Il sentimento che si prova

mercoledì 18 Settembre 2013

pensare per immagini, ghirri

 

 

 

 

L’altro giorno, ero a Roma, mi avevano chiesto di introdurre un dibattito tra politici nuovi, alla Città dell’altra economia, al Testaccio, e io c’ero andato e avevo detto che una cosa che non mi convinceva, dei politici nuovi, era che loro, quel che dicevano, era che loro sono diversi, dagli altri, cioè dai politici vecchi, solo che anche gli altri, quelli vecchi, dicono di essere diversi dagli altri, sia dai nuovi che dai vecchi altri da loro,
allora dei politici veramente nuovi, mi sembra, quello che dovrebbero dire è che loro sono uguali, agli altri; non li voterebbe nessuno, però, probabilmente, e si perderebbe così l’unica occasione di votare veramente il nuovo, la gente ha tanta voglia di nuovo, avevo detto, e avevo aggiunto che forse, la cosa che mi convinceva meno, in questo fatto di proporre se stessi come diversi dagli altri, era che, necessariamente, questo fatto implicava l’essere soddisfatti di sé, e a me mi veniva da pensare a una frase di Čechov, alla fine di un racconto che si intitola Uva spina, che è un racconto dove il protagonista è contento del pessimo vino che fa dall’uva spina e «questo, – scrive Čechov, – è il dramma più terribile, che un uomo sia contento della propria esistenza». Io, avevo detto, capisco Turgenev quando dice: «L’uomo russo è buono soprattutto per il fatto di avere di se stesso una pessima opinione», e avevo aggiunto che io, per uno che è soddisfatto di sé avevo un’istintiva diffidenza, mentre per uno che ha, di sé, una pessima opinione, avevo un istintivo rispetto.
E poi era cominciato il dibattito, e quelli che avevo introdotto avevan cominciato a dire loro com’erano bravi, e io avevo pensato che bravi saran stati bravi, ma prima mi invitavano a introdurli, poi non solo non tenevano minimamente conto della mia introduzione, sembrava che facessero apposta a dire il contrario di quello che avevo detto io, e dopo dieci minuti ero andato a letto, e ero mortificato, sarei andato a Roma per niente, se non fosse che il giorno dopo son stato al Maxxi, il museo nazionale delle arti del XXI secolo, che volevo andare a vedere la mostra di Luigi Ghirri Pensare per immagini che è lì al Maxxi fino al 27 di ottobre. Il Maxxi, come museo, mi ha ricordato quello che Pavel Florenskij diceva dei musei, che «Un museo è una cosa falsa e, in sostanza, dannosa, per l’arte»; l’atmosfera che c’era l’altro giorno al Maxxi, e che gravava sulle opere di Boetti, Clemente, Penone e Ontani, e sulle seggiole e sui ricami e sulle altre strane cose di Vezzoli, l’atmosfera che c’era l’altro giorno al Maxxi nelle sale di Boetti, Clemente, Penone, Ontani e Vezzoli, così come nella sala principale dedicata a una mostra che celebrava, tra le altre cose, gli autogrill, l’atmosfera che gravava su queste sale a me ricordava Twin peaks, sembrava sempre che dovesse saltare fuori da un momento all’altro l’assassino di Laura Palmer; le uniche sale dove non si sentiva la presenza di Twin peaks, c’è da dire, erano le sale, un po’ nascoste, non facilissime da trovare, dove c’erano, e ci sono ancora, fino al 27 di ottobre, le fotografie di Luigi Ghirri, che mi è sembrato avessero una potenza, una pulizia, una chiarezza che ha vinto anche la cupezza degli spazi non felicissimi del museo diretto gratis da Giovanna Melandri.
Ghirri una volta ha scritto che fermandosi, nel silenzio della pianura, il sentimento che si prova è quello di sentirsi esistere, e davanti alle sue fotografie succede un po’ la stessa cosa, e credo succeda perché, come scrive Pavel Florenskij, «l’oggetto artistico, anche se viene chiamato «cosa», non è affatto, per questo, una cosa, non è l’immobile, statica, morta mummia dell’attività artistica, ma dev’essere inteso come la sorgente della creazione stessa che scorre eternamente e mai si esaurisce, come viva, pulsante attività del creatore».
Ecco, su di me, queste cose che non sono cose ma sorgenti, hanno avuto un effetto che l’altro giorno, al Maxxi, non mi sembrava di veder delle fotografie, ma degli occhi, due occhi che guardano quando guardan davvero e vedono, per esempio, nei dorsi dei propri libri l’elemento di un autoritratto, e che le insegne dell’Esso, o della Total, sono pezzi non secondari di Emilia, o quel che c’è scritto nel retro delle persone, o l’universo che si può trovare in un portacenere di Modena, o la disperazione di certi muri di Ferrara, o il bianco che c’è quando nevica in Emilia Romagna. Una delle foto celebri di Ghirri si intitola Casa Benati e Daniele Benati, nel catalogo della mostra del Maxxi, scrive che Ghirri «ha reso eterni una spiaggia, un casolare, un pioppeto, un fosso, lo spigolo di un muro, perché ha saputo cogliere l’attimo in cui queste cose appaiono nella loro essenza visiva che colpisce l’occhio per la sua momentanea bellezza». «Che noi però non sapremmo cogliere, – ha scritto Benati, – a meno che non sia un artista a farcelo notare».

 

[uscito ieri su Libero]