Ipnosi e anatroccoli

domenica 30 Gennaio 2011

«La moglie del presidente è sovrappeso, e questo la rende vecchia e patriarcale. Sembra un’anatra, e il presidente, vicino a lei, più che altro un anatroccolo. È impossibile adorare o amare attivamente la signora Putin come accade con le first lady di alcuni paesi in cui vige una forma di governo presidenziale, o come accadeva con Raisa Gorbačeva. È chiaro che non stiamo parlando di Jacqueline Kennedy, e neppure di Laura Bush. Una comune donnetta sovietica, con zero charme».
«Putin non ha dato nulla tranne il proprio vuoto. Il vuoto di Putin suscita una paura involontaria. Che genera assuefazione. E questo il popolo lo avverte. Il popolo non avrebbe mai reagito ai soliti discorsi retorici, ma il gelo del vuoto lo fa tornare un poco alla realtà. Putin ha trovato l’idea nazionale della Russia contemporanea e l’ha incarnata perfettamente: al vuoto è meglio non avvicinarsi. Ma se Putin è il vuoto, Putin esiste?».
«Putin è molto atipico per la Russia. Come se fosse stato sintetizzato in laboratorio. Si ha come l’impressione che Putin sia venuto al mondo in seguito a un’inseminazione artificiale, da un padre ignoto e una madre fertile. In lui c’è così poco di individuale ma, stranamente, non ha nulla del tipo popolare».
«Putin potrebbe passare per un intellettuale, un professore non universitario, un insegnante di una materia come la chimica, per esempio. Ma così com’è, a sé stante, estraneo, tra i professori sarebbe un rinnegato o un reietto».
Sono alcune frasi prese dall’antologia Russian attack, pubblicata recentemente da Salani a cura di Marco Dinelli e Galina Denissova. L’antologia raccoglie 16 pezzi di tre autori russi: Viktor Erofeev, Eduard Limonov e Vladimir Sorokin; sono tre «tra i protagonisti più autorevoli del nuovo dissenso», scrive Marco Dinelli nella sua prefazione. Erofeev, Limonov e Sorokin, si legge nella bandella, «accusati spesso di pornografia, di estremismo, di tradimento dello spirito russo /…/, non sono dissidenti politici», ma la loro «arte è piuttosto un attacco al potere, al sistema culturale, al rifiuto del cambiamento, al gusto narcotizzato di un’opinione pubblica che pare ancora intorpidita dopo lo shock dei rivolgimenti post-sovietici».
Detto, a scanso di equivoci, che l’Erofeev di cui si tratta è Viktor, l’autore vivente di romanzi come La bella di Mosca e Il buon Stalin, e non Venedikt, autore (scomparso nel 1990) di quel capolavoro della letteratura russa del secondo novecento che è Mosca-Petšski, autore, Venedikt, che scriveva, nei suoi diari: «Sono così sconsolatamente felice, in mezzo a questi sofferenti bon vivants”, detto questo, va detto che a leggere Russian attack viene in mente quel che Viktor Šklvoskij scriveva a proposito del pittore Puni; che Puni, uomo timido per eccellenza, con i suoi quadri provocava nei critici a lui contemporanei reazioni tali che «se dovessimo raccogliere tutte le recensioni scritte su di lui in russo e spremerne il furore, si potrebbero raccogliere alcuni secchi di liquido molto corrosivo e inoculare con questo la rabbia a tutti i cani di Berlino.
 I cani a Berlino sono 500.000», scriveva Sklovskij. E questo risultato, Puni, uomo timido per eccellenza, lo otteneva indipendentemente dalla propria volontà, «come un imbianchino che se ne va con una lunga scala sulla spalla. Modesto, silenzioso. Ma la scala urta i cappelli dei passanti, fracassa i vetri, ferma i tram, distrugge case».
Ecco, il valore involontariamente o volontariamente (non è importante) eversivo delle astrazioni geometriche di Puni mi è chiaro. Il valore eversivo della considerazioni sul peso della moglie di Putin, o i dubbi sulla sua paternità, no.
Nella quarta di copertina di Russian attack c’è scritto che questa antologia presenta «sedici racconti di tre grandi scrittori, protagonisti di un dibattito sempre più acceso sulla libertà di espressione e sul futuro della letteratura».
In uno di questi racconti, uno di questi scrittori, Limonov, scrive: «Non è poco il tempo che ho perso stando attaccato al televisore per studiare il viso della persona che governa la Russia».
Ecco, io ho l’impressione che lo scontro tra potere e letteratura si giochi, non so come dire, su una superficie spazio-temporale più ampia. Mi torna in mente quello che su questo tema, sul rapporto tra tempo, potere e letteratura, ha scritto Iosif Brodskij:
« Un sistema politico, una forma di organizzazione sociale, è per definizione una forma del passato remoto che vorrebbe imporsi sul presente (e spesso anche sul futuro); e chi ha fatto della lingua la propria professione è l’ultimo che possa permettersi il lusso di dimenticarlo. Il vero pericolo per uno scrittore non è tanto la possibilità (e non di rado la realtà) di una persecuzione da parte dello Stato, quanto la possibiltà di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato, una fisionomia che può essere mostruosa o può cambiare verso il meglio ma è sempre provvisoria. La filosofia dello Stato, la sua etica, per non dire la sua estetica, – scrive Brodskij, – sono sempre ieri. La lingua e la letteratura sono sempre oggi e spesso domani».

[Dovrebbe essere uscito sugli Altri]