Il mondo è pieno di gente che sta a casa – 19
E poi in questi ultimi giorni, intanto che lavoravo, mi è capitato spesso di sentire per radio, o da youtube, dei dibattiti, dal meeting di Rimini, e la cosa che mi ha colpito è che, non tanto quelli che intervenivano, quelli che introducevano, che avevano quasi tutti l’accento lombardo, avevano un tono come se ci tenessero a far sapere che le cose che dicevano loro non erano cose che forse eran così, eran cose che eran così, e basta. E sembrava che queste cose che dicevano, loro le avevan scoperte per via del fatto che loro non la pensavano in un modo qualsiasi, la pensavano in quel modo lì, e basta. E la cosa era tanto più stupefacente, mi sembra, se consideriamo che spesso i dibattiti che quei signori lì introducevano trattavano di materie come la fede, o la realtà, o la spiritualità, quello che c’è di qua, e quello che c’è di là, che sono materie che, parlarne e dire qualcosa che abbia un senso, e che resti impresso in chi ti ascolta, è difficilissimo, secondo me; io ho letto pochissime cose che mi è sembrato che avessero senso, sul rapporto tra fede e realtà, mi viene in mente soltanto, in questo momento, un breve scritto di Daniil Charms che mi permetto di copiare qua sotto:
Un uomo era andato a dormire che era credente, si era svegliato che era ateo.
Per fortuna, nella stanza di quest’uomo c’era una bilancia medica decimale, e quest’uomo era abituato a pesarsi tutti i giorni, mattino e sera. Così, andando a dormire il giorno prima, l’uomo si era pesato e aveva scoperto che pesava 4 pud e 21 funt. E il giorno dopo al mattino, dopo essersi svegliato che era ateo, l’uomo si era pesato ancora e aveva scoperto che pesava in tutto 4 pud e 13 funt. «Di conseguenza», aveva pensato l’uomo, «la mia fede pesava intorno agli 8 funt».
E in questi giorni, intanto che sentivo questi dibattiti, e soprattutto le introduzioni, più di una volta mi è tornata in mente una frase di Viktor Šklovskij tratta da quel libro stupefacente che si intitola L’energia dell’errore, che è il libro che mi ha fatto rileggere i russi che ho riletto quest’estate, Tolstoj, prima di tutto, e poi Čechov e Dostoevskij (e si parlava anche di Dostoevskij, nei dibattiti che ho sentito, e io, che, a parte tutto il resto, ho riletto, ormai, quattro volte I fratelli Karamazov, e che, mi è piaciuto moltissimo, ma non ci ho capito un cazzo, io, dicevo, sono sempre ammirato e stupefatto, quando sento parlare qualcuno che in Dostoevskij ha capito tutto, e mi vien da pensare che è come capire tutto in Rothko, che è una cosa impossibile, secondo me, perché Rothko, e Dostoevskij, son tutto un mistero, un mistero che sta in piedi, e uno si chiede come fa a stare in piedi, e la cosa bella è che siano un mistero e che stiano in piedi e che tu ti chieda come facciano a stare in piedi, o forse sono io che son fatto così, che non ci arrivo, e che capire tutto forse mi dispiacerebbe, anche), mi è tornata in mente, dicevo, una frase di Viktor Šklovskij che, a proposito del racconto di Čechov Uva spina, scriveva: «Alla fine dell’Uva spina il protagonista è contento di sé; e questo è il dramma più terribile, che un uomo sia contento della propria esistenza».
[uscito ieri sul Foglio]