Birkenau
[Metto qua sotto il discorso letto stasera a Cracovia, è lungo e immagino ci siano diversi refusi]
Buongiorno, si sente?
Grazie.
Allora, io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, e di mestiere scrivo dei libri, e ne traduco, anche, dal russo, perché ho studiato russo, e queste cose le dico spesso quando devo cominciare un discorso, sono una premessa, come un piccolo scivolo che mi porta dentro il discorso, e le ho dette anche al cinema Kijow di Cracovia il 26 gennaio del 2009 che eravamo lì, con seicento studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori di Modena, come adesso, per una manifestazione che si chiamava Un treno per Auschwitz, come adesso, e era organizzata dalla fondazione Fossoli, come questa.
E lì, nel 2009, al cinema Kijow di Cracovia, che è un posto che voi vedrete domani, lì a guardarmi c’erano, tra gli altri, le Mondine di Novi, come anche oggi, e io avevo letto un discorso che si chiamava Noi e i governi che era un discorso sulla dittatura e sull’anarchia che cominciava dicendo Buongiorno, si sente? Allora, io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, e di mestiere scrivo dei libri, e ne traduco, anche, dal russo, perché ho studiato russo, e poi andava avanti, e una di loro, una delle mondine, alla fine, a Cracovia, nel 2009, non subito, il giorno dopo, mi aveva detto che all’inizio pensava che io fossi un deficiente, perché le sembrava che leggessi delle stupidate in un posto dove di stupidate era meglio non dirne, dopo alla fine, mi ha detto, ho capito anche l’inizio. E io ho pensato che non sapevo quel che le era sembrato alla fine, ma quel che le era sembrato all’inizio, che io ero un deficiente, secondo me aveva ragione, avevo pensato.
E in questo discorso, un tema impegnativo come Birkenau, io mi ero detto che forse non era il caso di rimetterci dentro quella cosa con la quale iniziava il discorso del 2009, che iniziava con una premessa, una specie di scivolo, ed era la cosa che quando l’ho letto le Mondine avevan pensato che io ero un deficiente, che è una cosa che la leggo spesso, all’inizio dei discorsi, perché quando mi capita di far dei discorsi che dico che ho studiato russo, e in quasi tutti i discorsi che mi capita di fare lo dico, dopo alla fine c’è sempre qualcuno che mi chiede «Ma davvero, hai studiato russo? », «Ma come mai hai studiato russo?», allora io di solito rispondo in anticipo con un pezzetto di un romanzo che ho scritto con un mio amico che si chiama Marco Raffaini che ha studiato anche lui russo con me che è una cosa che stasera io ero indeciso se mettercela o non mettercela, dentro il discorso, come premessa, come specie di scivolo, ce la metto sempre, mi ero un po’ stufato, di mettercela, subito avevo pensato di non mettercela, ce la metto sempre, poi in un discorso che parla di Birkenau, cosa c’entra il fatto che ho studiato russo, ho pensato, non c’entra niente, anche se poi ho pensato che io, per come son fatto, per come mi conosco, secondo me io sono sicuro che qualche russo dentro il discorso poi dopo ci va a finire quindi tanto vale che lo dico subito, che poi ho pensato di non mettercela, ce la metto sempre, poi ho pensato che però, non so, perché non ce la vuoi mettere, hai paura di sembrare un deficiente? No, mi sono risposto, Allora se non hai paura, perché non ce la metti? Mi sono chiesto, Va bene, mi sono risposto, ce la metto, e allora ce la metto, e quel che ci metto è un pezzetto di un romanzo che si intitola Storia della Russia e dell’Italia che è un romanzo epistolare cioè fatto di lettere che si scambiano due che si chiamano Mario e Learco e vi leggo l’inizio di una lettera che scrive Learco a Mario e che risponde a quella domanda lì come mai hai studiato russo che dopo così non vi viene la curiosità su come mai ho studiato russo che è una curiosità che di solito viene, che è un pezzetto che mi rendo conto, non c’entra niente, però ce lo metto perché non voglio che voi pensiate che mi vergogno di esser deficiente, e il pezzetto con cui vorrei cominciare, che non è ancora l’inizio del discorso, è un’introduzione, un piccolo scivolo, e fa così:
Caro Mario,
ero lì che stavo cominciando a scriverti, volevo dirti che non capisco il motivo del tuo pessimismo in un momento che Alvise ci sta risolvendo i problemi forse sottovaluti il target, ti avrei scritto, che a te le storie della Russia di Tano Cariddi di Toto Cutugno forse a te ti sembrano poco interessanti per via che quando facevamo l’università le hai raccontate e sentite raccontare tante di quelle volte, che quando facevamo l’università tutte le volte che andavamo da qualche parte che c’era della gente che non ci conosceva dopo di solito succedeva sempre che a un certo punto una qualche figa, attratta dal nostro magnetismo animale si avvicinava cercava di attaccare bottone E voi, cosa studiate? chiedeva, Studiamo russo, rispondevamo. Russo? diceva lei. Eh, russo. Ma dài, diceva la figa, ma che interessante, oh, chiamava la gente si rivolgeva anche agli altri, loro studiano russo! Russo? si giravano gli altri si fermavano nei loro discorsi, Ma dài, dicevano, Ma che interessante, Ma lo parlate, anche? Ma ci siete stati, in Russia? Ma non c’è freddo? Ma cosa si mangia? Che allora noi, ti avrei ricordato, se le prime volte questo interesse per la millenaria cultura russa era una cosa che ci faceva piacere, che c’era scappata anche qualche fiondata, che te Pensa, dicevi, ci son quelli che vanno in Russia, per fiondare, a noi ci succede che grazie al fatto che siam stati in Russia fondiamo in Italia se le prime volte era anche piacevole, ti avrei ricordato, dopo però dopo due o tre anni di questo andiamo io mi sarei ricordato che ci eravamo un po’ rotti i maroni, di parlar sempre delle stesse cose, e che a un certo punto quando ci chiedevano Ma non c’è freddo? Freddo in Russia? rispondevamo, Ma cosa dici? Nelle stagione delle piogge tirano i monsoni siberiani non c’è freddo c’è il clima continentale come in pianura padana con in più i monsoni siberiani, gli dicevamo. E che quando ci chiedevano cosa mangiano i russi noi I bambini, rispondevamo, ti avrei ricordato, e che in generale erano buoni, dicevamo, te dicevi che soprattutto gli uzbechi e i georgiani, ti piacevano, A me piaccion di più gli armeni son più delicati, dicevo io. Solo, ti avrei detto poi dopo, la gente non si scoraggiava neanche dirgli che in Russia c’era caldo che si mangiavano i bambini Ma davvero? dicevano, Ma che interessante. Allora mi sarei ricordato che gli ultimi anni quando alle feste le fighe, attratte dal nostro magnetismo animale si avvicinavano e ci chiedevano Ma voi, cosa studiate? noi una volta avevano anche detto Noi non studiamo. Davvero? E cosa fate? Facciamo i facchini. I facchini? Eh, i facchini. Ma dài, aveva detto la figa quella volta lì, mi sarei ricordato, ma che interessante oh, aveva chiamato la gente si era rivolta anche agli altri, loro fanno i facchini! I facchini? Si eran girati gli altri si eran fermati nei loro discorsi Ma dài, avevan detto, ma che interessante, Ma esistono ancora? Ma ci siete già stati, a far dei traslochi? Ma non c’è freddo? Ma cosa mangiano, i facchini? Allora poi dopo, ti avrei scritto poi dopo, abbiamo imparato le ultime feste degli ultimi tempi dell’università in Italia quando la figa, attratta dal nostro magnetismo animale si avvicinava ci chiedeva Ma voi, cosa studiate? Economia e commercio, rispondevamo. Ah, scusate, diceva la figa.
Ecco.
Questo era la premessa, un piccolo scivolo, che rende necessaria anche una piccola precisazione.
Perché questa cosa, come vi ho detto, io la leggo quasi sempre, quando vado in giro a leggere, e l’anno scorso l’ho letta al festival di Santarcangelo, dove leggevo una cosa tutti i giorni, e come prima cosa, prima di tutto, ho fatto come stasera, ho letto questo pezzetto e il giorno dopo gli organizzatori mi han detto che quando ho detto figa per la prima volta c’è stata una mamma che si è alzata ha preso per mano la sua bambina l’ha portata via.
Che allora io il secondo giorno mi sono sentito di dire che, essendo io di Parma, noi, a Parma, figa, cioè non intendiamo proprio la figa, no, non è una sineddoche, è un intercalare, noi figa lo usiamo come intercalare, non so, se c’è caldo, noi a Parma diciamo «Figa, che caldo», oppure, se c’è freddo, noi a Parma diciamo «Figa, che freddo», oppure se non c’è né caldo né freddo, noi a Parma diciamo «Figa, che tempo», e con questo finisce la precisazione che c’era dopo la premessa che veniva prima del discorso vero e proprio che comincia adesso e si intitola:
Birkenau
discorso da pronunciare a Cracovia
il 16 marzo del 2013
nell’auditorium
del’Hotel Best Western
nell’ambito della manifestazione
Un treno per Auschwitz
organizzata dalla fondazione Fossoli
Allora di Birkenau, io, la prima cosa che mi viene da dire, di Birkeanu, è che ne so poco, fino a pochi anni fa, al 2008, che è stato l’anno che la Fondazione Fossoli mi hanno invitato la prima volta a far questo viaggio, fino ad allora, avevo già 44 anni, io non ne avevo voluto sapere, dei campi di sterminio, ogni volta che vedevo un’immagine che si riferiva a quel mondo lì, voltavo proprio le spalle, quando vedevo dei fili spinati, dei campi di sterminio, e dei gulag, che io, avendo studiato russo, son passato vicino anche a quell’altra, come dire, declinazione, di questa faccenda, i gulag, dei quali so poco anche di quelli, che uno potrebbe anche chiedersi, giustamente, come mai ne parlo, se ne so poco, be’, io ne parlo perché per me, il fatto di parlare di cose delle quali so poco, o, anche, di cose delle quali non so niente, be’ quello lì, per me, un po’, è il mio mestiere.
Che il mio mestiere, uno pensa che uno che scrive dei libri abbia un’idea alta, magari, di sé, della sua intelligenza, e può darsi che ci sia della gente anche così, e fanno benissimo, ma io mi ricordo, una quindicina di anni fa, avevo appena cominciato a scrivere, io mi ricordo ero a Parma, in centro, in mezzo alla gente, avevo sentito uno che diceva «Oh, deficiente!», e mi ero voltato, convinto che mi chiamasse me e quello lì è stato un momento che io son stato contento, che all’inizio subito io non capivo perché ero contento, a rendermi conto di avere un’autostima, se così si può dire, ai minimi storici, e dopo a pensarci io ho pensato che scrivere, per me, io per mettermi a scrivere, ero già grande, avevo più di trent’anni, per provare a scrivere ho dato le dimissioni da un lavoro normale, che facevo il responsabile amministrativo di una ditta che lavorava in Francia, e ero nel mondo, dentro un organigramma, avevo il mio ruolo preciso, ero lì, a metà strada, impegnato a salire e scrivere, per me, aveva voluto dire uscire dall’organigramma, venirne fuori, rifiutare l’idea che dovevo sforzarmi per essere più bravo, più furbo, più ricco degli altri, per me scrivere voleva anche dire, in un certo senso, avere la patente del deficiente, per questo ero contento quando mi ero girato a sentire dire «Oh, deficiente» e devo dire che, a distanza di anni sono ancora convinto che, se uno non si compiace troppo, della propria deficienza, la consapevolezza della propria deficienza è una cosa buona.
Il discrimine (o un discrimine) è forse proprio quello: rendersi conto della propria deficienza, o non rendersene conto. Che essere intelligenti, secondo me, io non so se ne esistono, di persone intelligenti.
Ma magari mi sbaglio.
E la prima volta che sono entrato a Birkenau, non ad Auschwitz, a Birkenau, ci son stati davvero dei momenti che mi veniva da voltare le spalle, come quando, dopo che una guida, senza nessuna enfasi ci aveva raccontato com’era organizzato il campo, e ci aveva detto che quelli che vedevamo, quella distesa di camini, era quel che era rimasto delle baracche, e ogni baracca ne aveva due, e non funzionavano quasi, perché non c’era niente con cui accenderli, e sembra che li avessero fatti per dimostrare che i detenuti venivano trattati bene, che stavano al caldo, e io mi ero chiesto se era vero, e se fosse stato vero sarebbe stato stranissimo il fatto che quel che era rimasto, quel che era durato più a lungo, la testimonianza, per così dire, era la cosa che non serviva, la cosa finta, mentre la cosa vera, il legno delle baracche, il legno dei letti a castello, per la maggior parte era marcita, alla fine di questa visita, stavo dicendo, dopo che ci avevano spiegato come era organizzato il campo, e da dove arrivavano i deportati, dove si fermavano, e le strade che prendevano, la maggior parte verso le camere a gas, gli altri verso le baracche, dopo che avevamo visto le foto dei deportati in divisa, quella famosa, a strisce, con i triangoli di colori diversi a seconda delle categorie, dopo che avevamo visto i forni crematori, che erano gli strumenti per lo smaltimento dei rifiuti, in un certo senso, dopo che avevi in testa tutta questa metafisica dell’orrore, che Birkenau, non Auschwitz, Birkenau, aveva una cosa stranissima, che visto da fuori poteva essere qualsiasi cosa, una fabbrica, una fattoria modello, un villaggio vacanze, e aveva un ordine, una specie di incanto geometrico, tedesco, anche nel nome, Birkenau, che dava ai sensi l’idea di qualcosa di leggero, di pulito, di buono, e in era Birkenau, dopo tutte queste cose, dicevo, il primo anno, io mi son trovato davanti a un muro con le fotografie dei deportati, quelle che si erano portati loro da casa, fotografie della vita di prima, e mi ero accorto che quella gente lì era della gente normale, come me, che fumavan la pipa, che andavano al mare, che stavano sopra le sdraio con degli accappatoi bianchi, che guardavano in macchina trattenendo un sorriso, che facevano il bagno nel fiume con i mutandoni, che andavano a cavallo, sulle altalene, che si vestivano bene per andar dal fotografo, ecco lì, allora, mi era venuto l’impulso di voltare le spalle, che in quelle cose normali, banali, la pipa, le altalene, avevo ritrovato le cose normali, banali, di casa mia, e mi eran venute in mente tre cose, uno scrittore francese, Georges Perec, il cui padre Icek Perec, ebreo polacco, è morto in guerra e la cui madre Cyrla Szulewicz, ebrea polacca, è morta ad Auschzitz, che una volta ha scritto «Il tempo che passa (la mia Storia) deposita residui che si accumulano: foto, disegni, feltri di pennarello da tempo asciugati, cartelline, vuoti a perdere e vuoti a rendere, imballaggi di sigari, scatole, gomme, cartoline, libri, polvere e soprammobili: ed quel che io chiamo la mia fortuna», ha scritto Perec, e mi è tornato in mente a Birkenau, e poi mi è tornata in mente mia mamma, che una volta, eravamo a casa sua a Basilicanova, in provincia di Parma, e lei aveva una scatola di latta di quelle grosse, che ci si tenevano dentro i biscotti, e era piena di bottoni, e io le ho chiesto, un po’ prendendola in giro, a me ogni tanto mia mamma mi viene da prenderla in giro, «Hai un po’ di bottoni?», le ho chiesto, e lei mi ha guardato mi ha riposto, seria, «C’è tutta la storia della nostra famiglia, in quella scatola lì» e io mi sono sentito così coglione, e ho pensato che era vero, che quei bottoni lì, se avessero potuto parlare, avrebbero raccontato tutta la storia della nostra famiglia, e poi, la terza e ultima cosa che mi viene in mente, che non mi è venuta in mente allora nel 2009 perché allora ancora non c’era mi viene in mente adesso nel 2013 nel momento in cui scrivo questo discorso è un film Nico Guidetti e Matthias Durchfeld hanno fatto un film, che si intitola Il violino di Cervarolo, che racconta del processo, che c’è stato recentemente, a Verona, nel 2012, per la strage di Cervarolo del 20 marzo del 1944, quando 24 persone furono messe in fila sull’aia di quel paesino dell’appennino reggiano e uccise dai nazisti.
Una signora, che all’epoca era una bambina e che, in previsione del pericolo, era stata mandata via da Cervarolo, racconta al processo di quando è tornata e, dopo che il che il corpo del padre era stato riesumato, avendolo trovato in avanzato stato di decomposizione, non sapendo come fare altrimenti, l’ha riconosciuto da un bottone. E ai giudici ha detto tirando fuori il borsellino, «Ce l’ho qui, quel bottone».
Ecco. Noi tutti crediamo di sapere cos’è un bottone, ma di fronte a quel bottone, ecco, quel bottone non era un bottone, era un bottone che se avesse potuto parlare, ci avrebbe raccontato la nostra storia, e la storia straordinaria di quel bottone, se noi fossimo stati lì in quell’aria di tribunale di Verona, nel 2012, noi tutti credo, ci saremmo piegati su quel bottone non come degli esperti di bottoni, non come della gente che sa benissimo cosa sono i bottoni, ma come della gente che, alla vista di un bottone, sgrana gli occhi come se non avesse mai visto un bottone in vita sua.
Ci saremmo comportati, lasciatemelo dire, come dei deficienti.
E, forse sono io, ma mi vien quasi da dire che io, nella mia vita, i momenti che mi comporto da deficiente, sono i momenti che son più intelligente, anche se poi, non so, per esempio, io una volta ogni due mesi, devo pulire le scale del mio palazzo. Che poi non è un palazzo, due piani. È una casa. Una casa. Costruita agli inizi del novecento. Adesso ci abitano sette famiglie. È una casa, sulla strada. Lo facciamo a turno, una famiglia a settimana. Scopo e passo lo straccio, a me piace molto passare lo straccio, e di solito, quando pulisco le scale, mi vien da pensare a una volta, dieci anni fa, quando avevo appena firmato il primo contratto con Einaudi, e ero appena venuto a abitare a Bologna, e ogni tanto lavavo i piatti, e una volta che lavavo i piatti mi ricordo avevo pensato: «Guardalo qua, uno che sta pubblicare per Einaudi, guardalo qua a lavare i piatti. Che umiltà», avevo pensato. Poi mi ero fermato nel mio lavaggio dei piatti e avevo pensato: «Ma sei deficiente?». Ecco in quel momento lì, non ero stato particolarmente intelligente, nel mio comportamento da deficiente, a adesso, non che pensi così, però tutte le volte che son dietro lavare le scale, non che lo pensi, ho sotto traccia dentro al cervello una specie di benessere che viene da due cose, credo, la prima cosa che mi piace un condominio, non è un condominio, è una casa, mi piace un condominio dove i condomini ci pensano loro, alle pulizie, le fanno loro, la seconda cosa che mi piaceva pensare che io, che sono uno che pubblica per Einaudi, una volta ogni due mesi prendo la scopa e lo straccio e mi metto a pulire le scale di casa mia. Che umiltà, penso. Cioè non che lo pensi, ce l’ho un po’ lì, sottotraccia, e un po’ lì sottotraccia appena dietro resta l’altro pensiero: “Ma sei deficiente?”. E c’è una specie di doppio compiacimento, prima di essere umile, e poi di essere deficiente.
Però, devo dire, quei momenti lì che guardi le cose con quell’avidità lì del deficiente, cioè le guardi come se le vedessi per la prima volta, come se non avessi mai visto un bottone, ecco quella cosa lì a me è successa anche a Birkenau, quando per esempio, durante la cerimonia ufficiale, il 26 gennaio del 2009, i primi che si sono avvicinati al monumento che c’è alla fine del viale di Birkenau, per deporre le loro corone di fiori, era un gruppetto di dieci–dodici ex deportati, dei vecchietti, e delle vecchiette, con i fazzoletti bianco–azzurri al collo, e uno camminava con le stampelle, e facevan fatica, e uno ha fatto cadere il lumino che aveva, e a me è venuto da pensare che bisognava far delle fotografie a quelle facce lì e metterle in tutte le case e negli uffici pubblici al posto delle foto dei presidenti della repubblica, secondo me.
E quando poi, tra tutte le altre delegazioni ufficiali degli stati che si son succedute, rappresentanti dei paesi che hanno avuto delle vittime ad Auschwitz, armeni, croati, ungheresi, francesi, slovacchi, maltesi, cechi, serbi, svedesi, tedeschi, sloveni e altri ancora (l’Italia non era rappresentata), si sono avvicinati due signori, rappresentanti del popolo rom, che avevan due cappelli a tesa larga, come si dice, un po’ da cow boy, e uno dei due aveva il pizzetto e il codino, e un’aria un po’ da puttaniere, e uno si immaginava una Mercedes un po’ impolverata che l’aspettava fuori, e vedere la proprietà con la quale quei due stavan lì dentro, era una cosa che riempiva gli occhi, e non ti stancavi mai di guardarli, come se non avessi mai visto in vita tua dei bottoni.
E una volta, sempre nel 2009, quando ero uscito dalla sauna di Birkenau, che è quel posto dove ci sono le fotografie, e avevo guardato lontano, fuori dai confini del campo, e avevo visto una casa, che sembrava recente, costruita al massimo negli anni sessanta, e avevo pensato “Ma questa gente qua come fa, a vivere qui?” E dopo, uscito dal campo, era passato un autobus, polacco, pieno di polacchi, com’è naturale, che abitavano lì, e che usavan quell’autobus per andare a casa, o per andare in città, e mi guardavano, e io li guardavo, e mi sembrava stranissima, la loro tranquillità: passavan davanti a Birkenau, come se niente fosse, come se fosse un paesaggio abitale, come se loro lo sapessero benissimo, cosa sono i bottoni.
E il giorno dopo, quando siamo tornati a Birkenau dopo essere stati ad Auschwitz, ad Auschwitz uno, che è tutto diverso, vedrete, è un museo, e dove mi era successo ancora di voltare le spalle dopo che la nostra guida polacca ci aveva indicato una specie di baldacchino di legno e ci aveva detto, in ottimo italiano, e con un tono deciso che tradiva una certa soddisfazione, che l’ex direttore nazista del campo, Rudolf Franz Höss, dopo essere stato arrestato in Germania, dove si era nascosto sotto falso nome, era stato trasferito in Polonia e lì processato e condannato all’impiccagione e la sentenza era stata eseguita ad Auschwitz ed era stata costruita appositamente una forca «Che è quella lì», ci aveva detto la nostra guida indicando il baldacchino, quel pomeriggio, quando siamo tornati poi a Birkenau, nel 2009, io mi sono trovato a entrare nel campo di Birkenau parlando di letteratura italiana con Andrea Bajani e e senza far caso per niente al posto in cui eravamo, l’avevo visto il giorno prima e era già un paesaggio abituale, mi comportavo come se lo sapessi benissimo, cosa sono i bottoni, ero già fin troppo esperto, di Birkenau, dopo un giorno, io che il giorno prima mi meravigliavo dei polacchi.
E allora, non lo so, io penso che, è difficile, non è facile, ma a me sembra che sarebbe una gran cosa riuscire a guardare le cose con quell’attenzione lì, da deficienti, come se le si vedesse per la prima volta. Una volta, in un suo articolo, Tolstoj, il grande scrittore dell’ottocento si chiede ma perché denudare degli uomini, gettarli a terra e colpirli sulla schiena con le verghe, e colpirli ancora sulle natiche nude? Perché ricorrere a questo metodo stupido e barbaro piuttosto che a un altro, per causare dolore a un uomo? Per esempio, perché non gli si conficcano degli aghi nelle spalle o in un’altra parte del corpo, perché non gli si serrano in ceppi le mani o i piedi, o non si inventa qualche altro sistema analogo?
Questa pratica descritta da Tolstoj era molto comune in Russia, alla sua epoca. Denudare degli uomini, gettarli a terra, e colpirli sulla schiena con le verghe, e poi colpirli sulle natiche nude, corrispondeva alla pratica della fustigazione, che era una pena accessoria al carcere e era una pena che qualsiasi padrone poteva comminare, senza processo, ai propri servi, e l’ottanta per cento della popolazione russa, all’epoca, era in stato di servitù della gleba, erano schiavi, e il dibattito sulla liceità della fustigazione era molto acceso, come si dice, e se Se Tolstoj avesse detto Perché fustigare degli uomini, tutti avrebbero capito di cosa si trattava, ma la fustigazione, la cosa in sé, sarebbe passata davanti ai lettori come imballata. Ognuno avrebbe richiamato il proprio concetto di fustigazione, avrebbe magari ricordato le discussioni sulla liceità di fustigare i servi della gleba, avrebbe ricordato la propria opinione in proposito e avrebbe pensato Ecco vedi, Tolstoj, rispetto alla fustigazione la pensa così. Invece Tolstoj, facendosi stupido, o deficiente, guardando alla fustigazione come se non la conoscesse, come se la vedesse per la prima volta, vedendo nei fustigati non dei fustigati ma degli uomini denudati, gettati a terra, colpiti sulla schiena con le verghe e poi colpiti sulle natiche nude, Tolstoj risuscita, nei suoi lettori, la fustigazione, gliela rende sensibile, gliela fa vedere come se fosse nuova, gliela toglie dall’imballaggio, e il lettore non ha tempo di pensare alle sue convinzioni, ai dibattiti che ha sentito, ha gli occhi pieni di questi uomini denudati, gettati a terra e colpiti sulla schiena con le verghe e colpiti ancora sulle natiche nude.
Ecco questa pratica, che il critico russo Šklovksij ha definito Straniamento, consiste nel descrivere le cose come se le si vedesse per la prima volta, e a pensarci, è vero, Tolstoj, in quel pezzo lì sulla fustigazione, è come se non conoscesse nemmeno il concetto di fustigazione, e allora è necessario descriverlo, farlo saltar fuori, guardare questo processo con stupore, e scrivere, in fondo, secondo me, può esser forse semplicemente quello, farsi crescere dentro la pancia una piccola macchina per lo stupore, e questa pratica, dicevo, lo straniamento, vedere le cose come se le si vedesse per la prima volta, fare finta di non consocerle, non è solo uno strategia letteraria, è una cosa che succede anche nella vita di tutti i giorni. C’è una canzone dove l’io narrante, quello che parla, è un babbo che si rivolge a suo figlio adolescente e gli dice Oh, son tuo padre, non son mica un mobile. Ecco a me, e credo a tutti noi, è successo molte volte di girare intorno ai miei famigliari come se fossero dei mobili, delle rotatorie, come se avessero un imballaggio, di riconoscerli senza vederli, eppure ogni tanto, mi ricordo in particolare una volta, io ho vissuto per un po’ di anni insieme a mia nonna, mia nonna è entrata all’improvviso nella stanza io non me l’aspettavo, l’ho vista d’un tratto senza imballaggio da nonna, e mi sono accorto che era una donna, che le scorreva il sangue nelle vene e è stato un momento memorabile, ho visto mia nonna come se la vedessi per la prima volta, che è una cosa che non succede quasi a nessuno, è successa a un vostro concittadino, nel senso di un modenese, uno scrittore che si chiama Antonio Delfini con suo babbo, ha visto suo babbo per la prima volta quando suo babbo era già morto, ed era più giovane di lui, e questa cosa stupefacente la racconta in un libro stranissimo che si intitola Modena 1831 città della Chartreuse dove dice tra le altre cose che il il protagonista della Certosa di Parma, Fabrizio Del Dongo, non era ispirato a un parmigiano, era ispirato a un modenese, anzi, a un carpigiano, anzi, a uno di Migliarina, Ciro Menotti.
Ecco questa cosa qua a me mi colpisce perché un po’ di tempo fa, ormai sarà vent’anni fa, mi trovavo a Mosca, sulla piazza Rossa, c’era della gente che con una gita organizzata stavano per visitare le chiese del Cremlino, con una guida russa, io ho chiesto se mi potevo unire, «Certo, mi ha detto la guida, di dov’è lei?» «Sono italiano». «Sì ma, italiano di dove?». «Italiano di Parma». «Ah, Parma, che città meravigliosa», mi ha detto la guida. «Ah, le ho detto io, c’è stata?». «No, mi ha detto lei, ma ho letto La certosa di Parma, ha detto».
Ecco, la cosa strana, è che, andarci a vedere, c’è un saggio di Magnagni, sulla certosa di Parma, dove si vede che Stendhal, la vicenda storica dalla quale trae espunto, era una vicenda romana, e che lui la voleva collocare in un piccolo stato, perché di mestiere faceva il diplomatico e non voleva aver guai con degli stati grandi, e andavan bene sia Modena che Lucca che Parma, solo che Modena e Lucca secondo lui poi i duci di Modena e Lucca magari s’arrabbiavano, invece Parma andava bene perché era uno staterello che contava poco e a Parma c’era la duchessa Maria Luigia che lui, Stendhal, che era devoto a Napoleone, la chiamava La femme de menage, se non ricordo male, e non la poteva sopportare perché aveva ripudiato suo marito dopo che era caduto in disgrazia.
Difatti, andare a leggere il romanzo, Parma sembra il buco del culo del mondo, un posto con dei governanti ignoranti, corrotti, dove non succede mai niente, il regno della noia, dell’ignoranza e dell’ipocrisia e una cosa bellissima è che oggi, passati quasi duecento anni, quel romanzo lì è una delle principali glorie di Parma nel mondo e l’albergo più importante di Parma si chiama Hotel Stendhal, o perlomeno così si è chiamato per molti anni adesso ultimamente ne han fatti dei nuovi che son più importanti di lui.
Ancora più incredibile è il fatto che uno di Modena dica «No, quel posto lì descritto da Stendhal, quel posto schifoso lì, non è Parma, è Modena», ma Delfini era bello per quello, che era un marziano, e quel libro lì, Modena 1831 città della Chartreuse c’è una cosa, subito all’ inizio, che se mi permettete ve la leggo, è brevissima, e fa così:
Il giorno 7 febbraio venivo chiamato al telefono. Mi si diceva che la Mamma era gravissima. Invece era morta la sera prima.
La sera del giorno 6 ero stato in trattoria con due cittadini di quella città alla quale avevo inteso, e intendevo, portar via il romanzo per cui va celebre in tutto il mondo.
Durante il viaggio, sul treno che mi portava a Modena, il mio pensiero non esisteva più. La mia testa era imbottita, oltre che di dolore, dell’immagine e delle immagini di Colei che era stata la Mia mamma, di colei che mi aveva insegnato nella vita esserci una sola cosa che abbia valore: la Grazia. /…/
La mamma era stata, oltre che mia madre, la cugina più vicina della mia parentela. Essa era stata la mia sola vera Fidanzata. Avrei dovuto e voluto essere il Suo custode. Se ho sempre mancato al mio dovere, niente di male per Lei. Il Suo custode fu sempre presente in Lei stessa. C’era del resto Chi L’aspettava. Il papà, morto il 28 giugno 1909, la stava aspettando da 53 anni. Sorridente, dolce, scanzonato, aspettava la Mamma. Intatto nel viso, nel corpo, nella barba, nei capelli (così come risultò all’apertura della cassa, nel cimitero di Modena, la mattina del 10 febbraio 1962, davanti a me e al mio giovane e carissimo cugino Paolo Tardini e al direttore del cimitero) egli si lasciò vedere da me per la prima volta nella mia vita. Non avevo mai avuto un ricordo visivo di lui. Lui, mio padre, aveva 33 anni; e io, suo figlio, cinquantaquattro. Unico al mondo, io credo, ho visto per la prima volta il papà: lui, in età di un mio figlio; io, in età di suo padre!
Ecco, io non so voi come la pensate, per conto mio, uno che scrive delle cose così può dire anche che Pierre Bezuchov, il protagonista di Guerra e Pace, è di Sassuolo va bene lo stesso.
Ma tornando al nostro discorso voi forse sapete che ci sono una decina di voi che si sono iscritti a un seminario di descrizione, proveranno a raccontare, per iscritto, quello che vedranno in questi giorni, han già cominciato, descriveranno anche il viaggio in treno e anche questa serata, e anche domani, soprattutto, e dopodomani, Birkenau e Auschwitz, e poi il viaggio di ritorno, e anche l’albergo, e le cene, tutto, proveranno a raccontare tutto questo viaggio e Carlo Lucarelli e io stiamo provando a dar loro una mano che quella però è una questione, è possibile insegnare a scrivere o uno deve imparare da solo è una capacità innata, e, soprattutto, è possibile descrivere una cosa così grande, così enorme come Auschwitz e Birkenau?
Allora io, se è possibile insegnare a scrivere, devo dire, non lo so, però mi ricordo che quand’ero un ragazzo, che avevo forse 14 o 15 anni, a me piaceva disegnare, e avevo comprato i primi due numeri di quelle dispense che vendono in edicola, un corso di disegno, di quelle cose, come le enciclopedie, che si comprano solo i primi numeri e nel primo numero, mi ricordo, io mi immaginavo che mi avrebbero insegnato la tecnica, i chiaroscuro, le ombre quella roba lì e infatti insegnavano anche quella roba lì ma loro, la prima cosa che c’era scritto, era il fatto che sì, avrebbero insegnato la tecnica il chiaroscuro eccetera eccetera ma soprattutto, dicevano loro, quello che volevano insegnare a quelli che avevano fatto quel corso, sarebbe stata la cosa più difficile da fare, per imparare a disegnare, e, secondo loro, la cosa più difficile da fare, per imparare a disegnare, era guardare.
Allora io in quel momento lì mi ero sentito imbrogliato. “Guardare?”, avevo pensato, “ma io son capace, di guardare”, mi ero anche un po’ offeso, solo che poi, ero andato avanti a leggere, e loro mi proponevano di fare una prova, quelli che avevano scritto quel manuale di disegno. «Provate a pensare a una persona che vedete spesso e che non è con voi in questo momento, provate a pensare alla sua testa, che forma ha? È più ovale o tonda? La linea delle orecchi è sopra la linea quella delle sopracciglia? Che distanza c’è tra l’attaccatura dei capelli e la radice del naso? E tra il naso e il labbro superiore? Gli occhi ce li ha distanziati o ravvicinati?». Ecco io avevo pensato al mio compagno di banco, che si chiama Bruno Pelosi, e non avrei saputo rispondere a nessuna di queste domande. Avrei saputo soltanto dire che Bruno era biondo e aveva gli occhi azzurro. Ero così convinto di sapere com’era, il mio compagno di banco, Bruno Pelosi, che non lo guardavo, Bruno Pelosi mi di fianco, tutti i giorni, nel suo imballaggio da compagno di banco. E il giorno dopo, l’avevo guardato, avevo visto Bruno Pelosi. L’avevo visto fuori dall’imballaggio, aveva gli occhi molto ravvicinati, forse è la persona con gli occhi più ravvicinati che abbia conosciuto in vita mia, ma forse noi, che c’è una bibliotecaria, in provincia di Milano, che ho conosciuto qualche settimana fa, che secondo me ha gli occhi ancora più ravvicinati.
Ecco questa cosa, di esser così convinti di conoscere una cosa che si smette di guardarla non succede soltanto coi compagni di banco, o con i parenti, succede anche con le cose che studiamo. Io per esempio quando facevo la tesi, ho fatto la tesi su Velimir Chlebnikov, che Dio lo benedica, che è un poeta russo che una sua poesia comincia così: «Le ragazze, quelle che camminano, con stivali di occhi neri, sui fiori del mio cuore», ho fatto una tesi su Chlebnikov e quando scrivevo la tesi mi consideravo un esperto di Chlebnikov, e se sentivo qualcun altro che parlava di Chlebnikov, non lo stavo mica a sentire. Cercavo di interromperlo subito, e se continuava mi veniva proprio l’istinto fisico di andare via e intanto pensavo “Come si permette, questo, di parlare di Chlebnikov, che l’esperto di Chlebnikov sono io?” Cioè a me, dopo che avevo studiato le cose di Chlebnikov per qualche mese, mi eran cresciuti come dei paraurti retrattili davanti e didietro che saltavano fuori ogni volta che veniva fuori l’argomento Chlebnikov e che mi impedivano di avvicinarmi e di imparare di più, ero talmente convinto di saperne, su Chlebnikov, che su questo argomento ero diventato cieco, e sordo, non muto, che ne parlavo continuamente anche a della gente che, poveretti, la poesia d’avanguardia dei primi anni del novecento nella Russia presovietica e sovietica non era stranamente un argomento che li appassionava, cioè io, all’epoca, quando facevo la tesi su Chlebnikov, con tutto che è stato un periodo bellissimo, che avere a che fare con i testi di Chlebnikov è veramente una fortuna e un privilegio, che prima che nascesse mia figlia io ho sempre pensato che quello è stato il momento più bello della mia vita, ecco, nonostante tutte queste cose belle, io ero un deficiente, ma non un deficiente di quella deficienza bella di uno che ha rinunciato a essere intelligente, no, lì era una deficienza brutta che dipendeva dal fatto che io pensavo di esser molto intelligente e la mia convinzione di essere molto intelligente e molto colto e molto preparato mi impediva di vedere le cose.
E questa cosa, forse mi sbaglio, ma una cosa del genere, forse, è successa anche al comandante di Auschwitz. L’ex comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, quello che è stato impiccato alla forca che la guida di Auschwitz che avevamo nel 2009 ha descritto con tanto orgoglio, ecco lui, Rudolf Höss, in attesa della sentenza ha scritto le sue memorie, che si intitolano, appunto, Comandante ad Auschwitz e che, in Italia, sono pubblicate da Einaudi.
Höss non racconta solo di Auschwitz, racconta tutta la propria biografia, dall’infanzia, e racconta anche di quandoè stato in prigione per un omicidio politico, e di quando, dopo che il nazismo è andato al potere, si è arruolato nelle SS e è andato a lavorare a Dachau, che non era un campo di concentramento, ma un campo di lavoro, dove venivano reclusi gli omosessuali, i comunisti, gli antisociali, i testimoni di Geova, tutti quelli che venivano considerati, se ho capito bene, pericolosi per la società, da rieducare, e no avevano una condanna a tempo, cioè non c’era una pena temporale, non so, cinque anni, no, dovevano stare in quel campo lì e lavorare in quel campo lì fino a quando non fossero guariti dal loro difetto, che sarebbe stata l’omosessualità, o il comunismo, o l’antisocialità o la fede in Geova, e chi decideva, se non sbaglio, era il capo del campo, e la scritta che c’era all’ingresso, «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi, non era per deridere gli internati, era vera, in un certo senso, attraverso il lavoro quei carcerati potevano ottenere la libertà ed è in memoria di quel campo e di quell’esperienza, ci ha lavorato dal 34 al 38, che quando Höss viene trasferito ad Auschwitz, ha fatto fare una scritta identica all’ingresso di Auschwitz, che, a proposito di quella scritta, apro una breve parentesi, un po’ di tempo fa, qualche anno fa, a Chieti, il presidente della Provincia ha promosso una campagna per l’impiego che aveva questo slogan: «Il lavoro rende liberi».
Il depliant che pubblicizzava questa campagna aveva una nota del presidente che diceva «Non è una frase mia, non mi ricordo dove l’ho sentita, l’ho sentita da qualche parte e mi è piaciuta moltissimo e credo che sia proprio d’attualità».
Dopo quando gli han fatto notare che era la frase che era scritta sui cancelli di Auschwitz, lui ha detto «Ah, ecco, dove l’avevo sentita». E comunque si è rifiutato di chiedere scusa perché secondo lui, quella frase lì, al di là del fatto di Auschwitz, secondo lui era proprio una bella frase. Questo a proposito di deficienza, chiusa la parentesi.
Dicevamo che Höss, il comandante del campo di Auschwitz, nella sua autobiografia, a proposito di quel periodo dove era SS nel campo di lavoro di Dachau, scrive: «Ho un ricordo molto vivo della prima punizione corporale alla quale assistetti. Secondo le disposizioni di Eicke, a queste punizioni doveva assistere almeno a una compagnia di SS. Due prigionieri che avevano trafugato delle sigarette al deposito, erano stati condannati a ventiquattro frustate. La truppa venne schierata in quadrato aperto, armata; nel mezzo, il ceppo a cui legare i condannati.
Questi vennero condotti lì dai Blockführer. Appena giunse il comandante, i sottocomandanti di campo e il comandante di compagnia gli fecero rapporto. Il Rapportführer lesse la sentenza, e il primo prigioniero, un piccolo, irriducibile fannullone, dovette chinarsi sul ceppo. Due militi gli tenevano ferme la testa e le braccia, e due Blockführer eseguirono la sentenza, un colpo dopo l’altro. Il prigioniero non emise un grido. L’altro, invece, un politico grande e grosso, fin dalla prima frustata cominciò a urlare selvaggiamente, tentando di divincolarsi. Continuò a urlare così fino alla fine, sebbene il comandante gli avesse gridato più volte di smetterla. Quanto a me, stando in prima fila, fui costretto a guardare l’intero spettacolo.
Dico che fui costretto, perché se fossi stato in una delle file posteriori non avrei certo guardato. Quando l’uomo cominciò a urlare, provai ad un tempo freddo e caldo, e l’intero spettacolo mi sconvolse, del resto, fin dal primo istante. Più tardi, all’inizio della guerra, assistendo alla prima esecuzione, non provai lo stesso orrore di questa punizione corporale, ma non saprei certo spiegare il perché».
Ecco, secondo me, Höss, quella punizione lì l’aveva vista per la prima volta, era stato costretto a vederla come se non la conoscesse, mentre più avanti, «quando divenni comandante, scrive, e quindi responsabile io stesso delle punizioni da infliggere, fui presente assai di rado». Ecco, non le guardava, dopo un po’, non le guardava, non le guardava più. Ecco voi, domani, secondo me, avete, se posso permettermi, un privilegio, che vedrete Birkenau per la prima volta nella vostra vita, e io, dopo fate come volete, ma io credo che vi convenga provare a guardarlo da deficienti, con gli occhi del deficiente che vive dentro di voi, se sapete qualcosa, per le due ore che sarete lì, al mattino, dimenticatevelo, guardate, usate gli occhi, sentite gli odori, sentite quel che vi dicono le guide come se fosse la prima volta che sentite quelle cose, fate funzionare quella macchina dello stupore che avete, tutti, dentro la pancia.
Poi c’è un’altra cosa, della quale ha parlato Carlo Lucarelli, gli anni scorsi, il punto di rottura, il fatto di commuoversi, o di non commuoversi, che uno magari non si commuove e si chiede Ma come mai non mi sono commosso, e lì c’è il ragionamento, che fa Carlo, sul punto di rottura, che è più bravo lui a farlo, lascio che lo faccia lui, domani, io volevo prendere in considerazione il punto di vista contrario, di chi si commuove ma fa resistenza, alla commozione, perché piangere, a me quando ero piccolo mi hanno insegnato che gli uomini non piangono.
Ecco, io, devo dire, non ci credo più. E non ci credo più per via che qualche mese fa, in una biblioteca di Bologna, ho sentito un grande raccontatore di favole, Faeti, che raccontava di una poesia di Gianni Rodari sul diritto dei bambini di piangere. E da quando ho sentito parlare di questa cosa, del diritto dei bambini di piangere, tutte le volte che poi ho sentito un bambino che piangeva, a me mi viene in mente quella poesia di Rodari e pensavo che fa bene, a piangere. E quando quest’estate, a Mantova, ho incontrato Giulia Maldifassi, della Feltinelli, che mi ha parlato della mia amica Annalisa, che un anno prima, era morta di tumore, a poco più di quarant’anni, con due bambini piccoli, una di cinque e uno di nove anni, un tumore in bocca “Di solito viene agli alcolizzati anziani”, mi aveva detto cinque anni prima, quando mi aveva raccontato quello che le stava succedendo, prima della prima operazione che le avevano fatto, gliene avevano fatte poi altre quattro, e lei era praticamente astemia, e aveva, allora, meno di quarant’anni e la cosa che le premeva di più, nel corso della sua malattia, era continuare a lavorare, e aveva lavorato quasi sempre, prima da casa, poi in casa editrice, poi ancora da casa, poi ancora in casa editrice, lavorava in Feltrinelli e avevamo fatto cinque libri insieme e mi aveva ricordato mio babbo, che era morto di tumore ai polmoni nel 1999, aveva quasi settantanni, e quando pensava a una possibile guarigione, la cosa che lo faceva star bene, era l’idea che sarebbe tornato su un cantiere, mio babbo lavorava sui cantieri, a lavorare coi mandarini, lui i meridionali li chiamava mandarini. E mi piaceva moltissimo il modo in cui la mia amica Annalisa aveva parlato, in questi anni, del suo tumore. Era come se, con l’accanirsi della malattia, si accanisse anche lei, sempre di più, nella sua resistenza, e mi aveva fatto venire in mente (e gliel’avevo detto, una volta) quando nella Leningrado assediata dai nazisti c’era stata, il 5 marzo del 1942, la prima della settima sinfonia di Šostakovič.
Come per dire: “Voi ci assediate? Voi pensate di ridurci alla fame? E noi ci mettiamo i nostri vestiti migliori, e andiamo nel nostro migliore teatro a sentire eseguire dai nostri migliori musicisti l’ultima sinfonia del nostro migliore compositore”.
E quando Giulia Maldifassi mi aveva parlato di Annalisa, e mi aveva detto una cosa bellissima, che mi aveva riempito gli occhi di lacrime, poi mi ricordo mi ha detto Non volevo farti piangere, e io mi ricordo le ho detto «No, io ho diritto, di piangere», e questa cosa gliel’ho detto per via di quella poesia lì di Rodari, perché io, devo dire, le poesie, e i romanzi, secondo me, io non pretendo che sia così per tutti, ma se devo dire, da un punto di vista indiviuale, per me sono quelle le cose che cambiano i miei comportamenti, non le leggi, non i regolamenti, no, le poesie e i romanzi che mi muovono da dentro di me.
Qualche mese, fa per esempio ho visto Diario di un pazzo, di, al Teatro Parenti, di Milano, il racconto di Gogol’, messo in scena da Roberto De Francesco per la regia di Andrea Renzi, e ha ricominciato a muoversi nella mia testa una frase che vive con me da una ventina d’anni: «E tutto questo, credo, succede perché gli uomini credono che il cervello umano si trovi nella testa; nient’affatto: lo porta il vento dalle parti del mar Caspio».
E quando poi, in quello stesso periodo, per via del fatto che ho studiato russo, mi hanno chiesto un commento sulle elezioni russe, in Russia si è votato, l’anno scorso, e hanno rieletto Putin, a me è tornata in mente una cosa che ci era arrivata, nella mia testa, pochi giorni prima, cioè che io, in Emilia, non ero governato dalla giunta regionale emiliana, né dalla giunta comunale di Casalecchio di Reno, che è il posto dove abito, né son stato governato da quella di Parma, che è il posto dove ho abitato per tantissimo tempo.
Io, a ripensare al “Maestro e Margherita” di Bulgakov, che nelle prime pagine c’è una signora che ha un chiosco di bevande nel centro di Mosca e apre due succhi di albicocca e intorno si spande odore di parrucchiera, e io, da quando ho letto quella cosa lì, tutte le volte che sento odore di parrucchiera penso al “Maestro e Margherita”, e se non avessi letto “Il maestro e Margherita” probabilmente non avrei mai riconosciuto, nella mia vita, l’odore di parrucchiera, o a ripensare alle poesie di Chlebnikov, e “le ragazze, quelle che camminano, con stivali di occhi neri, sui fiori del mio cuore”, o alle cose che ha scritto Charms, e “prova a restare indifferente, quando finiscono i soldi”, o alle opere di Learco Pignagnoli, filosofo emiliano, e a tutte le volte che mi è tornato in mente che “tranne me e te, il mondo è pieno di gente strana, e poi anche te sei un po’ strano”, a me mi è venuto da pensare che io, invece che dai vari governi Pentapartito o monocolore che si dice si siano alternati alla guida del paese negli anni della mia adolescenza e della mia giovinezza, io, piuttosto che da loro, sono stato governato da Bulgakov, da Chlebnikov, da Charms, da Mandelstam, da Blok, da Puskin, da Anna Achmatova, da Lev Tolstoj, da Gogol’, da Dostoevskij, da Venedikt Erofeev, da Josif Brodskij, da Learco Pignagnoli, da Ivan Gonciarov, e sono stato, a volte, per degli attimi, per dei giorni, per dei mesi, un suddito felice e riconoscente.
Allora per me, e per qualche altro emiliano, penso, e magari anche per qualche non emiliano, un evento politico più importante delle elezioni di Putin sarebbe che qualcuno, da qualche parte, in Russia, o in Ucraina, a Kaluga, o a San Pietroburgo, o a Rostov sul Don, o a Volgograd, di notte, nel suo appartamento ancora sovietico, uno che non sappiamo neanche come si chiama, e che fa, probabilmente, un mestiere normale, come ispettore delle mense scolastiche, o qualcosa del genere, sarebbe importante che continuasse a scrivere il romanzo al quale sta lavorando da dei mesi, che continuasse a rubare tempo al sonno per tirare fuori dalla sua pancia il romanzo destinato a governarci, noi emiliani, per i prossimi anni, e a fare di nuovo, di noi emiliani, e forse di qualche altro non emiliano, dei sudditi felici e riconoscenti, speriamo, speriamo.
E l’ultima cosa che voglio dire ha a che fare con una cosa che ho sentito dir spesso, in questi anni che son venuto qui, cioè che voi, cioè noi, ma soprattutto voi, che siete giovani, sareste dei testimoni, cioè che il valore di questo viaggio è che voi adesso tornate in Italia, e, se incontrate dei negazionisti, della gente che dice che i campi di sterminio non sono esistiti, testimoniate che invece sono esistiti, che il male assoluto, il nazismo e la shoah, sono esistiti. Ecco. Io, non lo so. Cioè io ho cinquant’anni, ormai, negazionisti non ne ho mai incontrati; secondi me i negazionisti, non dico che non ci siano, ci sono, ma fanno molto più rumore fantasmatico del rumore reale che riescono a fare, cioè sono più i negazionisti nella nostra testa dei negazionisti veri, secondo me, e il valore di questo viaggio, per quel che capisco io, non è di mettere in circolo ogni anno 700 persone che possono contraddire quelli che, eventualmente, neghino quel che è successo qui in Polonia 70 anni fa, secondo me il valore di questo viaggio è che ci son 700 persone che quando tornano in Italia hanno più strumenti per capire quel che succede in Italia adesso.
A me, per esempio, dopo che ho fatto questo viaggio la prima volta, e ho sentito la dottoressa che c’era sul treno che parlava della sua esperienza nei centri di permanenza temporanea, che oggi si chiamano Centri di Identificazione e Espulsione, e sono posti dove quelli che ci son dentro prendono delle lamette da barba, le avvolgono nella stagnola, avvolgono lametta e stagnola nella mollica, mangiano il tutto, e poi vanno dal direttore del campo e dicono quello che han fatto, e siccome i succhi gastrici nel giro di qualche ora corroderebbero mollica e stagnola, e la lametta gli taglierebbe la pancia, il direttore del campo, se non vuole guai, li deve mandare in ospedale, e loro, diceva la dottoressa, fanno così perché sperano, nel viaggio, di potere scappare, e quando mi son trovato a Pistoia, alla stazione ferroviaria, e ho visto una targa, dove, quelli che l’avevano messa auspicavano, dopo la seconda guerra mondiale, un mondo senza filo spinato, io mi son chiesto come faccio, io, a far finta di niente, a voltare le spalle, a fare coem se non esistessero, oggi, in Italia, i Centri di Identificazione e Espulsione, che sono dei posti, oggi, in Italia, ai quali non ci si può avvicinare, come non ci si poteva avvicinare ad Auschwitz e a Birkenau, e dei quali non parla quasi nessuno, come non parlava quasi nessuno di Auschwitz e Birkenau, e dov’è rinchiusa della gente che non ha fato male a nessuno, come non aveva fatto male a nessuno la gente che era rinchiusa ad Auschwitz e a Birkenau, e quando vado a dormire, certe volte, che sono lì che mi sto per addormentare, io mi chiedo se non dovrei vergognarmi, del mio stare al caldo, in un appartamento pulito, con le mie due gatte, che son così belle, e mi chiedo, delle volte, come mai non faccio niente per questa cosa che mi sembra che sia così grande, e mi rispondo che, secondo me, dipende dal fatto che io sono nato nel ’63. Perché, e questa è una cosa che ho anche scritto, e che ripeto spesso, e una volta, nel 2009, credo di averla ripetuta anche qua, e se qualcuno l’ha già sentita porti pazienza, secondo me, quelli che, in Italian, sono nati negli anni venti, e che avevano vent’anni negli anni quaranta, han dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati. Quelli che son nati negli anni trenta, e avevan vent’anni negli anni cinquanta, han dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire. Quelli che son nati negli anni quaranta, e che avevan vent’anni negli anni sessanta, han dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro. Quelli che son nati negli cinquanta, e che avevan vent’anni negli anni settanta, han dovuto contestare perché il mondo così com’era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità o non so bene a cosa. Poi siamo arrivati noi, nati negli anni sessanta e che avevamo vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.
Mi sembra che noi siamo la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore.
Cioè era come se il mondo, che per i nostri genitori era stata una cosa da fare, da costruire, per noi fosse già fatto, preconfezionato, e l’unica cosa che potevamo fare era mettere delle crocette, come nei test.
E la cosa incredibile, non era tanto quella, quanto il fatto che noi, a ricostruire il mondo, ci abbiamo rinunciato. Ci siamo accontentati del nostro angolino, caldo, pulito, e adesso, che son passati altri trent’anni, e sono arrivati quelli che son nati negli settanta, e avevan vent’anni negli anni novanta, e si sono accomodati anche loro tranquilli senza rompere troppo i maroni, e sono arrivai quelli che son nati negli anni ottanta, e avevan vent’anni negli anni zero, e si sono accomodati anche loro tranquilli senza rompere troppo i maroni, adesso tra poco arrivate voi, che siete nati negli anni novanta e avrete vent’anni negli anni dieci, e chissà cosa farete voi. E l’impressione che ho io, che da quando avevo vent’anni io non sia cambiato molto (se non il fatto che quando lavoravo io, a sedici, diciassette, vent’anni, c’era una strana abitudine che mi pagavano), e che quelli che hanno la nostra età, la mia età, quarantanove, ma anche la vostra, diciotto o diciannove, il nostro strumento, la nostra leva per farci spazio, nel mondo, per noi non sia più, com’è stato per le generazioni precedenti l’entusiasmo, o il dovere, o il senso di sacrificio, o la speranza di un mondo migliore o non so cosa, no. Noi, la nostra leva, quello che ci costringeva a entrare nel mondo, per noi, era la disperazione. Ma quella forza lì, la disperazione, che per il singolo è una forza potentissima, per tanti non lo so, se va bene, e io, che credo di sapere cosa devo fare io, con mia figlia, con mia mamma, con la persona a cui voglio bene, con i miei due fratelli, con i miei nipoti, con le mie due gatte, così belle, dire cosa dobbiamo fare noi, io, vi confesso, nemmeno facendo ricorso alle mie qualità di deficiente assoluto, non ci riesco mica, e la cosa che mi viene da fare, per chiudere questo discorso, che in qualche modo bisogna chiuderlo, dopo aver ringraziato la fondazione, e Silvia, e Marzia, per avermi invitato anche quest’anno, e avermi dato la possibilità di ragionare su questo argomento così bello, Birkenau, perché Birkenau, vedrete, tra le altre cose, è un posto bellissimo, ecco io volevo finire con due cose, una piccola, che dicono dicesse sempre Joe Strummer, il leader dei Clash, che era un gurppo punk che aveva come slogan la frase «The future is unwritten», «Il futuro non è scritto», e lui, Straumer, gli ultimi anni della sua vita dicono che dicesse sempre «Ricordiamoci che siamo vivi», e l’altra una poesia che la prima volta che l’ho sentita ho pensato che era stata scritta per me, anche se io ho cinquant’anni, e la poesia è dedicata a dei bambini, e l’ha scritta Mariangela Gualtieri, che, lei stessa, dice «Ho scritto questo testo dopo aver partecipato, non vista dai bambini, ad alcuni laboratori del teatro delle Briciole di Parma», e si la poesia si intitola Sermone ai cuccioli della mia specie e fa così:
Cari cuccioli, vi ho guardato a lungo. Ero lì nascosta nel buio e vi guardavo giocare, nascosta nel buio come una carogna, come una spia che studia il nemico, come un ladro che aspetta il momento buono, come un terrorista che guarda a distanza e fa i suoi piani d’innesco. Io vi guardavo ammutolita, intenerita da voi, cari cuccioli della mia specie, e poi anche disgustata da voi che eravate lì inermi a un palmo dal mio naso. Siete indeboliti cuccioli. Siete spaventati e soli. Siete avidi. Siete sazi. Siete svuotati. Sfiniti siete. Siete vinti. Io vi guardavo da una quasi nausea, da tutto quel buio: ricordavo un’antica infelicità d’infanzia, un’antica paura. ricordavo bene quell’essere fra gli altri, spersa, sola. La mia paura me la ricordavo, guardando la vostra. Ricordavo bene il mio sguardo, come se lo avessi sempre visto da fuori: sbigottito, quasi non ci credevo d’essere in questo mondo, non me lo spiegavo, il mondo, non mi raccapezzavo. Come precipitata ero, dalle altezza caduta molto giù, molto di lato, nel mondo degli uomini e delle donne. Nel mondo delle case di mattoni. Nel mondo dove si lavora e si mangia e si dorme e si fa la cacca ogni giorno e ogni giorno si fa la pipì tante di quelle volte e si mangia e si dorme e ci si lava la faccia. Da dentro quello sguardo, chiusa lì dentro nella mia fortezza io guardavo il mondo dei grandi e provavo una grande pietà. Io li sentivo che piangevano dentro. Sentivo che non ce la facevano. Li sentivo gridare dentro. Con muri dentro, con scarafaggi e muffe, dentro. E un giorno, quando ero molto piccola, ho fatto un giuramento, un giuramento infante, senza le parole, ma chiarissimo e sonante: io me li prendo tutti nel petto e li scampo, li porto in salvo. Ho giurato così, senza dire neanche una di queste parole, ma con tutte queste parole più forti cento volte. Nel mio letto, vicino al grande armadio con lo specchio, fra le sponde altre di legno, con la sorella vicina che tossiva, giuravo forse ogni notte, per quella tosse, per la faccia stanca del mio babbo, e per tutte le facce dei grandi, coi loro segni come di grande pena. Una bambina nel suo letto ha fatto il giuramento, recitato la formula che salva, forse ha vinto sulla morte e sul mondo. Aspettavo il giorno in cui mi avrebbero detto il grande segreto. Sentivo, lo sapevo, che dietro al loro non dire niente si nascondeva la grande verità. Sentivo, lo sapevo, che loro sapevano tutto quello che io non sapevo. Sentivo che un giorno me lo avrebbero detto e io avrei capito il mondo e non avrei sofferto come loro, perché loro stavano già soffrendo anche per me. Sentivo e aspettavo. Poi molto piano, molto in ritardo, molto piano, millimetro dopo millimetro, in un lavorio di tic tac e minuti molto piccoli, piano piano, sono passata di là, sono caduta del tutto nel mondo, appiattita, schiacciata al suolo in un lento atterraggio. Adesso, cari cuccioli, io sono grande. Sono molto grande. Sono quello che mai e poi mai avrei voluto essere: una persona grande. Adesso io sono dei loro. Adesso lontanissima sono dai miei favolosi sette anni, quando ero un genio buono, uscito da poco dalla lampada, e un filosofo ero, ma senza le parole, un grandioso poeta analfabeta, un artista senz’arte. Adesso da qui, da questo esilio duro, da questo corpo con peso, da questa mente complicata, da questa mente ingombrante, da qui, da questo buio che è tutto il mio, da qui vi guardo, adorandovi. Vi chiedo aiuto. Una parte di me vi supplica, vi implora, vi chiede aiuto e aiuto. Adesso tocca a voi salvarmi, fare il giuramento. Potrete? Ci riuscirete? Mi sentite? Sentite? Dicono che siete rotti. Siete sazi, dicono. Corrotti. Rovinati siete, come tutto il resto. Anche voi nella lista lunga delle perdite: l’acqua, l’aria, il silenzio, il pudore… Anche voi. Stuprati siete, rotti. Vecchissimi e troppo stanchi per l’infanzia. Scarichi. Vuoti. Allora adesso imparate. Imparate l’odore dei nemici potenti. Sbranate, cuccioli, le loro mani piene. Scassate le loro tane come galere. Sputare sui loro piatti. incendiate le stanze gonfie di giocattoli, scappate, morsicate, tirate pietre sui televisori, scalciate, spaccate questo micidiale nostro sogno, l’inesauribile bisogno di confort, fateci a pezzi, scancellate noi, puniteci per aver fatto di voi le nostre miniature, per avervi disinnescati, resi innocui, per non avervi ascoltati, nel vostro sommo sapere. Voi che eravate le porte del regno dei cieli e chi non passava da voi non passava, voi che eravate purissima gioia, voi che eravate noi bloccati nella più grande bellezza, voi che somigliavate ai cuccioli degli altri animali, voi che capivate lo splendore misterioso degli animali, voi che dormivate un sonno perfetto e benedetto, voi che vi svegliavate ridendo, voi che facevate balletti strepitosi. Voi, nostre divinità domestiche. Nascete ancora, cuccioli. Restate. Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate. Siate.
Ecco.