La Róssia

lunedì 15 Settembre 2014

È difficilissimo, per me, parlar della Russia, è una cosa che ha a che fare con dei sentimenti così grossi, nella mia pancia, che praticamente della Russia io non posso dir quasi niente senza essere ostacolato da tutti questi sentimenti che si mettono in mezzo e proprio per quello è una cosa che mi sembra valga la pena di provare a raccontare. C’è una canzone di Dino Sarti dove lui racconta di essere stato in Russia e dice che la cosa più interessante, della Russia, è quando torni, dalla Russia, le domande che ti fanno, che a lui gli avevano chiesto «Di sò, Dino, comm’êla la Róssia», e lui aveva risposto «La Róssia l’é granda». Ecco.
Io sono un po’ di anni, che non vado in Russia, e non so quanto abbia a che fare la Russia che ho conosciuto io con la Russia di adesso, ma quella di allora era strana. Qualche anno fa, quando avevo appena finito l’università, mi ero messo a fare l’interprete e avevo fatto un interpretariato per degli architetti di Piacenza che dovevano ricevere una delegazione composta dai principali collaboratori di El’cin per l’architettura. Sarà stato il ‘97, credo. Ecco io mi ricordo questi architetti russi, eran vestiti in un modo, avevano dei girocollo mistolana, ce n’era uno che aveva un cappellino da ciclista, e un borsello a tracolla, e due occhiali con delle lenti spessissime e in mano, sempre, una macchina fotografica, e fotografava tutto. E c’erano questi architetti di Piacenza, tutti eleganti, in divisa, gessati, Armani, Versace, erano stupefatti, a vedere i loro colleghi ex sovietici, e i loro colleghi ex sovietici uguale, erano stupefatti, a vedere i loro colleghi piacentini, e una volta giel’avevano anche detto. Il capo della delegazione russa aveva detto, al capo della delegazione Piacentina «Sembrate dei patrizi, come siete vestiti».Io avevo tradotto, e il capo della delegazione piacentina era rimasto un attimo così che non sapeva cosa dire poi aveva detto «Patrizi? Mia moglie si chiama Patrizia». Ecco, della Russia, la Russia che ho conosciuto io è la Russia sovietica e post-sovietica e io, a pensarci, mi ricordo delle cose, un centro commerciale, a Mosca, in periferia, si chiamava Raduga, che significa Arcobaleno, e io, era una fesseria, era un centro commerciale, sovietico, nella periferia di Mosca, nel 91, scalcinatissimo, con dentro una fila di taksofony, telefoni pubblici, la metà dei quali avevano un cartello scritto a mano con su scritto «Ne rabotaet», Non funziona, significa, e andavi a teatro e le donne entravano con gli sviali e in una borsa di plastica avevano le scarpe coi tacchi, e si cambiavano le scarpe nella hall e mettevano gli stivali nella borsa di plastica e li lasciavano in guardaroba e alla fine dello spettacolo c’era una bambina, vestita di rosa, la gonna di tulle, che partiva dal fondo e si faceva tutto il teatro con in mano un mazzo di begonie e le portava alla protagonista, e gli uomini giravano sempre con un pettinino in tasca e si pettinavano per strada, specchiandosi nelle vetrine dei negozi vuoti e l’Unione Sovietica è stato il primo posto dove ho avuto il coraggio di comprare dei fiori a una donna e di girare per strada con un mazzo di rose, per la mia padrona di casa, che compiva gli anni, nel ’93, che poi era già Russia, ma in quegli anni lì da guardare era quasi la stessa cosa. Era come se la mancata attenzione all’esteriorità, in Russia, il fatto che le cose non ti dicessero continuamente «Guardami guardami come son bello», era come se ti obbligassero a guardare, e guardare è una cosa che è come pensare, che noi, a sforzarci, siam capaci di farlo, ma è una di quelle cose che bisogna esercitarle continuamente, come andare in palestra, e l’Unione Sovietica, per me, nel ‘91 ma anche poi dopo, mi sembra sia stata come un’enorme palestra di sguardi. E tra le altre cose che avevo guardato, avevo guardato anche un film, in Unione Sovietica, lo facevan vedere sempre l’ultimo dell’anno, si intitolava Ironia del destino, e dentro c’era una canzone, scritta da un certo Aleksandr Aronov, che diceva, più o meno: «Se non aveste una casa, non avreste paura che bruci, e la moglie non vi lascerebbe per un altro,  se non aveste mogli. Se non aveste un cane, il vicino non lo avvelenerebbe, e non litighereste con un amico, se non aveste amici. L’orchestra rimbomba di bassi, il trombettista soffia negli ottoni, pensate da soli, decidete da soli, avere o non avere? Se non aveste una zia, non vi toccherebbe perderla, e se non viveste, non vi toccherebbe morire. L’orchestra rimbomba di bassi, il trombettista soffia negli ottoni, pensate da soli, decidete da soli, avere o non avere?». Ecco. In Russia ti veniva spontaneo dire «Non avere, non avere, non avere». Raccontavano, in Russia, è una storia, messa in giro dai russi, ma raccontavano che all’inizio degli anni settanta si erano incontrati due scienziati, uno americano e uno sovietico, che avevano lavorato alle missioni spaziali americana e sovietica, e l’americano aveva detto al sovietico che loro, in America, avevano stanziato non so quanti milioni di dollari per un gruppo di ricerca che costruisse delle penne a sfera che potessero funzionare anche in assenza di gravità e aveva chiesto al sovietico come avevano fatto loro, e il sovietico ci aveva pensato poi aveva detto «Be’, veramente, noi abbiamo usato le matite». Ecco. La cosa che forse mi ha colpito di più, della Russia che ho conosciuto io, è un filobus, a San Pietroburgo, il filobus numero 10 che ho preso una volta che pioveva e sono entrato sul filobus, era pieno, dappertutto, tranne un tondo di un metro di diametro che era vuoto perché in alto, sul soffitto, c’era un buco. Allora cosa avevano fatto, i russi? Avevano fatto buco anche sotto, sul pavimento. E l’acqua passava, e il filobus andava, e questa, per me, era la Russia, e a me sembrava bellissima. E se qualcuno mi avesse chiesto che cosa c’era di tanto bello, in Russia, forse io avrei risposto che la cosa bella, della Russia, è che faceva paura. E se avessi dovuto scegliere un posto, fra tutti quelli che avevo visto in Russia, che esprimesse questa bellezza e questa paura, forse avrei scelto la piazza del fieno di San Pietroburgo, che anche nei romanzi di Dostoevskij è il posto più degradato della città, e quando l’ho vista io la prima volta, nel ’93, era ancora così, il posto più degradato della città, una grande piazza con al centro un cantiere fermo con i materiali di risulta della costruzione della metropolitana, e intorno a questo cantiere un sacco di gente che vendeva di tutto, il mercato spontaneo, non ufficiale, e i miei amici mi dicevano che se volevo un carrarmato bastava che andassi in piazza del fieno cominciassi a chiedere, dopo dieci minuti avrei avuto il mio carrarmato. Be’, nel 2003, quando a Pietroburgo sono arrivati dei soldi per festeggiare il tricentenario della fondazione, hanno ripulito la piazza l’hanno rifatta completamente, l’hanno aperta al traffico automobilistico, hanno fatto in mezzo una rotonda, hanno messo al centro della rotonda un monumento trasparente, regalo della Francia, hanno messo dalle parti delle panchine con, al posto dei piedi, delle ruote che ricordavano le ruote dei carri del fieno non sembrava più la piazza di Dostoevskij, sembrava una pizzeria, e una mia amica che tutte le volte che arrivava a San Pietroburgo andava a vedere la piazza del Fieno quando l’ha vista con questo nuovo, come dire, maquillage da pizzeria, mi ha raccontato che è scoppiata a piangere. Ecco dire cos’è adesso la Russia, alla fine, per me è un po’ difficile perché «La Róssia l’é granda», e l’unica cosa che mi sento forse di dire, alla fine, è che l’altro giorno ho incontrato un mio amico russo che mi ha detto che sua figlia, ha una figlia piccola che, in seconda elementare, nel suo libro di lettura, a scuola, la seconda frase che c’è dentro è «Gosudarstvo zabotitsja o tebe», «Il governo si prende cura di te», significa. Ecco io, sarò io, ma a me queste cose, questa attenzione all’esteriorità un po’ da pizzeria e queste tecniche di persuasione un po’, non so come dire, scoperte, viste da lontano non mi fanno paura, mi fanno un po’ pena.

 

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