Inostrannaja literatura

giovedì 4 Dicembre 2008

Sul mensile russo Inostrannaja literatura (letteratura straniera), numero di ottobre, dedicato all’Iitalia, è uscita questa intervista di Anna Jampol’skaja (che è un po’ lunga, e dove si ripetono anche cose già viste qua e là).

1.
(Lei è conosciuto sia come scrittore che come traduttore. Come si considera. Cosa le piace di più, scrivere o tradurre?)

Lavoro più sui romanzi, che sulle traduzioni, ne ho pubblicati 15, e di traduzioni 3. Mi sembra, però, in un certo senso, che siano due aspetti dello stesso mestiere.

2.
(Parli dei suoi libri. In un’intervista al giornale eSamizdat si dice che il suo personaggio preferito, Learco Ferrari, è un vero eroe del proprio tempo, e che lei, coi suoi testi, è diventato la voce di un’intera generazione. Forse, non la più felice delle generazioni, se è vero che «crede poco nei propri mezzi»)

Non sono tanto capace, di parlar dei miei libri. Ogni volta che ne esce uno, quando mi chiedono di cosa parla, non so mai cosa dire. Ho un po’ l’impressione che se dicessi una cosa ne escluderei tante altre che forse son la sostanza, invece, del libro. Questo vuol dire, probabilmente, che i libri che scrivo, in realtà non è che li scriva, si scrivono loro, io mi limito a dargli del tempo perché vengano fuori, e dopo quando son fuori, io sono un lettore che vale, in un certo senso, come tutti gli altri lettori, il cui parere non è più interessante di quello di qualsiasi altro lettore.
Faccio molta fatica anche a usare la parola generazione, credo di averla usata solo una volta, nei libri che ho scritto, e allora più o meno dicevo che noi, secondo me, i miei cosiddetti coetanei, quello che ci caratterizza è il fatto che siamo tutti malati di micropsichia, scarsa fiducia nelle proprie possibilitа. Questo dipende anche da condizioni generali, cioè dal fatto che noi veniamo dopo la generazione che aveva vent’anni negli anni quaranta, e dovevan combattere, perché c’era bisogna di soldati, dopo la generazione che aveva vent’anni negli anni cinquanta, e dovevan costruire, c’era bisogno di case, dopo la generazione che aveva vent’anni negli anni sessanta, dovevano contestare, c’era un modo vecchio da rifare, dopo la generazione che aveva vent’anni negli anni settanta che dovevano arricchirsi, c’era appena stato il boom economico bisognava approfittarne; noi, invece, non dovevam fare niente l’unica cosa non dare troppo fastidio. Noi, mi sembra, i miei cosiddetti coetanei o quasi coetanei, siamo la prima generazione che se ci han dato un lavoro non é perché c’é bisogno, ci hanno fatto un favore.
Ecco, io adesso ho l’impressione che in Russia sia stata un po’ diversa, ma in Italia, dagli anni ottanta, il mondo non era più da fare, te lo davano già confezionato, tu dovevi solo far delle crocette, non so se si capisce, come nei test.

3. Come è nato in lei l’interesse per la lingua russa? Chi sono stati i suoi maestri? Ha studiato traduzione e teoria della scrittura (corsi letterari, seminari ecc.)).

Ho cominciato a leggere i russi per via di mio nonno, che non era mai stato in Russia ma la Russia gli piaceva molto, e aveva chiamato la sua casa dača, e, per un motivo stranissimo, chiamava Dača anche tutti i suoi cani.
Quando poi mi sono iscritto all’università, mi sono iscritto a lingue, e ho provato a fare russo, e dopo lì, son quelle cose che uno poi fa fatica, a dire perché, ma io mi ricordo, la prima volta che son stato in Russia, nel 1991, a Mosca, quando sono partito avevo il dubbio se laurearmi in russo o in francese, quando son stato all’aeroporto Šeremet’evo 2, che, adesso, non che voglia dir che sia brutto, però non è un posto meraviglioso, e non lo era sicuramente nel 1991, però lo stesso, io il solo fatto di essere a Mosca, anche all’aeroporto Šeremet’evo 2, mi guardavo intorno ero d’un contento che non si può dire. E poi non lo so, è stato sempre così, e se devo dire il perché forse la Russia mi piace è perché fa paura.
Per via dei maestri, io ho studiato a Parma, con Nina Kaucisvili, Angela Siclari, e mi son laureato con Gianpiero Piretto, che è l’unico, tra loro, con il quale son stato in Russia, e che il primo giorno che ci siamo trovati in Russia, a San Pietroburgo, mi ha fatto conoscere Al’bin Konečnyj e sua moglie Ksana, e loro mi hanno fatto conoscere Volodja Kostin e sua moglie Ir’ma e il loro figlio, che si chiama Tim, e devo dire che, a pensarci, con tutta la riconoscenza che ho per i miei professori, i miei veri maestri di russo, e di Russia, son stati loro, Al’bin, Ksana, Volodja, Ir’ma e Tim.

4.
(Quale tra i traduttori italiani stima, e perché)
Mi sembra che la qualità della traduzione in rima dell’Onegin fatta da Ettore Lo Gatto sia stupefacente. E ho molto presente, anche fisicamente, la prima volta che ho letto Chlebnikov nella traduzione di Angelo Maria Ripellino.

5. Gli autori che lei traduce la influenzano? Le è successo di «patire» un autore?)

Gli autori che ho tradotto finora sono tutti autori che ho letto e riletto, sia in privato che in pubblico, e che credo abbiano influenzato il mio modo di scrivere ancora prima che li traducessi e indipendentemente dalla pratica di traduzione.

6.
(Come lavora col testo? Ha una sua teoria della traduzione?)

Mi tengo lontano, dalle teorie della traduzione, e anche dalla maggior parte di quelle che riguardano la prosa. Ho l’impressione che in teoria non si possa fare niente, o molto poco, e che in pratica invece si possa fare tutto, o quasi tutto. E ogni volta che sento dire Un romanzo dev’esser così, mi viene in mente un romanzo che mi è molto piaciuto che è cosà, e allora mi chiedo “Ma perché perder del tempo a costruir delle gabbie, non è meglio andare a fare dei giri?”. Con il testo lavoro in un modo molto semplice: mi sveglio, mi lavo, mi vesto, faccio colazione, e comincio a tradurre.

7. (Per quel che so, ha tradotto autori molto diversi tra loro, Puškin, Lermontov, Charms, le interessano i Mit’ki. Perché li ha scelti? Cosa le hanno dato questi autori? Quale, tra gli scrittori e i poeti russi, le piacerebbe tradurre?)

Charms è un autore che, come Chlebnikov, ha spostato, nella mia comprensione del mondo, i confini del letterario, cioè di quello che, del mondo, può entrare dentro la letteratura. E, inversamente, dopo che ho letto Charms, il mondo, ai miei occhi, è diventato più letterario e, di conseguenza, più comprensibile, più amichevole e più rappresentabile.
Un eroe del nostro tempo è costruito con un incastro meraviglioso. Il modo in cui questi racconti stanno insieme è un felicissimo mistero; è un libro che, se uscisse oggi, non avrebbe perso niente della sua attualità, mi viene da dire.
Di Puškin ho tradotto la narrativa in prosa, non tutta, solo quella che lui aveva pubblicato in vita, I racconti di Belkin, La donna di picche, Kirdžali e La figlia del capitano, e l’unica cosa che mi sento di dire, di Puškin, è che quel periodo che lo traducevo, io stavo di un bene. Stavo benissimo.
Per il resto, lei dice che gli autori che ho tradotto sono molto diversi, tra loro; sarà un caso, anzi, è sicuramente un caso, ma in camera mia c’è una litografia di Šinkarëv che rappresenta uno dei Mit’ki, con la maglietta da marinaio e tutto, che beve a collo da una bottiglia di vodka, e di fianco a lui ci sono Puškin e Lermontov. E Charms, secondo me, ci starebbe benissimo.
Per via delle cose che mi piacerebbe tradurre, sto lavorando adesso a una nuova traduzione delle Anime morte, che uscirà per Feltrinelli nel 2009, e poi dovrei fare un’antologia di Chlebnikov e, forse, sarà possibile fare anche un’antologia di poeti russi viventi, che mi piacerebbe si chiamasse Poeti russi scalcinati.

8. Come si rapporta col fatto che in Italia le opere degli autori classici si traducono molte volte? È una misura necessaria, che dipende dalla politica economica degli editori, ai quali costa meno commissionare una nuova traduzione, o è una specie di tradizione?)

A dire il vero io credo che una traduzione nuova costi di più, della ristampa di una vecchia traduzione. Forse c’entra il fatto che la lingua italiana degli anni quaranta e cinquanta, quando molto si tradusse dal russo, e la lingua italiana contemporanea, si differenziano in alcuni tratti forse secondari, ma abbastanza evidenti, e a un lettore contemporaneo credo che una traduzione contemporanea possa anche fare piacere.

9. La sua tesi di laurea è dedicata a Velimir Chlebnikov. Da dove viene questo interesse?)

A parlare di Chlebnikov faccio ancora più fatica che a parlare di libri e di generazioni.
Io non lo so, è una fortuna così grande, che ci sia Chlebnikov. Io mi ricordo una volta, ero a Mosca, nel 1993, stavo facendo la tesi, c’era una festa di compleanno, nella casa dove abitavo, e la padrona di casa aveva invitato i suoi colleghi. Si era bevuto. Uno di questi colleghi, molto allegro, mi aveva chiesto cosa facevo, io gli avevo detto che ero lì per fare la tesi. «Su cosa?» mi aveva chiesto lui. «Su Chlebnikov», gli avevo detto. E lui era scoppiato a piangere. C’ero rimasto male, avevo paura di averlo offeso, ma lui poi, dopo che si era calmato, mi aveva detto che non ce l’aveva con me, ma che a guardarsi intorno, era il 93, i giovani russi che pensavano solo ai dollari a andar dietro all’occidente e Chlebnikov non sapevano neanche chi era, lui vedere uno che veniva dall’occidente a studiare Chlebnikov gli sembrava che non fosse giusto.

10.
(Lei ha fatto di Chlebnikov e Majakovskij i protagonisti di uno dei suoi romanzi. Perché loro? È d’accordo con il fatto che la letteratura russa permette un rapporto «personale» con lo scrittore, permette di prenderlo come un amico o come un nemico (questo prima di tutto riguarda Puškin), in una parola, come se fosse vivo, a differenza delle immagini lontane e da manuale degli scrittori italiani?)

Quel romanzo da un lato era una cosa che avrei voluto scrivere subito finita la tesi, e avevo provato, anche, ma non ero capace. Non avevo mai scritto niente. Dopo, quasi dieci anni dopo, quando l’ho scritto davvero l’ho scritto un po’ per caso. Avevo pubblicato sette romanzi il cui protagonista era un personaggio che si chiamava Learco Ferrari, e alla casa editrice Feltrinelli mi avevano chiesto «Ma oltre a romanzi il cui protagonista è Learco Ferrari, pensi di scrivere anche delle altre cose?» Io gli ho detto di sì, e loro mi han chiesto di cosa, e io gli ho detto di Chlebnikov. E dopo, dovendo parlare di Chlebnikov, e dovendo spiegare come mai un poeta così grande non è tanto conosciuto, non ho potuto fare a meno di parlare di Majakovskij, non tanto di Majakovskij come personaggio, dal quale starei volentieri lontano, ma delle cose che ha fatto per impedire che gli scritti di Chlebnikov fossero conosciuti.
Quanto all’altra questione che pone, sulla particolarità della figura dello scrittore in Russia, è un discorso che mi interessa molto e che richiede una breve premessa.
In una conferenza intitolata Splendori e miserie della letteratura russa Sergej Dovlatov dice che in Russia c’è stato un periodo che se ti chiedevano «Dammi qualcosa da leggere», significava che ti chiedevano da leggere qualcosa in samizdat, un periodo in cui chiedere da leggere dei libri ufficiali era considerato scortese, un periodo in cui le dimensioni del fenomeno del samizdat avevano raggiunto in Russia le dimensioni del fenomeno dell’alcoolismo, scrive Dovlatov.
Dovlatov scrive poi che quando è emigrato in America lui si è accorto che il ruolo degli scrittori, in occidente, è completamente diverso dal ruolo che hanno in Russia. Per via che in Russia la letteratura usurpa spesso il ruolo della chiesa e dello stato. E questo dipende dal fatto che la chiesa in Russia è stata sempre debole e sottomessa e che, come istituzione, non ha mai goduto del rispetto popolare. E una volta persa anche la fede nello stato il popolo russo da chi si aspettava una parola di verità? si chiede Dovlatov. Dagli scrittori. Per questo gli scrittori erano così importanti, in Russia, e non c’era censura esterna che potesse sminuire questa importanza. Dopo Dovlatov lo diceva rivolto ai suoi colleghi scrittori per dirgli «Stiamo attenti, abbiamo delle responsabilità, non dobbiamo permetterci di dire quello che capita, perché poi ci credono».
E io, qui, veramente, dopo aver letto Chlebnikov, l’Achmatova, Pasternàk, Mandel’štàm, Charms, Bulgakov, Solženicyn, Erofeev, Dovlatov, Šinkarëv, uno ha l’impressione che Gozzano, Palazzeschi, Bontempelli, Bacchelli, Cassola, Manganelli, Volponi, Moravia, Arbasino abbiano inciso pochissimo, sulla società italiana del novecento. E non è un fatto di qualità letterarie, è proprio un fatto di rumore, e di silenzio. Io ho l’impressione che nelle poesie nei racconti nei romanzi russi del novecento, ci sia uno sbatter di teste che vien fuori da dentro, è come se una mano vien su dalla pagina ti prende la testa te la sbatte contro il tavolo che tu dopo che hai letto alzi gli occhi, il tuo sguardo è diverso. Nel novecento italiano, a me sembra che non sia mai successo niente del genere. Ma non è che i libri italiani del novecento non siano libri di qualità, non è che trattino argomenti lontani e astratti, noi abbiamo un novecento meraviglioso, che parla di cose concrete, ci son dei poeti, nel novecento italiano, che secondo me son come Puškin, c’è un signore di Santarcangelo di Romagna che si chiamava Raffaello Baldini che ogni due righe fa ridere e piangere, e delle volte fa ridere e piangere insieme, è come Puškin e come Gogol’, anche, non è una questione di argomenti, né di qualità, è una questione proprio di circostanze, di quello che sta intorno a un libro quando esce, e che determina l’impatto di quel libro lì, e l’impatto di un libro, in Russia, a me sembra sia molto più forte dell’impatto che ha in Italia, perlomeno nel novecento, oggi non so.

11.
(Lei ha scritto anche alcuni spettacoli teatrali, dedicati a autori russi: Charms, Vertinskij. Ci racconti di questa esperienza).

Brodskij, da qualche parte, scrive che la prosa è una valigia piena di trucchi. Secondo me scrivere per il teatro è un po’ il contrario, che scrivere in prosa. Quando uno scrive un testo narrativo, le cose più importanti, forse, sono le cose che non scrive. Il valore di un romanzo, mi sembra, non è tanto nelle cose che ci sono scritte, a me piacciono dei romanzi dove son scritte delle cose che mi sono completamente estranee, che non condivido minimamente, l’incanto di un romanzo secondo me non è in quello che c’è scritto, ma nell’equilibrio delle parti, cioè in quello che non c’è scritto, nei fili che tira il lettore per conto suo, nelle righe che scrive lui, nella sua testa.
Ecco secondo me nel teatro, questa cosa non si può fare. Lo spettatore teatrale non tira nessun filo, tu devi fargli vedere tutto, e allora l’unica soluzione che resta, mi sembra, è spingere l’imbroglio ancora più avanti, fino a smascherarlo. Il teatro, mi sembra, è una valigia aperta, piena di trucchi, è un imbroglio manifesto: lo scrittore di teatro è come Nozdrëv quando gioca a scacchi con Čičikov, se così si può dire, un imbroglione incallito, e di solito ha anche un cattivo carattere.

12. In Russia c’è l’opinione che agli italiani sia più familiare la linea fantastica, gogoliana, della letteratura russa. Lei è d’accordo?)

A noi hanno insegnato che Gogol’ era un realista.

13.
(Cosa succede oggi nella letteratura italiana? Quanto è originale e interessante, a confronto con le letterature degli altri paesi? Cosa leggono gli italiani? Quali sono gli autori che le interessano personalmente?)

Un grande scrittore italiano che vive in Inghilterra, si chiama Gianni Celati, qualche anno fa è andato in una scuola italiana, e il bibliotecario di quella scuola l’ha portato a visitare la biblioteca che stava riordinando, e ha cominciato a illustrargli i romanzi appena usciti. Li prendeva su uno a uno da un tavolo e diceva «Questo è un romanzo che tratta del problema dei giovani, questo tratta del problema della famiglia, questo tratta del problema della donna, questo tratta del problema della devianza e della tossicodipendenza.» «Ma non ce n’è nessuno che non tratti di nessun problema?» ha chiesto Celati.
Sembra, in generale, di essere un po’ nella situazione di cui parlava Brik nel 1927 comparando la letteratura per l’infanzia prerivoluzionaria con quella postrivoluzionaria. Nella letteratura prerivoluzionaria il protagonista di solito era un bambino di umili origini che compiva imprese straordinarie e alla fine del romanzo si scopriva che in realtà quel bambino veniva da una famiglia nobile. In quella postrivoluzionaria il protagonista era un bambino che veniva da una famiglia nobile che compiva imprese straordinarie e alla fine del romanzo si scopriva che in realtà quel bambino era di umili origini. Allora, nel 1927, in Russia, il Problema era uno solo, o meglio, c’era un problema che sovrastava tutti gli altri, la lotta di classe, la nobiltà del proletariato o non so bene cosa. Oggi, in Italia, uno scrittore ha più libertà, può scegliere tra il problema dei giovani, il problema della famiglia, il problema della donna, il problema della devianza e della tossicodipendenza, può mettere la sua crocetta, come nei test.
Ecco, a me piacciono i romanzi senza problemi, quello che non sono asserviti, se così si può dire, all’attualità, come i romanzi di Gianni Celati, per esempio, o di Daniele Benati, o di Ugo Cornia, o le canzoni–romanzo di Enzo Jannaci.

14. (E come vanno le cose con la letteratura in traduzione? Sono popolari gli autori russi in Italia? E, se sì, chi è perché.)

Non mi sembra che la letteratura russa vada molto di moda, in Italia. Va di moda la letteratura americana, da decenni, poi qualche anno fa c’è stata la moda della letteratura irlandese, poi c’è stata la moda della letteratura balcanica, poi c’è stata la moda della letteratura afgana, adesso c’è un po’ la moda della letteratura iraniana e sta venendo su, mi sembra, anche la moda di quella cinese. Non sono sicuro, ma credo sia probabile che l’autore russo più venduto in Italia, in questo ultimo anno, sia stato Anna Politkovskaja.

15.
(Quanto è prestigioso oggi in Italia essere letterati professionisti? E traduttori?)

Credo che in Italia i traduttori professionisti siano pochissimi, e che la maggior parte dei traduttori facciano anche altri mestieri.
Per quanto riguarda il prestigio della figura dello scrittore, ci sono, in Italia, diversi scrittori che sono molto famosi, prevalentemente perché lavorano, o hanno lavorato, nel cinema e nella televisione. Questi si trovano, di conseguenza, in una posizione di prestigio, anche se la fama che si acquisisce con la letteratura mi sembra sia un po’ una fama minore.
Se uno mira alla fama, è forse meglio che faccia il cantante, com’è evidente dal fatto che Adriano Celentano o Toto Cutugno sono molto, ma molto, più conosciuti, sia in Italia che in Russia, credo, di Alberto Bevilacqua o Andrea Di Carlo, che pure sono due autori molto famosi.
Io però, non so, fatico a associare alla figura dello scrittore il prestigio: mi vengono in mente Venedikt Erofeev e Iosif Brodskij, che credo di poter dire siano un prosatore e un poeta importantissimi, nel secondo novecento russo, forse tra i più importanti. Ecco, uno di loro, se non sbaglio, era un alcolizzato senza fissa dimora, l’altro, se non sbaglio, è stato processato e condannato per parassitismo.