Niente, niente, niente
[Mi è arrivata ieri la nuova edizione di Padri e figli, per i classici della Feltrinelli. Metto qua sotto l’introduzione]
1. Il senso
Tutte le volte che, in questi anni, ho sentito parlare di nichilismo, e è successo spessissimo, ne parla continuamente anche il papa, mi è tornato in mente questo romanzo di Turgenev e in particolare il protagonista, Bazarov, e le rane, e quando per esempio ho visto il film dei fratelli Coen Il grande Lebowski, dove c’era un gruppo di nichilisti, tutti vestiti di pelle nera, che ripetevano continuamente «Noi non crediamo a niente, noi non vogliamo niente, noi non sappiamo niente», mi è venuto in mente che Bazarov non era così, lui credeva nelle rane, e non fingeva di rapire le mogli di facoltosi produttori cinematografici, come i nichilisti dei fratelli Coen, se non ricordo male, ma studiava continuamente e curava la gente e sapeva parlare coi contadini.
Mi è sembrato, nei vent’anni che sono passati dalla prima volta che ho letto Padri e figli, che il nichilismo, così come Turgenev l’aveva presentato alla pubblica opinione occidentale, fosse stato, nella sua variante moderna, completamente travisato, e mi sembrava che quelle tre cose, Bazarov, il nichilismo e le rane, fossero il senso del romanzo, e che nella corretta interpretazione del nichilismo, del ruolo di Bazarov, e del suo lavoro con le rane, stesse il senso di Padri e figli.
Adesso che l’ho riletto dopo vent’anni, mi sembra che le cose non stiano così.
2. Il caso
Sarà forse per via anche del fatto che nella biblioteca che frequento, la biblioteca Sala Borsa di Bologna, è ricomparso, dopo qualche anno, un libro che era stato mandato a rilegare, perdeva le pagine, un libro introvabile in libreria e che è piuttosto raro trovare anche nelle biblioteche, un libro pubblicato in Italia nel 1967, La mossa del cavallo, di Viktor Šklovskij, una raccolta di saggi dove a un certo punto si trova un saggio, intitolato Mille aringhe, che comincia così:
Nei manuali, i problemi sono disposti in bell’ordine. Alcuni problemi vogliono un’equazione con una sola incognita, altri, di seguito, ne richiedono di secondo grado.
Le soluzioni si trovano alla fine, incolonnate:
4835 5 pecore.
4836 17 rubinetti.
4837 13 giorni.
4838 1000 aringhe.
Sciagurato chi comincia lo studio della matematica direttamente dalle «soluzioni» e cerca di trovare un senso nell’accuratissima colonna.
Importano i problemi, il loro svolgimento, non le soluzioni.
Si trovano nella situazione di chi, volendo studiare la matematica, studia la colonna delle risposte, quei teorici ai quali nelle opere d’arte interessano le idee, le conclusioni, non la struttura delle opere.
Nel loro cervello si forma la colonna seguente:
romantici = rinuncia religiosa
Dostoevskij = ricerca di Dio
Ròzanov = problema del sesso
anno 18° = … rinuncia religiosa
anno 19° = … ricerca di Dio
anno 20° = … problema del sesso
anno 21° = … trasferimento nella Siberia settentrionale.
Ma per i teorici dell’arte esistono le cattedre universitarie, come per i baccalà esistono gli essiccatoi .
Ecco io, in questi anni, riguardo a Padri e figli, ero come un baccalà nel suo essicatoio, bisogna dire.
3. Secondo me
C’è un segreto incanto, nella prosa di Turgenev, incanto che riconoscono, magari malvolentieri, anche quelli che non sono d’accordo sulle soluzioni, di Turgenev, come Dostoesvskij, che a proposito di Terra vergine scrive «Il valore artistico delle opere di Turgenev è fuori discussione», però «la sua opinione è del tutto erronea, ed io mi trovo in profondo contrasto con essa» .
O come Pisarev, che trova che «i personaggi e le situazioni, le scene e i paesaggi di Padri e figli sono tracciati in modo così concreto, e nello stesso tempo morbido, che il più accanito nemico dell’arte sente, nel corso della lettura, un qualche incomprensibile piacere, che non si spiega né con l’interesse delle vicende narrate, né con una particolare verosimiglianza dell’idea principale» .
Pisarev, all’epoca dell’uscita di Padri e figli, nel 1862, era il leader della cosiddetta critica positivistica, o radicale, o utilitaristica, e subito dopo l’uscita del romanzo, in Russia, c’era stato qualcuno, il critico radicale, o positivista, o utilitarista, Antonovič, che aveva riconosciuto in Bazarov una parodia proprio di Pisarev e dei suoi predecessori Dobroljubov e Černyševskij, e aveva attaccato duramente il romanzo, sostenendo che si trattava di un panegirico dei padri e di un atto di accusa ai figli.
Ma lo stesso Pisarev era poi intevenuto dicendo che il romanzo di Turgenev, oltre ad avere gli incomprensibili pregi di cui si è già detto, poteva avere un grande significato proprio perché «mostrava come agiscono su un uomo come Turgenev le idee e le aspirazioni che agitano le nostre giovani generazioni» .
Sono passati, da allora, 147 anni, e per chi vive, oggi, in Italia, capire come agivano 147 anni fa le idee e le aspirazioni delle giovani generazioni pietroburghesi su uno scrittore dell’età di Turgenev (che aveva, all’epoca, 44 anni) non è forse più una cosa che abbia un grande significato; invece, leggendo il romanzo resta intatto, mi sembra, quell’inspiegabile piacere di cui parlava Pisarev, e che riconosceva anche Dostoevskij, e che toccò anche un giovane medico che si chiamava Anton Čechov e che scrisse «Dio mio! Quale magnificenza Padri e figli di Turgenev! Addirittura da gridare al soccorso!» .
4. Dove
Ci sono alcuni personaggi, di Padri e figli, che sono poi i personaggi principali, Bazarov, l’Odincova, Nikolaj Petroviĉ Kirsanov e suo fratello Pavel, che a me sembrano, in un certo senso, dei personaggi ottocenteschi.
Sono quelli che muovono la trama, che si fanno carico di questa necessità, che richiedono l’utilizzo di strumenti anche un po’ grossolani (succede tre volte che uno di loro senta, non visto, i discorsi degli altri); sono quelli che portano i valori, sono quelli dei quali sappiamo tutto; Turgenev è come se sentisse il dovere di farci conoscere, di loro, sia il prima che il dopo, con delle piccole biografie, come se Turgenev presumesse che il mondo fosse pieno di un pieno che allora, nell’ottocento, presumevano in tanti, e che aveva condotto molti degli scrittori russi, penso al Dostoevskij di Delitto e castigo o allo stesso Turgenev di Rudin, a aggiungere alla fine dei loro romanzi, che sarebbero stati, letti oggi, a tutti gli effetti finiti, conclusi, riusciti, a aggiungere alla fine di queste belle fini delle specie di appendici rotonde, come delle protesi in gomma che dovevano forse dar conto di questa presunta pienezza che non era saltata fuori da sola.
Questi personaggi sono descritti, anche loro, con la maestria che a Turgenev tutti riconoscono, con un’attenzione incantevole e una minuzia di gesti e di intonazioni e una misura, nelle distanze, che lascia stupefatti, ma più incantevoli ancora, nella loro frammentarietà, a me sono sembrati i personaggi secondari, come quel Sitnikov che «Dopo aver deciso, importuno com’era, di andare a far visita, in campagna, a una donna che conosceva appena, che non l’aveva mai invitato, ma dalla quale, per informazioni raccolte, erano ospitati dei suoi intimi amici molto intelligenti, d’un tratto si era intimidito fino al midollo, e, invece di pronunciare subito delle scuse preparate in anticipo e di salutare, aveva borbottato una qualche sciocchezza» e si era impappinato e si era «confuso a tal punto che si sedette sul suo proprio cappello». O quella Arina Vlas’evna che «credeva che se la domenica di Pasqua, alla messa notturna, non venivano spente le candele, il grano avrebbe fruttato bene, e che un fungo smetteva di crescere, se lo vedeva un occhio umano; credeva che il diavolo amasse i posti dove c’era dell’acqua, e che ogni giudeo avesse sul petto una macchiolina color sangue; aveva paura dei topi, delle bisce, delle rane, dei passeri, delle sanguisughe, del tuono, dell’acqua fredda, degli spifferi, dei cavalli, dei caproni, dei rossi di capelli e dei gatti neri e pensava che grilli e cavalli fossero animali impuri: non mangiava né carne di vitello, né piccioni, né gamberi, né formaggio, né asparagi, né tartufi di canna, né lepri, né cocomeri, perché un cocomero tagliato ricordava la testa di Giovanni Battista». O come un piccolo servo della gleba che si guarda, perplesso gli stivali non suoi, e che si chiama Fed’ka. O come quel Vasilij Ivanovič che sta al mattino, nel suo campo «come un Cinciannato qualsiasi, a fare un orticello per le rape tardive». O come la vecchia principessina, «una donna magrolina, e piccola, con un volto grande come un pugno e degli immobili occhi cattivi sotto una parrucca grigia», che «Nelle stanze comuni sbuffava e basta, però nella sua stanza, con la sua cameriera, a volte si scatenava in certi insulti che la cuffia le ballava in testa insieme alla parrucca».
5. Poi
E in questi mesi in cui ho lavorato a questa traduzione, mi è venuto spesso da pensare a un docente sardo di letteratura inglese, grande esperto di Dickens, che una volta, a Sassari, mi aveva detto: «Dickens, è crudele. Quando ti vuol far ridere, ti fa ridere, quando ti vuol far piangere, ti fa piangere». Ecco. Anche Turgenev.
6. Su Turgenev
Nel 1929, in un libro intitolato Archaisty i novatory, e tradotto in italiano come Avanguardia e Tradizione, Jurij Tynjanov scrive: “La biografia, in certi periodi, diviene una letteratura orale, apocrifa. È un fenomeno legittimo, legato con l’orientamento linguistico di un dato sistema, che si riscontra ad esempio in Puškin, Tolstoj, Blok, Majakovskij, Esenin; si veda, invece, l’assenza di personalità letteraria in Leskov, Turgenev, Fet, Majkov, Gumilëv e altri”
Tra questi letterati russi privi di personalità letteraria, quello con la mancanza di personalità più significativa è forse proprio Turgenev, se è vero che questa mancanza, questa passività, questa assenza, questo segno meno, questo vuoto, hanno prodotto anche loro una biografia parallela, orale, apocrifa, e piuttosto significativa.
Pauline Viardot, la cantante che Turgenev avrebbe seguito all’estero per anni in un complicato, e forse neanche tanto interessante, triangolo amoroso con il di lei marito (scrittore anche lui, e traduttore delle Anime morte di Gogol’, aiutato in questa traduzione da Turgenev, e ne venne fuori una traduzione nella quale, secondo Dostoevskij, Gogol’ era “letteralmente scomparso” ) Pauline Viardot, dicevo, è citata in quasi tutte le biografie, per quanto succinte, di Turgenev (e adesso è citata anche in questa breve introduzione), e non si può fare a meno di immaginare la sua figura dietro la maggior parte delle cosiddette Donne turgeneviane, quelle donne che sembra abbiano in mano il volante di quasi tutti i romanzi di Turgenev, e sembra anche che non sappiano mai bene dove vogliono andare, come la principessa R. (o l’Odincova) di Padri e figli.
Altri elementi di questa biografia apocrifa vengono da Karmazinov, lo scrittore che compare nei Demòni di Dostoevskij, e che si compiace delle proprie relazioni con i giovani rivoluzionari, scrittore nel quale molti hanno visto il ritratto di Turgenev, e che Turgenev stesso sembra abbia considerato come l’equivalente di una “Denuncia penale” nei suoi confronti.
E un ulteriore elemento di questa biografia apocrifa turgeneviana, sono proprio i rapporti tra Dostoevskij e Turgenev, che, ottimi, pare, all’inizio, sembra si fossero via via deteriorati per guastarsi del tutto nel momento dell’uscita del romanzo di Turgenev Fumo (1867), il più filooccidentale tra i romanzi di Turgenev (che ormai passava la maggior parte del suo tempo all’estero, a Baden-Baden, prevalentemente), romanzo in cui si legge, a un certo punto: “Se la Russia intera scomparisse, l’umanità non ne avrebbe nessun danno, e il fatto non provocherebbe nessun turbamento”.
Questa cosa sembra avesse fatto molto arrabbiare Dostoevskij, che sembra abbia dichiarato che di quel libro lì di Turgenev, Fumo, bisognava farne delle pile e bruciarle sulla pubblica piazza, ma la cosa forse non è vera, è apocrifa, appunto, mentre vera sembra sia la dichiarazione di Dostoevskij che con quel libro “Turgenev ha insultato la Russia e i russi in modo orribile e disgustoso” .
7. L’ultima
E l’ultima, tra quelle che conosco io, di queste tracce lasciate dall’ assenza di personalità letteraria di Turgenev, dai suoi capelli bianchi, dalla sua barba bianca, dai suoi vestiti scuri, dalle sue camicie bianche, sempre vestito nello stesso modo, sempre pettinato nello stesso modo, l’ultima traccia, dicevo, che le riassume un po’ tutte, viene dalle Scene dalla vita di Puškin (la numero 4 e la numero 8) e dalla Scena dalla vita di Tolstoj numero 5 di Daniil Charms, apocrife probabilmente anche quelle, e con le quali vale forse la pena di chiudere questo minuscola biografia dell’assenza e del sentito dire.
4
Turgenev, voleva essere coraggioso come Lermontov, è andato a comprare una sciabola. Puškin, passava vicino al negozio, l’ha visto dalla finestra. Allora s’è messo a gridare, apposta: Guarda ve’, Gogol’ (ma con lui Gogol’ non c’era), Guarda ve’, c’è Turgenev che compra una sciabola. Compriamo un fucile, io e te. Turgenev, s’è spaventato, quella stessa notte è partito per Baden-Baden.
8
Puškin, non è che fosse pigro, era un po’ un posapiano. Turgenev, sembrava avesse il ballo di San Vito, era sempre vittima del bisogno di una qualche attività. Puškin delle volte se ne approfittava. Succedeva che era steso sul divano, entrava Turgenev, Puškin gli diceva Ivan Sergeevič, non per convenienza ma per benevolenza, non andreste a prendermi una birra? E poi tranquillo si riaddormentava. Sapeva, che non c’era il caso che Turgenev tornasse. Che lui, delle volte correva a firmare una petizione, delle volte a un raduno di nichilisti, delle volte a un funerale civile. Oppure delle volte prendeva paura di qualcosa, partiva per Baden-Baden. Di restar senza birra Puškin non aveva paura. Grazie a dio, c’erano i servi della gleba. C’era, qualcuno da mandare.
5
Lev Tolstoj e F. M. Dostoevskij avevan scommesso su chi tra loro avrebbe scritto il romanzo più bello. A far da giudice avevan chiamato Turgenev. Tolstoj era corso a casa, si era chiuso nello studio e aveva cominciato a scrivere. Di bambini, naturalmente (li amava molto). Dostoevskij invece è a casa sua che pensa: Turgenev è uno pauroso. Adesso è a casa sua e pensa: Dostoevskij è uno nervoso. Se dico che il suo romanzo è il più brutto, è capace di ammazzarmi, perfino. Cosa mi sforzo a fare? (questo lo pensa Dostoevskij). Il romanzo lo scrivo male, apposta, la grana me la becco comunque (avevan scommesso cento rubli). Nello stesso momento Turgenev è a casa sua e pensa: Dostoevskij è uno nervoso. Se dico che il suo romanzo è il più brutto, è capace di ammazzarmi, perfino. D’altra parte Tostoj è un conte. Anche con lui è meglio evitare polemiche. Ma che vadano… E quella stessa notte, di nascosto, è partito per Baden Baden.
P. N.
Bologna, settembre 2009