Le nostre città sembrano un premio

sabato 28 Dicembre 2019

Nel 1995 mi sono trovato sulla piazza rossa di Mosca di fianco a un gruppo di turisti italiani che, guidati da una guida russa, stavano per andare a visitare le chiese del Cremlino. Siccome non le avevo mai visitate, ho chiesto alla guida se potevo unirmi al gruppo, e la guida, gentilissima, mi ha detto di sì e mi ha chiesto di dov’ero. «Sono italiano», le ho risposto io.
«Sì, avevo capito», mi ha detto lei, «ma italiano di dove?».
«Italiano di Parma», le ho detto io.
«Ah, Parma», mi ha detto lei, «che città meravigliosa!».
«C’è stata?», le ho chiesto io.
«No», mi ha risposto lei, «ma ho letto La certosa di Parma».
Tra le tante cose singolari che li caratterizza, una cosa singolarissima, dei russi, è il pregiudizio positivo che hanno nei confronti dell’Italia.
Aleksandr Puškin, che parla dell’Italia come di una terra beata, dove il cielo si colora di un indicibile azzurro, come di una terra magica, gioconda, ispirante, che scrive «Adriatiche onde! Oh, Brenta!», ecco, Puškin, il mare adriatico, il Brenta, e il cielo italiano, non li ha mai visti in vita sua, come la mia guida non era mai stata a Parma, ma anche russi che in Italia ci sono stati, come Nikolaj Gogol’, che in Italia ha scritto Anime morte, invece di essere delusi dal confronto tra la loro altissima opinione e la realtà vengono confermati, dall’incontro con i cieli italiani, nel loro pregiudizio positivo (Gogol’ definisce l’Italia è «la patria della mia anima»).
Lo straordinario pittore contemporaneo Vladimir Šinkarëv, per esempio, dice che in Italia è tutto così bello che lui, in Italia, non riesce a lavorare, l’unica cosa che riesce a fare è «pavoneggiarsi».
Uno dei libri che hanno contribuito maggiormente al pregiudizio positivo dei russi nei confronti dell’Italia è il libro di Pavel Muratov Immagini dell’Italia, uscito in origine nel 1911, e appena tradotto (per la prima volta) in italiano da Alessandro Romano, per la cura di Rita Giuliani, per Adelphi edizioni.
Muratov comincia da Venezia; sia la Venezia «delle fiumane di forestieri, dei tavolini davanti al Caffè Florian, delle botteghe con i loro articoli di vetro luccicante», degli «ingenui oggetti sfavillanti che nessuno penserebbe mai di vendere o acquistare fuorché a Venezia», sia la Venezia che si vede quando «alla ricerca di un nuovo Tintoretto o di un Carpaccio mai visti prima», ci si perde, su un ponticello, a inseguire l’acqua, che «misteriosamente calamita e inghiotte tutti i pensieri, così come inghiotte ogni suono, finché il silenzio più fitto non scende nel cuore» e con lo sguardo si vaga a lungo «in una verde distesa di tenui, ondeggianti riverberi». Qui, scrive Muratov «noi beviamo il vino dell’oblio, dolce e soave. Tutto quanto è rimasto alle nostre spalle, tutta la nostra vita precedente diviene un fardello leggero». Ecco. In questo libro singolarissimo, Venezia, Mantova, Ferrara, Bologna, Lucca, Firenze, Prato, Pistoia, Pisa, San Gimignano e Siena, le nostre città, quelle dove noi italiani abitiamo, quelle che attraversiamo tutti i giorni carichi delle nostre quotidiane preoccupazioni, sembrano un premio, una meta ambita e che ripaga di tante sofferenze e a me, che abito a Bologna senza meritarmelo, intanto che leggevo Muratov, è venuta voglia, più di una volta, di pavoneggiarmi, di metter su un atteggiamento come per dire: «Eh sì, son proprio italiano».
Lo scrittore russo meno russo di tutti, Ivan Turgenev, una volta ha scritto che quello che gli piaceva, dei russi, era la pessima opinione che avevano di sé stessi; ecco io credo che questa sia una cosa che noi italiani condividiamo con loro, abbiamo di noi stessi una pessima opinione. Il libro di Muratov mi sembra, a questo proposito, per un italiano, un libro balsamico, e benissimo ha fatto Adelphi a pubblicarlo in Italia. Come siamo belli! Come siamo importanti! Dante, il Trecento, il Quattrocento (un secolo che «amava la terra più d’ogni altra cosa» e «la cui essenza si riduce in una formula: ‘vivere nel mondo’»), ma che meraviglia! Ma siamo davvero così?
Anche le cose apparentemente negative, a ben guardare non lo sono, per Muratov: Ferrara «somiglia a un cimitero», ma «vien voglia di passare tra i suoi sepolcri con un senso di venerazione, a capo scoperto»; Pisa è una «città morta», ma, arrivato in piazza dei Miracoli Muratov scrive: «Nel mondo intero, è difficile trovare altro luogo dove la grazia del marmo sia ugualmente avvertibile»; «la piazza sembra essere stata creata in una notte, ex abrupto e in virtù di chissà quale prodigio: tanto per noi è difficile oggi comprendere il prolungato empito di energie artistiche, d’infinito orgoglio e di sommo vigore di cui i pisani dovettero dar prova all’epoca». Di Lucca, oltre a ricordare che la città compare nella prima frase di Guerra e Pace, («Eh bien, mon prince. Gênes et Lucques ne sont plus que des apanages, des поместья, de la famille Buonaparte»), Muratov dice che sembra una via di mezzo «tra una caserma e una prigione», e, se si sale sulle mura, vi si trovano i sognatori: «un operaio con una bottiglia di Chianti, un ufficiale e una signora malaticcia, una sfilza di bambine dell’orfanotrofio. Tutti fissano in lontananza – monti e valli che si perdono, azzurri, verso Firenze e verso Pisa, nel mondo grande e libero. Dopo l’eterna penombra, dopo l’umidità invernale delle vie anguste, quasi fessure, di questa piccola cittadina così simile a una prigione, deve essere un autentico piacere uscire sulle mura e fantasticare di un viaggio lontano, di libertà, di una vita piena e varia». Ma le due città che forse Muratov predilige sono Siena e Firenze: Siena, per Muratov, non ha mai smarrito «l’antica grazia e l’antica dignità, così come la gente senese non ha mai smarrito la gentilezza del cuore per cui è passata alla storia»; di Firenze Muratov trova «affinità tra la percezione di Firenze e l’impressione tratta dalla lettura della Divina Commedia: entrambe sono caratterizzate dalla medesima armonia – l’armonia di un albero rigoglioso –, dalla medesima chiarezza e compiutezza, dalla medesima, geniale levità malgrado l’imponenza». «Le pietre con cui è costruita Firenze – conclude Muratov – sembrano più leggere di quelle delle altre città».
La passione generata in Muratov delle opere d’arte che incontra nel suo viaggio in Italia meriterebbe un recensore più competente, ricordo qui soltanto la critica, che mi è sembrata chiarissima, alla scuola bolognese, all’ecclettismo dei Carracci e di Guido Reni, e il motivo per cui, secondo Muratov, a Bologna non ci sono opere d’arte all’altezza di quelle che si trovano in altre città italiane: «Questa città, dove da secoli la vita scorre in modo accogliente e gradevole, non ha avuto in sorte di compiere alcunché di grande. Bologna non ha mai attinto i culmini della creazione artistica, non ha dato all’Italia un genio, un santo o un eroe. Si è tentati di credere che i campi fecondi e i grassi pascoli dai quali la città è circondata abbiano impedito all’immaginazione di artisti e poeti di prendere il volo».
Solo un’ultima cosa: un capitolo del libro di Muratov è dedicato alla figura di Giacomo Casanova, con lunghe citazioni dalla sua biografia: Muratov ne parla così bene, delle Memorie di Casanova, che adesso mi tocca leggerlo; questo Immagini dell’Italia mi è così piaciuto, che mi tocca sorbirmi tremila pagine di Casanova, adesso. Eccomi servito.

[Uscito venerdì sul Venerdì di Repubblica]