Avverbi
È uscita da poco, per Frassinelli, una nuova edizione di On writing, di Stephen King, un libro a metà tra il manuale di scrittura e l’autobiografia. Chi, come me, ha letto poco di Stephen King, resterà probabilmente colpito dalla seconda prefazione (ci sono tre prefazioni) che Stephen King comincia così: «Questo è un libro breve perché la maggior parte dei manuali di scrittura creativa sono pieni di stronzate» (la traduzione è di Giovanni Arduino).
Dopo, nella prima parte del libro, che si intitola “Curriculum vitae”, e che è una parte sostanzialmente autobiografia, King, che è del 1947, scrive: «Soffermandosi a rifletterci sopra, sono parte di un gruppo abbastanza esclusivo: l’ultimo pugno di romanzieri americani che ha imparato a leggere e scrivere prima di una dieta quotidiana a base di stronzate video». Che vuol dire, se non ho capito male, che lui e i suoi coetanei guardavano poco la televisione, e che questo è un bene.
Poi si racconta di quando King ha cominciato a scrivere, che aveva sei anni: «Copiavo parola per parola le avventure di Combat-Casey (un fumetto di guerra, se non ho capito male) sul bloc-notes, talora aggiungendo mie descrizioni dove sembravano più opportune. “Erano accampati in un grande cascinale, tormentati dai pifferi”. Avrei impiegato un altro paio d’anni – continua King – a scoprire che piffero e spiffero erano due parole diverse. A quei tempi ero anche convinto che dettagli fosse uguale a dentali e che una troia fosse una stanga di donna, perché i giocatori di pallacanestro venivano spesso chiamati figli di troia durante le partite. A sei anni, hai ancora la testa piena di tessere dello Scarabeo mischiate alla rinfusa».
Poi King ci informa che il quoziente intellettivo di suo fratello Dave «sfiorava i 160» (dev’essere un punteggio altro, credo), e che agli inizi, quando una rivista aveva mandato a King, per A volte ritornano, un assegno di cinquecento dollari «la più alta somma mai guadagnata (fin lì) in assoluto», King e la sua famiglia, la moglie Tabby e i due figli, che non potevano permettersi l’amoxicillina liquida, che loro chiamavano «la roba rosa» e era un medicinale per l’otite che aveva colpito i bambini, con quei cinquecento dollari «riuscimmo a permetterci non soltanto una visita dal medico e un flacone della roba rosa, ma persino una bella cenetta domenicale. E se non ricordo male, – conclude King, – non appena i piccoli si addormentarono, Tabby e io ce la spassammo a letto». Che son quei dettagli della vita privata dello scrittore che uno farebbe anche a meno di leggerli, se potesse scegliere, secondo me.
Dopo King si sorprende del fatto che gli abitanti di Hermon, un paesino dove era andato a abitare nel 1973 e che lui, in un’intervista a Playboy, aveva definito «il buco del culo del mondo» se l’erano presa; «ecco, – scrive – le mie doverose scuse. Al massimo, – conclude, – Hermon corrisponde all’ascella più puzzolente dell’universo».
Ma, al di là dell’interesse biografico (King parla anche, sul finale, di un terribile incidente che ha patito) la parte più sostanziosa di On Writing sembra essere la parte che riguarda i consigli di scrittura che sono molti e molto pratici, a cominciare dal primo, che si trova a pagina 64 e che dice così: «Non sono necessari tanti discorsi. In genere crederci basta e avanza».
Poi, a proposito delle similitudini, King scrive che «La similitudine zen è uno dei tanti possibili trabocchetti del linguaggio figurato. La più comune […] consiste nell’uso di immagini, metafore e paragoni stereotipati. Correre come un pazzo, bella come il sole, furbo come una volpe, forte come un leone… […] Rischiate di sembrare svogliati o ignoranti, il che non gioverà alla vostra reputazione di scrittori». Che va benissimo, solo che poi, a pagina 73 di On writing c’è scritto: «Nel primo pomeriggio ho l’energia di un boa constrictor che ha appena ingoiato una capra».
Ma l’indicazione forse più strana del libro viene quando King consiglia, per quanto si può, di fare a meno degli avverbi. «Con gli avverbi, – scrive, – l’autore rivela che teme di non esprimersi chiaramente, di non comunicare in modo adeguato concetti o immagini».
Che è una frase nella quale, per dire che chi usa gli avverbi ha paura di non esprimersi bene, King usa un avverbio (chiaramente).
E nel quarto capitolo del suo romanzo 22/11/’63, che ho cominciato a leggere subito dopo aver finito On writing (è uscito in Italia nel 2011 per Sperling & Kupfer con la traduzione di Wu Ming 1) si legge: «La targa sembrava una versione impossibilmente antiquata di quella della mia Subaru», dove compare questo avverbio, impossibilmente, che è tanto strano da sembrare finto, perfino. Ma forse gli avverbi finti si possono usare, chissà.
[uscito ieri su Libero]