L’esperienza più emozionante di tutte
A nove anni Walter Henderson era convinto, e con lui molti suoi amici, che morire fosse l’esperienza più emozionante di tutte. Una volta scoperto che l’unica parte veramente soddisfacente di una partita a guardie e ladri era il momento in cui fingendo d’essere colpito a morte, con le mani serrate al cuore, lasciavi andare la pistola e stramazzavi a terra, il resto finì quasi per essere eliminato – la seccatura di fare le squadre e di muoversi qua e là senza farsi vedere – e il gioco si ridusse all’essenziale. Diventò insomma una prova di abilità, quasi un’arte. Uno dei ragazzi, a turno, correva lungo la cresta della collina, e a un certo punto cadeva nell’agguato: al simultaneo apparire di piccole pistole puntate, in un coro di quei ritmati suoni gutturali – una specie di «P-kiuu… P-kiuu» con cui i ragazzini imitano a sussurri rochi il rumore degli spari – l’assalito si fermava, si rigirava, fingeva per un secondo una bella agonia e ripiegandosi su se stesso ruzzolava giù per la collina in un groviglio di braccia e gambe, e sollevando una magnifica nuvola di polvere giaceva infine completamente disteso a pancia all’aria, cadavere scomposto. Quando poi si alzava e si ripuliva i vestiti, gli altri giudicavano la sequenza dei suoi gesti. «Niente male», «Troppo rigido» oppure «Non sembravi tanto naturale» e quindi toccava a un altro. Il gioco era tutto qui, ma a Walter Henderson piaceva tanto.
[Richard Yates, Undici solitudini, traduzione di Maria Lucioni, Milano, Minimum fax 2006, pp. 102-103]