Il mondo è pieno di gente che sta a casa – 14
Il 16 agosto, al pomeriggio, mi è successa una cosa che se non dovevo scrivere questo diario non mi succedeva. Sono andato in centro. Non perché dovessi andare in centro, sono andato in centro perché sono tre giorni che parlo di cose che succedono in questa casa o, al massimo, in questo quartiere, e pensavo che ci fosse bisogno, non so come dire, di allargare lo sguardo. Allora ho preso la mia bicicletta e sono partito, e, intanto che andavo, pensavo che probabilmente non avrei trovato niente perché quando uno va per cercare qualcosa di solito succede così, che non trova niente. Infatti. Niente.
La scusa, avevo bisogno di una scusa, era restituire un libro in biblioteca, e sono andato e l’ho restituito, e poi, intanto che c’ero ho preso dei dvd, che il prestito dura una settimana, così, ho pensato, tra una settimana ho l’occasione di tornare in centro e allargare ancora lo sguardo. “Che culo”, ho pensato intanto che li prendevo. Dopo, intanto che c’ero, ho preso anche dei libri, anche se i libri scadono dopo un mese e li dovrò restituire tra un mese e potrò allargare lo sguardo quando ormai questo diario non lo scriverò più, “Ma fa niente, – ho pensato, – allargare lo sguardo è comunque una fortuna anche se non si devono scriver di diari”. Uno dei libri che ho preso, un saggio su Dostoevskij di Gianlorenzo Pacini, comincia così: «Dostoevskij non possedeva una preparazione specifica in filosofia e le sue conoscenze in questo campo, tranne poche eccezioni, erano di seconda mano. È lui stesso ad attestarlo in una lettera del 28 maggio 1870 al critico Nikolaj Strachov, dove scrive: “Io sono deboluccio in filosofia, (ma non nell’amore per essa; nell’amore per la filosofia sono forte)». Ecco questo saggio, che si intitola Deboluccio in filosofia, l’ho preso per questo inizio e per questo titolo, e intanto che uscivo dalla biblioteca pensavo che questo inizio e questo titolo li avrei messi nel diario difatti adesso, se uno li cerca, ci sono.
Dopo sono andato alla libreria Ambasciatori, dove ho girato un po’, ho preso in mano un po’ di libri, un po’ di quaderni, ho scoperto che vendono della carta da lettere, quattro pagine di carta da lettere, con scritte, sulla confezione, sia in inglese che in francese, “4 pages for your thoughts andr drawings”, in inglese, “4 pages blanches couleur ivoire”, in francese, (i francesi son più immaginativi ma un po’ meno precisi, mi sembra, che o son blanche, o sono couleur ivoir, mi sembra) “papier sans chlore, avec enveloppe”, cioè con la busta, e la cosa che mi ha un po’ stupito è che quattro pagine di carta bianca, o ivoire, con la busta, costan quasi sei euro, cinque euro e novanta. Chissà quante ne vendono, ho pensato. Era Moleskine, la ditta, lì, Moleskine.
Dopo sono uscito, mi sono fermato che c’era un negozio, vicino alla libreria Ambasciatori, cioè più precisamente di fianco al bar pasticceria Roberto, che era chiuso, ma c’era su un manifesto che c’era un disegno della tour Eiffel e due baguettes sotto e del formaggio e una scritta, grossa, che diceva “Ouverture très prochainement”, e poi, più piccolo, in italiano, “Prossima apertura”. Che io ho pensato che la traduzione, forse, avrebbe dovuto essere: “Apertura imminente”, non Prossima, perché era Très, prochainement, che vuol dire Molto, prossima, cioè imminente, ho pensato. Però forse mi sbaglio, che con le traduzioni, ho pensato, non si sa mai. E niente. Mi è sembrato che lo sguardo ormai l’avevo allargato abbastanza, ho ripreso la mia bicicletta, son tornato a casa. E nel tornare mi è venuto in mente un libro che ho cominciato a leggere un po’ di tempo fa, L’epigramma a Stalin, di Robert Littell, un libro dove, nella traduzione italiana, (l’originale è inglese) la Literaturnaja gazeta (titolo di una celebre rivista letteraria prima russa, poi sovietica e poi russa) è diventata Literary Gazzette, in inglese, chissà perché (sarebbe come se, in un romanzo scritto in russo, ambientato in Inghilterra e tradotto dal russo in italiano The Times diventasse Vremena, forse).
Ma la cosa che mi aveva fatto più effetto, mi son ricordato, di questo inizio, era l’epigrafe, che era tratta da una poesia di Pasternàk, Amleto (la prima poesia tra quelle che si trovano alla fine del Dottor Živago), che finisce con un verso bellissimo, che Zveteremich, il primo traduttore del Dottor Živago, traduceva così, se non ricordo male: «Vivere una vita non è attraversare un campo».
E io ero un po’ affezionato, a questo verso, perché quando mi era successo, tempo fa, di fare un incidente grave e di trovarmi in ospedale in prognosi riservata con delle ustioni abbastanza dolorose, mi veniva in mente continuamente questo verso, «Vivere una vita non è attraversare un campo», che in russo è una specie di proverbio, e in italiano, nella traduzione di Zveterimich, aveva qualcosa che mi toccava e mi commuoveva, e quando la Feltrinelli aveva pubblicato una nuova traduzione del Dottor Živago, pochi anni fa, ero andato a guardare subito come avevano tradotto questo verso (la traduttrice è Serena Prina) e la traduzione era: «Non è un gioco vivere una vita». Che, non so perché, non mi toccava e non mi commuoveva.
Nell’epigrafe del romanzo di Littell (la traduttrice è Sara Brambilla), questo stesso verso era diventato: «La vita non è una passeggiata in un campo». Che, anche questo, chissà da dove saltava fuori questa idea di passeggiare, avevo pensato (l’originale russo è: Žizn’ prožit’ – ne pole perejti). E poi basta. Sono arrivato a casa sono andato a letto.
[uscito ieri sul foglio]