Come le pecore d’un gregge
Anche su questo punto avevamo le nostre regole precise: i fratelli scrivevano le lettere indirizzandole al babbo, il postino del villaggio le portava alla mamma, leggere le lettere e rispondere era compito mio.
Prima di mettermi a leggere già sapevo ciò che Sadyk aveva scritto.Tutte le sue lettere si somigliavano come le pecore d’un gregge. Sadyk immancabilmente cominciava con le parole “Notizie riguardanti la mia salute”, e poi, senza mai variare, dichiarava: “Mando questa lettera per posta ai miei genitori che vivono nel fiorente e profumato Talas: al mio caro e amatissimo padre Giolciubaj…” Poi veniva mia madre, poi sua madre e poi tutti noi in rigido ordine. Dopo venivano le domande d’obbligo sulla salute e prosperità degli anziani del clan, dei parenti stetti e soltanto alla fine, quasi frettolosamente, Sadyk aggiungeva: “E mando anche un saluto a mia moglie Giamilja…”
Certo, quando padre e madre sono in vita, quando al villaggio prosperano gli anziani e i parenti stretti, nominare la moglie per prima, o peggio indirizzare una lettera direttamente a lei, è senza dubbio scorretto o addirittura fastidioso. Sadyk non è il solo a pensarlo, ma ogni uomo che si rispetti. E non c’era nulla da cambiare: al villaggio tutto era stabilito, e non solamente tutto questo non sollevava alcuna discussione, ma, semplicemente, non ci pensavamo affatto; non ci ponevamo il problema. Perché ogni lettera era un avvenimento gioioso, desiderato.
La mamma mi faceva rileggere la lettera parecchie volte, poi con tenerezza la prendeva tra le sue mani tutti screpolate, e guardava il foglietto con aria incerta, come se fosse stato un uccello in grado di volar via. Muovendo con fatica le dita rigide piegava infine la lettera a triangolo.
“Ah, miei cari, conserveremo le vostre lettere come talismani!” sussurrava con voce tremante di lacrime.
[Tschingis Aitmatov, Melodia della terra. Giamilija, versione italiana di Andrea Zanzotto, Milano, Marcos y Marcos, pp. 31-32]