I portici

sabato 17 Giugno 2023

I portici

discorso pronunciato a Bologna
il 14 giugno 2023
in occasione della prima edizione
del Portici Festival

Buongiorno.
Sono molto contento e un po’ sorpreso che mi abbiano chiamato a fare un discorso sui portici in questa prima edizione del festival dei Portici di Bologna, sono contento che mi abbiano chiamato per vari motivi, e sono sorpreso perché io son così.
C’è un grande scrittore russo, si chiama Sergej Dovlatov che aveva, con la propria notorietà letteraria, una relazione stranissima. «Quando vado in un posto», diceva Dovlatov, «e mi riconoscono, mi stupisco. Quando vado in un posto e non mi riconoscono», diceva, «mi stupisco. Son sempre stupito», diceva.
Ecco un po’ anch’io. Mi hanno chiamato a fare questa cosa e sono stupito, se non mi avessero chiamato sarei stupito, probabilmente.
L’altro motivo per cui sono sorpreso è che io non sono di Bologna, sono di Parma.
Ho detto anche durante la presentazione, qualche giorno fa, in comune, a Bologna, che la frase che ho detto più spesso, quando intervengo in pubblico, è: «Io sono di Parma»; è vero che sono più di vent’anni che abito a Bolèogna, mi sono trasferito qui nel 1999 e, forse per questo, spesso mi prendono per un bolognese.
Una volta, in Sardegna, un libraio di Alghero, mi è venuto a prendere all’aeroporto di Olbia, e, nel corso del viaggio, mi ha chiesto cosa pensavo dei libri di Loriano Machiavelli; poi mi ha chiesto cosa pensavo dei libri di Carlo Lucarelli. Poi mi ha chiesto cosa pensavo dei libri di Giampiero Rigosi; poi mi ha chiesto cosa pensavo dei libri di Grazia Verasani. Arrivati alla sua libreria, mi ha prestato dicendo che io ero un giallista bolognese. Io, quando mi ha dato la parola, ho detto che mi scusavo con i presenti ma se qualcuno era venuto per sentire la presentazione del libro di un giallista bolognese era meglio se andava a casa perché io, mi dispiace, non ero né giallista né bolognese, ero di Parma.
Che poi, a pensarci, essere non bolognesi a Bologna non è una cosa così singolare.
Cinque anni fa, nel 2018, dal Touring Club Italiano mi han chiesto di scrivere qualcosa sulla guida verde di Bologna e io ho scritto:

Sono dieci anni che tengo dei corsi di scrittura, a Bologna, e tutti gli anni il numero dei bolognesi che partecipano a questi corsi è sempre inferiore al numero dei non bolognesi e una volta, nel 2018, delle quindici persone che frequentavano il corso, nessuno era nato a Bologna, nemmeno io, che abito a Bologna dal 1999 ma son nato a Parma.
Una volta, qualche anno fa, mi hanno invitato in un liceo bolognese e mi hanno presentato come scrittore bolognese e io ho ringraziato e ho detto che, mi dispiaceva, io ero di Parma, e essere uno di Parma a Bologna, avevo detto, era come essere il protagonista di quella canzone di Sting, An englishman in New York, mi era scappato di dire.
Non so se esistono delle statistiche sulla percentuale di non bolognesi che abitano a Bologna rispetto al totale della popolazione, ma se dovessi dire in base alla mia esperienza, a tutte le persone che ho incontrato a Bologna nei diciannove anni che ci ho abitato, io direi che il settanta per cento, per lo meno, son come me, vengon da fuori. Mi ricordo nel 2005, in occasione delle elezioni regionali pugliesi, le strade del centro, via Zamboni, largo Respighi, via Belle Arti, erano tappezzate di manifesti che invitavano a votare i candidati alla presidenza della Puglia, e uno che fosse venuto da fuori e con scarse nozioni di geografia, un turista australiano, faccio per dire, per il quale l’Italia è un concetto esotico, è agli antipodi, il più esotico che si possa immaginare, be’, quel turista lì avrebbe pensato probabilmente che Bologna era in Puglia, invece no. È in Emilia-Romagna.
Ma Bologna, come dicevo, non è solo diversa da Bari, o da Cagliari, o da Palermo, o da Trieste o da Roma, è anche molto diversa da Parma, tanto diversa che io, i primi sedici-diciassette anni che ci ho abitato, mi sono sentito un po’ come in esilio,
Che era indubbiamente una cosa che poteva sembrare ridicola, ma a Bologna, a novanta chilometri da Parma, c’erano delle parole, non so, salviettone, no?, che vuol dire salvietta grande, asciugamano grande, telo mare, ecco io finché avevo abitato a Parma ero convinto che salviettone fosse una parola che in Italia la capivan dovunque, quando mi ero trasferito a Bologna che avevo capito che a Bologna salviettone era una parola che non la capiva nessuno, c’ero rimasto malissimo, mi ero reso conto di essere dentro un esilio linguistico che valeva anche al contrario, che quando uno va dal bottegaio, a Bologna, e gli chiede, per dire, due etti di prosciutto di Parma, il bottegaio, di solito, dopo che ti ha tagliato i due etti di prosciutto di Parma, ti chiede «Altro?», e te, se non vuoi altro, devi rispondergli «Altro», e se invece gli rispondi «Nient’altro», il bottegaio capisce che non sei di Bologna, sei di Parma, An englishman in New York.
C’era un ragazzo toscano, che aveva fatto uno di quei corsi che facevo io, che per Natale doveva tornare nella sua città toscana, Livorno, o Pisa, non mi ricordo, e era andato a comparare una punta di parmigiano, e il formaggiaio gliel’aveva data e poi gli aveva chiesto «Altro?», e gliel’aveva chiesto con un tono così categorico, come se non dubitasse affatto che quel ragazzo toscano, di Livorno, avesse voluto qualcos’altro, e quel ragazzo di Livorno, o di Pisa, che non voleva nient’altro, aveva detto «Sì, me ne dia un’altra», e aveva preso un’altra punta di parmigiano reggiano della quale non aveva nessun bisogno.
E io mi ricorderò sempre, è stato nel 2016, ero dal bottegaio, ho ordinato due etti di prosciutto di Parma e il bottegaio me li ha tagliati, me li ha dati e poi mi ha detto «Altro?», e io mi son sentito rispondere «Altro», e dentro di me ho pensato «Ecco, dopo diciassette anni mi sono ambientato».
E, da bolognese d’adozione, mi sento in diritto di dare qualche consiglio ai non bolognesi che dovessero visitare questa città, e indicherò cinque posti che per me sono posti incantevoli anche se frequentati da gente che non sa cosa vuol dire Salviettone: la sala Borsa, la cineteca, il museo della memoria di Ustica, il giro dei matti della città di Bologna, la chiesa di Santa Maria della Vita dove c’è il compianto del Cristo morto di Niccolò dell’Arca; vorrei dire due o tre cose che ho imparato in questi quasi vent’anni e che mi sembra possano essere utili, per chi viene a Bologna. La prima è che gli spaghetti alla bolognese, che è un piatto che ho visto sui menu dei ristoranti di tutto il mondo, di Parigi, di Mosca, di Dakar, ho anche letto recentemente che il calciatore Paul Pogba, quando si è trasferito dalla Juventus al Manchester Undited ha chiesto e ottenuto che la sua cuoca italiana lo seguisse in Gran Bretagna, e io avevo pensato che doveva essere proprio un buongustaio, questo Pogba, solo che poi, nel pezzo in cui l’ho letto, che era, se non ricordo male, un’intervista alla cuoca, le si chiedeva quale fosse il piatto preferito, di Pogba, e lei rispondeva: «Gli spaghetti alla bolognese» e io pensavo “No, non è un buongustaio”, perché gli spaghetti alla bolognese, a Bologna, dev’essere l’unica città del mondo, Bologna, che non li fa nessuno, gli spaghetti alla bolognese.
Per via del fatto che, ho chiesto a un ristoratore bolognese, la pasta di semola, con il ragù, non si sposa bene; «Se vuole mangiare un piatto bolognese – mi ha detto quel ristoratore – mangi le tagliatelle al ragù».
Un’altra cosa che non sapevo, quando abitavo a Parma, è che in piazza Maggiore, su quella specie di grande zoccolo che c’è in mezzo, che a Bologna chiamano il crescentone, lì i bolognesi, la domenica, portano i bambini a correre dietro ai piccioni, quelli a cui piace correre dietro ai piccioni, e gli altri, quelli a cui non piace correre dietro ai piccioni, portano i bambini a vedere chi ha la testa più grande.
Da questa postazione, poi, dal crescentone, i bolognesi la conoscono bene non la guardano più, ma i non bolognesi che si trovano sul crescentone, in piazza Maggiore, da qui si trovano nel punto ideale per guardare la celebre Basilica di San Petronio, uno degli incanti della quale consiste nel fatto che, evidentemente, non è finita. Son così belle, le cose che non sono finite, un libro, da finire, una film, da finire, una cattedrale, da finire, mi viene in mente la strofa di una canzone di un cantante italiano che dice «Io voglio aspetta che la fame cresca e che magari non passi mai» (il cantautore si chiama Federico Fiumani e non è di Bologna, è di Osimo, ma scrive delle canzoni belle anche essendo di Osimo), be’, a guardare la facciata di San Petronio, così unica, nella sua incompiutezza, la fame non vi passa mai, e se poi volete avere ancora più fame, io vi consiglio di fare tutta San Petronio per il lungo, di passare davanti all’Archiginnasio, che è la sede dell’università di Bologna, che a Bologna dicono che sia la più antica università del mondo (a Parigi dicono che è quella di Parigi), di arrivare in piazza Galvani e da lì guardare il retro, di San Petronio, che dal retro, se fosse possibile, è ancor più evidente, che hanno interrotto i lavori a metà, e lasciato in sospeso così, adesso i gusti son gusti, ma per me, il retro di San Petronio è il più bel retro di cattedrale che ho mai visto in vita mia.

Ecco. Per quello, quando mi hanno chiesto di scegliere la parte dei portici della quale volevo parlare, ho scelto anche il Pavaglione, il portico che c’è lì di fianco a San Petronio, perché se uno si mette sotto il Pavaglione, in piazza Galvani, vede il retro di San Petronio che per me proprio è una delle cose di Bologna che mi piaccion di più.
Pavaglione, tra l’altro, ho scoperto cosa vuol dire Pavaglione, io a fare questo lavoro ho scoperto delle cose che voi bolognesi probabilmente le sapete tutti, cioè che Pavaglione viene da Pavillon, che significava, se non ho capito male, tendone, in francese, perché lì, in piazza Galvani, c’era un mercato della seta sotto un tendone e l’hanno chiamato così.
Mi piace molto dire piazza Galvani con l’indifferenza con cui l’ho detta e sapere anche dov’è, potrei perfino accompagnarci qualcuno, da qui a piedi, son proprio bravissimo e un po’, l’ho detto, mi sento anche un po’ bolognese il che, però, per fare questo lavoro non è che semplifichi le cose, le complica.
Perché vedere Bologna, per un bolognese, è più difficile, che per un non bolognese.
Una volta, son stato ad Auschwitz con dei ragazzi degli ultimi anni delle scuole superiori della provincia di Modena, alcuni hanno fatto un seminario di scrittura con me e io gli ho dato, come esercizio, di descrivere i polacchi, e un ragazzo, mi ricordo, la cosa che ha notato dei polacchi è stata che i polacchi non gesticolano.
I polacchi non gesticolano. Un polacco non direbbe mai che i polacchi non gesticolano, se dovesse descrivere i polacchi, così come un italiano non direbbe mai che gli italiani gesticolano, se dovesse descrivere gli italiani. I polacchi non si accorgono, di non gesticolare, così come gli italiani non si accorgano, di gesticolare, a meno che non siano degli artisti, mi viene da dire.
E questa cosa, io qualche anno fa, qui vicino, in via Andrea Costa, ho preso il 14, l’autobus, io a Bologna giro in bicicletta tranne quando piove che prendo il 14, o il 20, o il 21, e quel giorno lì ho preso il 14, mi sento chiamare, era Ermanno Cavazzoni che mi dice che stanno facendo un libro sulla via Emilia, per il trentennale di un altro libro che aveva curato insieme a Luigi Ghirri, il fotografo, e se volevo scrivere un pezzetto e io l’ho scritto e lo copio qua sotto, viene particolarmente bene per via del fatto che stasera dopo di me suonano il liscio, parla anche di liscio, questo pezzetto, e, se vi interessa il liscio, io l’8 luglio, qui a Bologna, in piazza San Franesco, leggo una cosa con 7 professori del conservatorio che suonano i fiate, concerto a fiato l’Usignolo, si chiamano, e lo spettacolino che facciamo si chiama Tutto tranne che il liscio e parla del liscio e si suona e si canta e si balla e si raccontan delle cose se volete venire ci troviamo lì ma intanto torniamo alla cosa di Ghirri e dell’Emilia che fa così:

Per uno che abita in Emilia, scrivere un pezzo che parli dell’Emilia, o della via Emilia, a me sembra una cosa difficilissima.
Mi viene in mente il periodo in cui una rivista di viaggi mi aveva mandato nel Mississippi a scrivere di blues, e io c’ero andato e molti di quelli che avevo incontrato per strada e ai quali avevo chiesto cosa pensavan del blues mi avevano guardato stupiti e poi mi avevano detto che loro, del blues, non ne pensavano niente, e che ascoltavano della musica tutta diversa.
E io mi ero sentito come credo si sarebbe sentito un americano che fosse venuto in Emilia convinto che tutti gli emiliani ascoltassero il liscio, bevessero il lambrusco e mangiassero i tortellini quando si fosse accorto che c’eran degli emiliani che il liscio non lo ascoltavano e erano astemi e vegetariani.
E mi è tornato in mente un esempio che mi ha fatto un mio amico di Bologna, che si chiama Jean Talon, di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.
Che, per uno che non ha mai visto un guinzaglio, e non ha idea neanche di cosa sia, è esattamente quello che succede tutte le mattine, anche sotto casa mia, c’è da dire, solo che vederlo è difficile, perché io son così abituato, ai guinzagli, che ho smesso di vederli, e con l’Emilia, mi sembra, succede la stessa cosa, e è per ovviare a questa mancanza di intelligenza nel mio sguardo, che secondo alcuni critici e alcuni teorici dell’arte esistono l’arte e la poesia.
L’arte, ha scritto una volta un filosofo che si chiama Agamben, non serve per rendere visibile l’invisibile, serve per rendere visibile il visibile, e questa cosa, con l’Emilia, a me è successa grazie alla fotografie di Luigi Ghirri.
Prima di vedere le fotografie di Luigi Ghirri, se pensavo all’Emilia io, oltre che al ballo liscio, al lambrusco e ai tortellini, pensavo a poche cose, ai pioppi e al fiume Po, prevalentemente; c’erano queste immagini che non avevano niente a che fare con le mie giornate, abito lontano dai pioppi e dal Po, ma che erano da qualche parte nella mia testa dentro una cartellina con su scritto «Emilia».
Dopo che ho visto le fotografie di Ghirri, io mi sono accorto che in Emilia c’erano anche i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità, il cielo.
Lui, Ghirri, con le sue fotografie, avrei pensato, era come se avesse preso con due dita l’imballaggio che avvolgeva l’Emilia, sotto casa mia, e avesse tolto dal loro imballaggio che li rendeva invisibili i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità e il cielo che c’erano sotto casa mia e io adesso, è incredibile, riesco a vederli, e la cosa è ancora più incredibile se si considera che Ghirri, sotto casa mia, probabilmente, non c’è mai neanche passato.

Ecco, e adesso, che abbiamo quasi finito, i portici.
Allora, i portici, io quello che mi hanno chiesto di fare, coi portici, è andare in giro nel mio tratto di Portici, il portico più lungo del mondo, di Via Saragozza, e vedere cosa succede, parlare con la gente, interagire, e io l’ho fatto, solo che m’è successa la stessa cosa che mi è successa quando ho preso la transiberiana.

Una ventina di anni fa una rivista di viaggi, Panorama Travel, mi ha mandato in Transiberiana a raccontare quel che succedeva sul treno. Ho fatto sette giorni di treno, sono montato a Mosca, sono sceso a Vladivostok, e tutti i giorni attraversavamo una zona di fuso orario, pranzavamo con l’ora di Mosca, pranzo alle 13, cena alle 20, solo che gli ultimi giorni, le 13 erano le 19, c’era già buio, le 20 erano le due del mattino, cenavamo alle due del mattino.
Io, non volevo che sapessero che ero lì per scrivere quello che facevano e dicevano loro, i primi tre giorni non ho detto niente, solo che, come nei portici, non mi parlava nessuno, allora, dopo tre giorni, ho preso da parte il responsabile della mia carrozza, gli ho detto che stavo scrivendo un pezzo per una rivista italiana, da lì, venivano tutti a raccontarmi di loro, a chiedermi dell’Italia, a propormi delle joint-venture.
Uno voleva che lo aiutassi a importare in Italia i biliardi russi, che, a sentire lui, ci saremmo arricchiti nel giro di tre anni. Un altro, lavorava nella moda, dopo tre giorni che ci conoscevamo mi ha chiesto «Ma t… conosci Gian Franco Ferré? Perché mi piacerebbe conoscerlo, è possibile, secondo te?».

Allora, qui, sotto i portici, non mi ha parlato nessuno, non so bene cosa dire. Mi sono un po’ documentato, e ho scoperto delle cose che tutti i bolognesi sanno, probabilmente.

In un libro I portici di Bologna, a cura di Marco Gaiani, ho scoperto che gli antenati dei portici sono gli sporti, che sono dei primi piani che sporgono, te vedi la casa, è evidente che l’hanno allargata, ma non c’è l’appoggio a terra, sporgono e basta, gli sporti. Bel nome, mi piace: gli sporti. Ci sono in via de’ poeti, in via Clavature, in via Marchesana.

Poi in un altro libro, Portici di Bologna sul tetto del Mondo, di Gianni Castellani, con fotografie di Gianni Castellani e Gianpaolo Zaniboni, ho scoperto che Via Senza Nome il portico più stretto, tra tutti i portici di Bologna. Che la via, mi hanno detto, in origine si chiamava Via Sfregatette, perché era così stretta che non ci passavano due donne senza che si toccassero le tette, però era un nome che andava censurato allora l’han chiamata Senzanome che mi piace moltissimo, una via che si chiama Senzanome, come uno che si chiamasse Nessuno, è proprio una via epica; io, forse mi sbaglio, ma secondo me i nomi delle strade hanno anche un certo potere, io, nel 1996, quando ho cominciato a scrivere, ero a Parma, al numero 3 di via Caduti di Montelungo, tra largo Dispersi dell’Egeo, viale Dispersi e Morti in Russia, via Martiri di Cefalonia e via Anna Frank, che era il posto ideale, tra tutte le strade di Parma, per cominciare a scrivere. E, poi non è vero, ma ho l’impressione che il fatto che, io insegno traduzione editoriale dal russo alla Iulm di Milano, il fatto che facciamo lezione al piano meno uno, in un sottosuolo, ecco poi non è vero, ma secondo me insegnare a tradurre è meglio farlo in un sottosuolo, che al quarto piano. Magari mi sbaglio.
Qua vicino, in via Porrettana, appena dopo la fine del portico, appena sotto il Meloncello, per un po’ di tempo ci ha abitato Vasco Rossi, mi han detto che l’altro giorno, al concerto, qui allo stadio, prima di fare quella canzone che si intitola Ogni volta, ha detto «Questa canzone l’ho scritta a 120 metri da qui», era lì, e secondo me se abitava da un’altra parte, non la scriveva, quella canzone lì, quella canzone porta l’impronta di questo quartiere di Bologna, della vicinanza del portico più lungo del mondo, e via Senzanome, scrivere delle cose in via Senzanome, non so, Beckett, Ionesco e Daniil Charms, secondo me, sono tre che è come se avessero abitato in via Senzanome, a leggere quello che han scritto.

Comunque. Un posto dove è successo qualcosa, nella mia passeggiata, in realtà c’è stato, in via Santa Caterina.
C’era uno, nero, di una certa età, che, ballava, sotto i portici, che faceva un gran casino, poi è entrato nella mensa dei poveri.
E poco dopo, sempre davanti alla mensa dei poveri, c’era una signora che aveva due cani al guinzaglio, uno ha provato a mordermi. L’unico essere vivente che mi ha notato, un cane che ha provato a mordermi.

Davanti alla mensa dei poveri.

Che i poveri, ci sono anche molti stranieri, che hanno detto quello che pensavano dei portici di Bologna, e uno di loro è Stendhal, al quale Bologna piace molto, parlando del suo viaggio del 1816 ricorda: «passando davanti a quei palazzi di cui, con le sue grandi ombre, la luna disegnava le masse, mi succedeva di fermarmi, oppresso dalla felicità, per dirmi: Com’è bello!», ma sui portici ha da dire, preferisce quelli di Modena, che sono solo da una parte della strada, dice.

Adesso io son stato a Modena, da quel che mi ricordo io sono da tutte e due le parti della strada, per lo meno sulla via Emilia, magari nell’ottocento erano solo da un parte, non lo so, ma, a parte questo, Stendhal è uno dei pochi francesi a cui piaceva l’Italia, gli piacevano da sgarbati, l’Italia e gli italiani, e una delle cose che gli piacciono è il fatto che, in Italia, gli italiano non si vergognano di essere poveri, e io, la prima volta che ho letto questa cosa qua, ho pensato a mia nonna Carmela.

Mia nonna Carmela era nata in provincia di Parma e l’han chiamata Carmela, che non è un nome emiliano, l’han chiamata Carmela perché avevano finito i nomi, era la sedicesima di diciassette fratelli e sorelle e quando parlava in pubblico, cioè quando, in mezzo a della gente, le veniva da dire qualcosa, lei parlava con un tono di voce più alto, di quello, per esempio, con cui parlo io. E quel tono lì, mi sembra, voleva dir delle cose. Voleva dire che mia nonna Carmela era figlia di mezzadri, che aveva fatto la terza elementare e che poi era andata a lavorare, a servire, a Parma, a casa di un generale, quando aveva undici anni. Mi diceva «Paolo, a casa nostra c’era una miseria che quando siam diventati poveri abbiamo fatto una festa». Voleva dire che lei, da quella miseria lì, ne era venuta fuori. Voleva dire che lei, con la sua vita, con le sue mani, con il suo lavoro, aveva conquistato il diritto di parlare come tutti gli altri. Voleva dire, quel tono della voce, “Ci sono anch’io, ve’!? E ho diritto di esserci anch’io, ve’!? Come te”. Non si vergognava, mia nonna Carmela, della sua povertà, la rivendicava, era una parte di lei, la sua miseria, della quale era contenta, della quale era fiera. Sarebbe piaciuta, a Stendhal, mia nonna Carmela, io non lo so, io mi vergognerei, se fossi povero, io, quando è nata mia figlia, quell’anno ho pubblicato tre romanzi perché avevo paura di non avere abbastanza soldi per tirar su mia figlia, mi sarei vergognato, se mia figlia avesse dovuto privarsi di qualcosa perché io non avevo abbastanza soldi, io non sarei piaciuto, a Stendhal, io son l’anello debole delle famiglia Nori perché mia figlia, secondo me, è meglio, di me.

Io, per esempio, noi, non eravamo razzisti, non c’eran neanche un immigrato, quando ero piccolo io, negli anni settanta, era facilissimo, non essere razzisti, dopo quando sono arrivati gli immigrati è comparso il razzismo, e io, che le razze umane non esistono, l’ho scoperto che avevo già cinquant’anni quando ho fatto un discorso sull’eugenetica che ho detto ad Auschwitz. Mia figlia, che le razze umane non esistono lo sa per esperienza diretta perché fin dalle elementari è in classe con dei bambini che vengono dai quattro angoli della terra.

Ecco, mia figlia è andata alle elementari qui davanti, in via Saragozza, alle Avogli, e, per finire, voglio dire che io, io sono un bolognese adottato che ha fatto qualche resistenza, ma che, dopo vent’anni che abito quasi qui (abito a Casalecchio, in realtà) sono contento di quasi vivere in una città che dà la cittadinanza onoraria a tutti i bambini stranieri che studiano a Bologna, e questo cambiamento, il fatto che io, che le razze umane non esistono sia una cosa che io ho imparato a 50 anni quando ho scritto un discorso sull’eugenetica da dire a Auschwitz, il fatto che quella cosa lì che io ho imparato ad Auschwitz, mia figlia l’abbia imparata a 6 anni in una scuola elementare che dà sul portico più lungo del mondo, in via Saragozza, mi sembra un discreto progresso della specie bolognese.
Grazie.