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Ho, nello scrivere queste righe, un imbarazzo che mi sembra uguale e contrario a quello che avevo quando facevo l’università, dopo che avevo deciso di scrivere la tesi su Chlebnikov e dopo che avevo cominciato, un po’, a studiarlo, e dopo che mi ero sentito, in un certo senso, un esperto, di Chlebnikov.
Io, allora, quindici anni fa, non tanto tempo fa, io se sentivo qualcun altro che parlava di Chlebnikov, non lo stavo a sentire. Cercavo di interromperlo subito, e se continuava mi veniva proprio l’istinto fisico di andare via e intanto pensavo «Come si permette, questo, di parlare di Chlebnikov, che l’esperto di Chlebnikov sono io?».
Cioè a me, dopo che avevo letto un po’ di cose di Chlebnikov e su Chlebnikov, eran cresciuti come dei paraurti retrattili davanti e didietro che saltavano fuori ogni volta che veniva fuori l’argomento Chlebnikov e che mi impedivano di avvicinarmi e di imparare di più, ero talmente convinto di saperne, su Chlebnikov, che su questo argomento ero diventato cieco, e sordo, non muto, ne parlavo continuamente anche a della gente che, poveretti, la poesia d’avanguardia dei primi anni del novecento nella Russia presovietica e sovietica non era stranamente un argomento che li appassionava.
Adesso, quindici anni dopo, al contrario, per un meccanismo che non mi è chiarissimo, io di Chlebnikov ne parlo il meno possibile.
Forse perché, per quanto se ne possa dire, Chlebnikov, mi sembra, è molto di più di quello che si riesce a dire.
Šklovskij diceva che era un campione, Jakobson diceva il più grande poeta del novecento, Tynjanov diceva una direzione, Markov diceva il Lenin del futurismo russo, Ripellino diceva il poeta del futuro, e avevan ragione, secondo me, tutti, però avevano torto, anche, secondo me, e avevano torto perché, secondo me, Chlebnikov è molto di più.
[Inizio della postfazione a Velimir Chlebnikov, 47 poesie facili e una difficile, Macerata, Quodlibet 2009]