Il conte

mercoledì 13 Gennaio 2010

[Mercoledì 20 gennaio, alla modo infoshop, c’è una lettura in occasione dell’uscita del quaderno della Scuola elementare di scrittura emiliana (vedi colonna qui di fianco, pubblici discorsi). Metto qua sotto uno dei compiti che sono stati dati alla scuola nella soluzione di Giulia Menarbin].

Compito della biografia: scrivete una biografia.

Mio zio lo chiamavano il Conte. So che erano stati gli amici di San Rufillo che si trovavano al bar i tre scalini, a chiamarlo così, e il perchè non ho mai avuto bisogno di chiederlo. Anche a chiedere a uno che passava di lì per caso chi secondo lui chiamavano il Conte in quel gruppo di amici lui avrebbe indicato senza dubbio mio zio. Il Conte era proprio un soprannome che gli calzava perfetto, per quello gli è rimasto appiccicato tutta la vita.
Mio zio era del trentacinque, aveva quattro anni più di mio padre e loro due erano gli unici maschi di una famiglia tutta di donne. Mio zio aveva anche un fratello gemello che però è morto di polmonite quando avevano cinque anni. Sembra che mio zio abbia sofferto molto di questo fatto e quando poi ha avuto dei figli ha avuto anche lui dei gemelli, uno l’ha chiamato Luigi come suo fratello. Quando è morto Luigi mio nonno e la sua famiglia abitavano ancora in Veneto, dopo qualche anno si sono trasferiti in campagna vicino a Bologna. Dopo degli anni è morto anche mio nonno e dal quel momento in famiglia si son trovati i due fratelli con loro mamma e quattro sorelle. Si son trasferiti in città, a San Rufillo appunto, dove hanno conosciuto i ragazzi, come li ha chiamati mio padre fino alla fine anche se ormai avevano tutti settantanni. Mio zio è andato a lavorare in una fabbrica dove facevano vernici vicino a Pianoro e lì è rimasto a lavorare tutta la vita.
Di mio zio io mi ricordo soprattutto che si muoveva lentamente. Tutto quello che faceva lo faceva con dei gesti attenti e lunghi che io associavo all’eleganza. Per dire, quando arrivava a casa nostra e si doveva togliere il cappotto se lo sfilava molto lentamente, poi lo piegava a metà nel senso della lunghezza, lo appoggiava su un braccio e con l’altra mano intanto lo pettinava. Mentre faceva tutte queste operazioni che richiedevano dei minuti parlava, anche quello lentamente allungando le sillabe finali delle parole. Poi mi ricordo che quando ero piccola aveva una macchina dell’Alfa Romeo che si chiamava Giulietta e sul cruscotto di legno c’era la scritta metallica Giulietta in corsivo. Una volta che ero salita in macchina mi aveva detto che la sua macchina si chiamava come me e questo fatto mi aveva messo di buon umore. Questo è stato l’episodio in cui mi sono sentita più vicina a mio zio credo. Per il resto io mio zio lo vedevo così diverso da noi che non ho mai ben saputo come comportarmi. Qualche mese prima che morisse l’ho visto vicino alla piazza di un paese che sta a metà strada tra dove abito adesso e il posto dove da sempre i parenti di mio padre affittano una casa . C’era il marito di una mia zia che faceva manovra con la macchina e mio zio al bordo della strada che lo aspettava. Era esageratamente elegante come sempre però così pallido e stanco che non sembrava più lui e io ho fatto finta di niente, sono andata per la mia strada senza fermarmi. Dopo a dicembre di quell’anno, cioè del duemilasette, è morto. Al funerale è successa una cosa bella, che io non ho partecipato a tanti funerali però mi sembra che succedono anche delle belle cose ai funerali, quella volta è successo che i ragazzi di San Rufillo avevano fatto fare una corona di fiori, sopra c’era scritto ciao Conte.