono che la parte più difficile del suo lavoro fosse trovare il nome del protagonista, che girasse in tondo per casa per delle ore finché non l’aveva trovato e che poi, una volta trovato il nome, il romanzo veniva giù come magicamente dal suono di quel nome.
Io, però, se dovessi dire un nome che c’è nei romanzi di Simenon, a parte Maigret, non saprei dirne neanche uno, su Simenon non son tanto preparato meglio se torniamo alla letteratura russa.
Quando il protagonista del Cappotto di Gogol’ nasce, orfano di padre, alla madre propongono i nomi Mokkij, Sossij o Chozdazat.
Lei ci pensa un po’ poi dice «Ma che razza di nomi».
Allora aprono il calendario e leggono i nomi: Trefilij, Dula, e Varachasij.
«Ma è un castigo!», dice la madre.
Cercano allora ancora nel calendario e saltano fuori: Pavsikakij e Vachtisij.
La madre allora dice: «Se è così, meglio che prenda il nome del padre. Il padre si chiamava Akakij. E sia Akakij anche il figlio», e viene fuori Akakij Akakievič, un copista la cui vita cambia nel momento in cui decide di comprare un cappotto nuovo, il momento in cui entra nella sua vita «l’idea eterna del futuro cappotto», ovvero di «un ospite luminoso in forma di cappotto», quasi «una piacevole compagna di vita» (cappotto, šinel’, in russo è femminile).
Boris Ejchenbaum scrive che Gogol’ «dava un’importanza eccezionale ai nomi dei suoi personaggi; li cercava e li trovava dappertutto: «il cognome del protagonista delle Anime morte, Čičikov, fu trovato su una casa, a quei tempi non mettevano i numeri sulle case, ma il cognome del proprietario. Il cognome del generale Betriščev, nella seconda parte delle Anime morte, Gogol’ l’ha trovato nel registro reclami di una stazione di posta, e ha detto a un suo amico che, alla vista di quel cognome, gli sono apparsi subito la figura e i baffi grigi del generale».
È come se nel nome ci fosse già il destino del personaggio. Quando lo zar Nicola legge, pochi giorni dopo la sua uscita, nel giugno del 1840, il romanzo di Lermontov Un eroe dei nostri tempi, all’inizio pensa che l’eroe, il protagonista del libro, sia il primo personaggio che si incontra nel romanzo, il maturo capitano Maskim Maksimyč, ma si sbaglia: il destino di Maksim Maksimyč è segnato dal patronimico che ripete il nome, e è il destino di un personaggio comico, è il destino di chi, come l’Akakij Akakevič del Cappotto di Gogol’, o l’Il’ja Il’ič Oblomov dell’Oblomov di Gončarov, o il cane Pallino, che diventa bolscevico in Cuore di cane di Bulgakov e viene ribattezzato Poligraf Poligrafovič Pallinov, non può essere un eroe.
Gli eroi si chiamano come il vero protagonista del romanzo di Lermontov, un giovane ufficiale che allo zar Nicola non piacerà affatto: Grigorij Aleksadrovič Pečorin.
Per finire, le cose si possono complicare con gli pseudonimi.
Io, per esempio, in quel romanzo che sto scrivendo, e che si intitola Che dispiacere, ci ho messo dentro sei giornalisti che scrivono con pseudonimo, cinque maschi e una femmina, e gli pseudonimi dei maschi sono: Ivan Piri, Ivan Dali, Ivan Geli, Ivan Taggi e Igor Miti; della femmina: Iris Toranti.

[Uscito ieri su La verità]