La fermata del carcere

sabato 9 Aprile 2016

Questa settimana sono andato in carcere, a Bologna, alla Dozza. Non c’ero mai stato. Sono andato in autobus, col 25, e ho chiesto all’autista se poteva avvisarmi quando arrivavamo, lui mi ha detto che c’era l’avvisatore acustico, un nastro che diceva il nome delle fermate. Allora gli ho chiesto come si chiamava la fermata del carcere e l’autista mi ha detto che la fermata si chiamava Carcere. Quando siamo arrivati alla fermata Carcere son sceso, mi son guardato intorno e mi son detto «Dove vado?». Poi l’ho visto, alla mia destra, e ho pensato che un carcere, si fa fatica a sbagliarsi, si riconosce. Quando son stato dentro ho incrociato un carcerato che fumava e mi è venuto in mente che una cosa che succede, nelle carceri, è che nessuno deve andar fuori per fumare. E che il rapporto dentro-fuori, lì in carcere, è completamente diverso da quello che c’è dove abito io, a Casalecchio di Reno. E mi è venuto da pensare a uno dei protagonisti del Repertorio dei matti della città di Roma, uno che si chiamava Nino B. che quando era nel padiglione 16 del Santa Maria della Pietà e gli han detto che volevano chiuderlo, il Santa Maria della Pietà, l’ospedale psichiatrico di Roma, aveva preso il direttore sanitario Tommaso L. e gli aveva detto: «Non puoi sapere quanto sia difficile per noi entrare fuori». Ecco, io, in carcere, l’altro giorno, la sensazione che ho avuto, quelle tre ore che ci son stato, è come di essere uscito dentro. La prima persona che ho incontrato è stato un mio amico che fa il bibliotecario e che è lì da tre anni. L’hanno arrestato tre anni fa per omicidio e io, in questi tre anni, ogni tanto mi capitava sott’occhio il suo nome nella mia rubrica telefonica e pensavo «Ecco. Forse non lo vedrò mai più nella mia vita». Invece l’ho visto l’altro giorno, alla Dozza. Ci siamo detti che eravamo contenti, di vederci. I carcerati con i quali ho parlato mi han chiesto se, secondo me, loro potevano scrivere qualcosa di bello, e io gli ho risposto che secondo me potevano. E mi è tornata in mente una cosa, una frase che credo abbia detto Bertold Brecht: «Siccome i posti dalla parte della ragione erano tutti occupati, ci siamo seduti dalla parte del torto». E ho pensato che la letteratura è quasi sempre, dalla parte del torto. E che quel mondo lì, il carcere, che è il mondo dei vinti, è, per forza di cose, anche il mondo della letteratura. E che se mi invitassero a cena due persone, un industriale che ha avuto successo, un cosiddetto self made man, e un fallito, uno che è stato proprio sul bollettino dei protesti, io, l’uomo di successo, avrei paura che mi volesse insegnare a stare al mondo, non ci andrei, a cena con lui, invece il fallito secondo me è uno che ha un sacco di storie da raccontare sarei curioso, di sentirlo parlare del suo fallimento. Una mia amica di Bologna mi ha raccontato che quando lei era piccola che faceva un disastro che sua mamma la sgridava e lei le diceva «Hai ragione», sua mamma si arrabbiava ancora di più. «La ragione si dà ai matti», le diceva, «non darmi ragione». A Parma si dice «La ragione si dà ai coglioni», ma la sostanza è la stessa. Per come capisco io la cosa, se dài ragione a qualcuno è come se gli dicessi di stare zitto: chi ha ragione non ha niente da dire, quelli che han delle cose da raccontare sono quelli che han torto.

[Uscito ieri su Libero]