Prima centrifugo dopo centripeto
Copio qua sotto una pezzo sull’ultimo romanzo di Camilleri che esce oggi su libero.
Ho letto il romanzo di Andrea Camilleri La rizzagliata (Sellerio 2009, pp. 210, 13 euro) subito dopo avere riletto il saggio di Michail Bachtin La parola nel romanzo (in Estetica e romanzo, Einaudi, 1979, tr. t. Clara Strada Janovič, pp. 67-230), e fin dalla prima frase del libro di Camilleri «“Assolutamente no!” sclamò Michele Caruso, il direttore», mi è venuto da pensare che mi trovavo di fronte a un’applicazione quasi estremistica delle teorie di Bachtin sulla lingua del romanzo.
Secondo Bachtin ci sono, nella lingua, delle forze centripete e delle forze centrifughe. Le prime, le forze centripete, rispondono all’esigenza di avere una lingua unica, che serva da modello anche morale, e nell’alveo di queste forze, unificanti e centralizzanti, si sviluppano, secondo Bachtin, le principali varietà del genere poetico (e viene spontaneo pensare al valore, unificante e centralizzante, che nella storia della lingua italiana hanno avuto i modelli di Dante e di Petrarca).
La storia del romanzo si sviluppa invece, secondo Bachtin, in senso contrario. «Mentre la poesia /…/ risolveva il compito della centralizzazione culturale, nazionale e politica del mondo ideologico-verbale, – scrive Bachtin, – nei ceti inferiori, sul palco dei saltimbanchi e delle fiere risuonava la pluridiscorsività buffonesca, che rifaceva il verso a tutte le “lingue” e i dialetti». Lì «non c’era alcun centro linguistico, /…/ tutte le lingue erano maschere e non c’era un volto linguistico autentico e indiscutibile». Ed è lì, nell’alveo di queste forze «centrifughe decentralizzanti», che, secondo Bachtin, «si sono formati il romanzo e i generi artistico-prosaici che gli gravitano attorno».
Ecco. Una cosa strana, dei libri di Camilleri, e anche di questo La rizzagliata, è il fatto che qui non solo si ritrova il movimento centrifugo della lingua del romanzo, affidato a un comprensibilissimo siciliano d’invenzione che a me fa venire in mentre il comprensibilissimo veneto di Giacomo Noventa e il comprensibilissimo napoletano di Edoardo De Filippo: questa funzione centrifuga, qui, è affidata al narratore, alla figura in un certo senso ufficiale, del romanzo, che prevale e sommerge i relitti centripeti e unificanti che affiorano nelle parlate individuali, quelle che, per prime, dovrebbero testimoniare la pluridiscorsività, e che sono, invece, nel romanzo di Camilleri, le spie intermittenti dell’esistenza di una lingua unitaria e centralizzante il cui modello non è più la poesia di Dante e di Petrarca, ma una specie di “neo-lingua basica e colloquiale che affianca, per i compiti più umili, il buroitaliano delle occasioni ufficiali”, come l’ha definita una volta Franco Cavallone.
Questa neo-lingua è testimoniata fin da subito da quell’ «assolutamente no» che, in un libretto a cura di Matteo B. Bianchi, pubblicato l’anno scorso da Fandango, il Dizionario affettivo della lingua italiana, viene definito, da Luciano Marrocu, «orrendo».
Marrocu, a dir la verità, definisce orrendo l’assolutamente sì, «il caporalesco assolutamente sì, espressione incongrua che mette insieme la granitica certezza di assolutamente – sempre sospetta di prepotenza e intolleranza – con la mitezza che si intuisce dietro il sì», ma il discorso vale anche per l’assolutamente no, mi sembra.
Ecco, nel romanzo di Camilleri, questo impasto linguistico è tutt’altro che orrendo, sembra quasi che il narratore, dal basso della sua lingua centrifuga e discutibile, si prenda gioco dell’annaspare linguistico dei suoi personaggi verso un centro che, privato dei suoi modelli indiscussi, è difficile trovare.
Ma una cosa che a me è sembrata più strana ancora, è il fatto che questo impasto linguistico ribaltato viene usato, nella Rizzagliata, per disegnare una trama perfettamente aderente alle convenzioni di genere.
Tutto quel che succede a Palermo nel periodo descritto da Camilleri, sembra convergere inesorabilmente verso un finale, quasi servire un finale in cui tutti i pezzi, tutti i dettagli, tutte i nodi, come si dice, vengono al pettine; come se tutte le cose che sono successe a Palermo in quel periodo fossero state determinate, come in un domino, dal delitto con il quale il romanzo si apre, come se non ci fosse spazio, nell’attenzione e nella vita dei personaggi, per altro che per quelle cose, come se a Palermo, in quel periodo, avessero sospeso il campionato di calcio, le estrazioni del lotto, le previsioni del tempo, tutto: tutto si concentra sulla trama, ogni dettaglio è utile e funzionale alla trama, e lì, è questione di gusti, ma a me è venuto da pensare al Grande sonno, di Raymond Chandler, e a quando Faulkner, che lo doveva sceneggiare per il cinema, ha chiamato Chandler e gli ha detto “Guarda che nel libro non si scopre chi è l’autore del primo delitto, quello dell’autista”. E sembra che Chandler gli abbia risposto “E allora?”.