Cloon na Morav

venerdì 1 Aprile 2011

Qui non c’erano sentieri; non esisteva un progetto, una pianta, un registro; e se mai ne era esistito uno, era andato perduto. Invasioni, guerre, carestie e faide si erano abbattute sul terreno lasciandolo in quello stato. Il titolo alla sepoltura derivava da indiscutibili diritti acquisiti per tradizione, ma tali diritti avevano cessato di valere anni prima, fatto salvo per alcuni casi eccezionali: ossia per quei pochi che avrebbero chiuso il cerchio di una generazione estinta. Lo straripamento di Cloon na Morav aveva già dato vita a un nuovo cimitero che si trovava a un miglio di distanza: un cimitero in cui lapidi di calcare e croci celtiche spuntavano come funghi, a testimoniare la futilità di una genia di uomini e donne che, stando ai loro epitaffi, avevano fatto esattamente le due cose che ben difficilmente avrebbero potuto evitare di fare: essi infatti, così dicevano i loro necrologi, erano tutti nati e tutti morti. In alcuni casi, a mo’ di apologia, erano state aggiunte oscure citazioni tratte dalle sacre scritture e c’era una quasi unanime richiesta di perdono rivolta al Signore per ciò che era successo al defunto. Una tale mancanza d’umorismo era sconosciuta a Cloon na Morav. In confronto, i suoi monumenti erano pochi, e quelli non ancora inghiottiti dal terreno, si confacevano all’atmosfera generale. Nessun necrologio risultava intatto: erano tutti stati più o meno rosicchiati dalle fauci del tempo. I monumenti che avevano combattuto una dura battaglia per continuare a esistere non erano altro che i patetico emblema della loro futilità. La vanità di ciò che era andato di moda in epoche lontane faceva venire le lacrime agli occhi. A chi mai era saltato in mente di introdurre una lapide di marmo bianco a Cloon na Morav? Ora eccola lì, verde di vergogna. Forse la scritta, un tempo leggibile, era stata scrupolosamente scelta in oro. Ma a saperlo erano solo i venti ululanti e la pioggia battente che scendeva dalle colline.

[Seumas O’Kelly, La tomba del tessitore, tr. it. Daniele Benati, Macerata, Quodlibet 2011, pp. 10-11]