Mamme in rivolta

venerdì 6 Febbraio 2015

antonio manzini, non è stagione

Siccome vorrei scrivere un giallo, è un po’ di tempo che leggo dei gialli e l’ultimo che ho letto è uscito per Sellerio e l’ha scritto Antonio Manzini e si intitola Non è stagione e ci ho trovato delle cose che mi hanno sorpreso anche in rapporto alle cose che stavo facendo nella mia vita. L’altro giorno, per esempio, ero a Cantù a fare una lettura, fuori da un’edicola c’era uno strillo del Giornale di Cantù, quelle pagine pubblicitarie che riportano i titoli principali dei giornali e c’era scritto: «L’accusa. Fumano canne nel parco: mamme in rivolta», che mi è sembrato un titolo stranissimo anche perché proprio quel giorno avevo cominciato a leggere Non è stagione e aveva scoperto che Rocco Schiavone, il vicequestore protagonista del libro, quando arriva nel suo ufficio, al commissariato di Aosta, la prima cosa che fa, al mattino, si accende una canna. Dopo, alla sera, a Cantù, ho chiesto a uno che lavora in comune di dirmi cos’era successo e lui mi ha detto che le mamme, erano loro, che si facevan le canne e che, con questo freddo, erano in rivolta perché volevano un posto tranquillo per farsi le canne in pace, ma secondo me scherzava, e pensare di vivere in un posto dove si può immaginare un vicequestore che ha questa abitudine che tutti i giorni fuma marijuana e, contemporaneamente, dei ragazzi che si fanno le canne nei giardini pubblici di Cantù scatenano una rivolta delle mamme, ecco per me questo è stato un bel pensiero, non so perché, credo mi piacciano le contraddizioni. E, in generale, il fatto di leggere un libro dove il protagonista è, anche, antipatico, risponde male, dice, anche, un po’ di parolacce, «Smadonna», perfino, a pagina 28, e fa, anche, delle cose di cui si vergogna, come farsi le canne in commissariato, anche quella è stata una cosa che non mi aspettavo, son così bravi, così intelligenti, così consolanti, i commissari nei libri gialli che leggo di solito. C’è da dire che nel libro, all’inizio, ci sono una serie di paragoni che a me sono sembrati stranissimi: «un’alba livida come la pancia di un pesce», uno che cammina «rasente i muri come un gatto ritardatario», «dai balconi i fiori [che] vomitano colori come tubetti di tempera schiacciati», uno che volta il collo «come una tartaruga centenaria », una «barbetta rasa e pareggiata come il prato di Wimbledon», tranci di pizza che «sembravano delle croste piene di pus, delle piaghe di un’ustione, degli herpes», la sbarra di una cella che «veniva via come il molare di un vecchio con la piorrea», un «mercoledì di maggio freddo come una lastra di marmo», e un personaggio, a un certo punto, «più silenzioso di un’ombra e leggero come le ali di un insetto». Che lì, è questione di gusti, magari a uno questi paragoni piacciono, a me danno l’impressione che quello che scrive si sforzi di essere, come si può dire, evocativo, e quando incontro dei paragoni di questo tipo mi viene sempre in mente il punto tre di un articolo di Kurt Vonnegut che si intitola Come scrivere con stile, l’articolo, e Siate semplici, il punto tre, e dice: «Ricordate che due grandi maestri della lingua, William Shakespeare e James Joyce, scrivevano frasi quasi infantili mentre i loro argomenti erano i più profondi. “To be or not to be?” chiede l’Amleto di Shakespeare. La parola più lunga è di tre lettere. Joyce, – dice Vonnegut – quando voleva divertirsi era capace di creare frasi intricate e scintillanti come una collana di Cleopatra, ma la mia frase preferita del suo racconto Eveline è “Lei era stanca”. In quel punto della storia, niente potrebbe fare breccia nel cuore del lettore come quelle tre parole». «La Bibbia – conclude Vonnegut – si apre con una frase decisamente alla portata di un quattordicenne sveglio: “All’inizio Dio creò il cielo e la terra”».
Insomma, è questione di gusti, ma a me, questi paragoni di Manzini, mi avevano messo sulla difensiva, solo che poi mi è sembrato che questa pulsione evocativa sia un tratto del tutto secondario, della scrittura di Manzini, e che la lingua di Non è stagione sia varia, polifonica, che i personaggi abbiano ciascuno la propria voce, il proprio carattere e, non voglio dir niente della trama che, parlando di gialli, della trama non si può dire niente, ma non mi sembra che sia un libro consolatorio, non è un romanzo che quando uno lo finisce poi pensa a come sono brave le nostre forze dell’ordine; a me, per esempio, alla fine è venuta in mente la cosa che dice David Foster Wallace nel racconto di David Lipsky pubblicato col titolo Come diventare se stessi: «forse essere veramente triste, e veramente un po’ alla deriva, non significava semplicemente che ero ridotto uno schifo. Forse c’era anche… forse era anche interessante, in un certo senso».

[uscito ieri su Libero]