Non so
Non so di preciso come stanno le cose, in generale, ma credo che ogni lettore si costruisca un canone, un empireo, un’hit parade degli scrittori che gli piaccion di più, perlomeno io faccio così, e nella mia personale hit parade degli scrittori italiani al di sotto dei cinquant’anni Ugo Cornia occupa, da tempo, il primo posto, e non credo di essere in questo influenzato dal fatto che siamo amici, anzi. Io non so se succede anche agli altri che scrivon dei libri, ma io, l’invidia, la puntura dell’invidia io la sento non per gli estranei, per gli amici. Se esce, per dire, un libro di Tiziano Scarpa (non che io e Scarpa siam proprio estranei, ma non è che siamo amici), se esce un libro di Tiziano Scarpa e riceve consensi di pubblico e di critica e vince magari anche il premio Strega, io sono contento. Se la stessa cosa succedesse con un libro di Ugo Cornia, io non lo so, come reagirei. Secondo me in pubblico direi che sono molto contento, dentro di me ci resterei malissimo.
Non so perché, ma è così, ed è stato così fin da quando ci siamo conosciuti, nel 1997, e cercavamo ciascuno di pubblicare il suo primo romanzo e Ugo m’ ha detto, una volta, «Se pubblichi prima tu io sono invidioso», e io l’ho guardato e gli ho detto: «Anch’io». Ecco. Detto ciò, avete tutti gli elementi per valutare il fatto che io, di quest’ultimo libro di Ugo Cornia appena uscito per Quodlibet (Operette ipotetiche, Quodlibet compagnia extra, 112 pp, 12 euro) non sono convinto del tutto.
È un libro fatto tutto di racconti ipotetici, il cui modo verbale è il condizionale, ogni racconto si apre con un’ipotesi: Cosa succederebbe se avessi un cubo d’oro massiccio di un metro di lato? Cosa succederebbe se Dio facesse dei miracoli invisibili? Cosa succederebbe se io avessi un figlio e un cane e mio figlio si affezionasse più al cane che a me? Cosa succederebbe se un uomo di cinquant’anni si alzasse di notte per andare a pisciare e trovasse in bagno suo padre, morto da anni, e gli chiedesse cos’era tornato a fare. Intanto forse succederebbe che il padre direbbe «Son tornato per pisciare, non si vede?». E al figlio che gli chiedesse come vanno le cose nell’aldilà, il padre direbbe che l’aldilà è in uno stato di completo sfacelo. «L’aldilà, ormai, – direbbe il padre, – nonostante quello che si pensa generalmente, è messo molto peggio che qua».
Ci sono anche alcuni piccoli saggi pseudo-telologici, per esempio uno, che si intitola Le avventure di Giove e Mercurio 2, in cui si racconta come ha reagito Giove dopo che Dio è riuscito a fare il colpo di stato e a andare al potere, e sembra che si sia offeso, se è vero che ha detto: «gli piace il demagogo, che si tengano il demagogo, poi che si tengano la vita eterna, tra l’altro una panzana che uno per avere la vita eterna deve prima morire non si era mai sentita» sembra abbia detto Giove, e poi ha detto che lui aveva deciso che con la città, per un po’, aveva chiuso, per lo meno finché restavano in giro tutti ‘sti cristiani «Io mi do all’anonimato», aveva detto Giove.
Ecco, sono racconti, in un certo senso, esemplari, ma si ha come l’impressione che, nella ripetizione del modello ipotetico, perdano qualcosa. Che la struttura, per così dire, del libro, li depotenzi: uno si aspetta già quello che leggerà, che è una cosa che, di solito, nei libri di Ugo non succede mai.
E se penso al modo in cui, in Sulla felicità a oltranza, Ugo parlava della morte dei genitori («Ma queste cose che capitano hanno la virtù prinicipale di sfarcellarci la testa»), o al modo in cui, in Sulle tristezze e i ragionamenti, descriveva un cosiddetto rapporto sessuale («con questa voglia di esserle il più attaccato possibile con tutta la pelle che uno riesce a tirar fuori da se stesso»), al modo in cui, in Modena è piccolissima, raccontava un’avventura successa a un piccione adottato da sua sorella («Allora il signore le ha detto “Lei mi prenderà per matto, ma è appena morta mia moglie e io non so più dove sbattere la tesa, l’altro giorno mi sono seduto su questa panchina e questo piccione è venuto qui vicino e poi ha iniziato a darmi dei becchi nella camicia che mi sembrava mia moglie quando uscivo, che mi sistemava il collo della camicia. Io lo so che non può essere lei perché è morta da troppo poco. Ma fanno proprio gli stessi gesti”»), o al modo in cui, nella prefazione a Vite sbobinate di Alfredo Gianolio (poi ripubblicata in chiusura di Sulle tristezze e i ragionamenti), Ugo parla di noi («Nei fatti noi, quasi tutti, non siamo altro che delle collezioni ambulanti, una collezione di cose in bilico dove ci sta un po’ di tutto, un po’ di prati, pioppeti, lavori, hobby, nuvole, carriole del nonno, automobili, mamme»), se penso a queste cose, in Operette ipotetiche, con tutta l’intelligenza e la perizia che ci si trovano dentro, ho l’impressione che mi manchi qualcosa, mi manca un po’ di carne, forse, un po’ di pelle, forse, un po’ di disperazione, forse, o forse è tutta invidia, non lo so.
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