Attorno

mercoledì 24 Novembre 2010

Chissà se sarebbe contento

discorso in tre tempi su Lev Tolsoj
pronunciato il 23 novembre 2010
alla scuola di dottorato
L’interpretazione dell’università di Siena
in occasione della giornata di studi
Conversazioni attorno all’arcipelago Tolstoj

Buongiorno. Si sente? Grazie.
Buongiorno.
Ringrazio dell’invito a questa giornata di studi su Lev Tolstoj, sono venuto molto volentieri anche se ci sono due cose, che devo premettere. La prima cosa è una cosa che forse sapete, cioè che la giornata di studi è stata organizzata nelle settimane immediatamente precedenti la giornata odierna, e, dal momento che è un periodo, immagino succeda così anche a voi, che c’è un sacco di lavoro da fare, io questo discorso che voi state sentendo, e che durerà trenta minuti circa, l’ho scritto ieri.

Ma non ieri tutto il giorno a casa mia a scrivere concentrato con in grembo i libri di Tolstoj e, su un tavolino, di fianco, i dizionari, no, ieri intanto che facevo tutte le cose che dovevo far ieri che è un periodo che ci sono un sacco di cose da fare e anche ieri è stato così.

La prima cosa che dovevo fare era andare a Parma col treno interregionale numero 2124 che partiva da Bologna alle ore 7 e 32 e sarebbe dovuto arrivare a Parma alle ore 8 e 23, e questa parte che state sentendo l’ho scritta proprio sul treno Bologna Parma 2124 tra le 7 e 32 e le 8 e 23 del mattino di ieri che era una giornata bellssima, c’era bello ieri mattina qui a Siena?

Be’ in Emilia alle sette era una giornata luminosissima con delle nuvole lunghe, come se qualcuno le avesse stirate, a Modena c’era una luce, vista dal treno, che ti veniva l’impulso di scendere dal treno di andare a fare un giro, come se il mondo, sono quei giorni che il mondo ti sembra che lo puoi mangiare, che è un peccato lasciarlo lì, però io dovevo andare a Parma non potevo scender dal treno e anche se avessi potuto scender dal treno dovevo scrivere questo discorso che è uno periodo che c’è un sacco di roba da fare non è che uno quando gli piace qualcosa può scendere e prenderla, no, ci son degli impegni, questa era la prima premessa.

La seconda premessa era il fatto che, a dire il vero, io non ne so tanto, di Tolstoj.

Io di Tolstoj ho tradotto un romanzo, che si chiama Chadži-Murat, e credo sia l’ultimo romanzo pubblicato da Tolstoj, uscito, tra l’altro, postumo, nel 1912, due anni dopo la morte di Tolstoj, e poi io Tolstoj più che altro l’ho letto, e riletto, ma non tutto, che leggere tutto Tolstoj dev’essere una cosa bellissima, se uno ha del tempo, ma ne deve avere abbastanza, e io, soprattutto in questo periodo, c’è un sacco di cose da fare, ho come l’impressione che mi si siano accorciate le settimane, come se durassero due giorni, invece di sette, io non lo so, come mai, questa era la seconda premessa e con la prima aveva lo scopo di avvisarvi che le cose che sentirete in questa mezz’ora, ventotto minuti, oramai, sono cose scritte in fretta e da uno che di Tolstoj non ne sa mica tanto.

Mi dispiace che mi abbiano messo come primo intervento, sarebbe stato meglio più avanti, che se questo intervento fosse stato previso tra due ore, per dire, uno che l’ascoltava, sentiva dire che l’intervento che avrebbe impegnato i successivi 28 minuti di convegno era un intervento che era stato scrito da uno che l’aveva scritto velocemente e che dell’oggetto del convegno ne sapeva anche poco, se la cosa fosse successa dopo due ore di convegno uno poteva dire Aspetta che vado a prendere un caffè e fumare una sigaretta dopo torno poi dopo quando questo è finito, invece così, ci siamo appena seduti, cioè, se uno si alzasse adesso, dopo neanche tre minuti di convegno, sarebbe imbarazzante, però io mi sento di dirvi di non imbarazzarvi che io veramente non so, quello che salterà fuori, da questo discorso, magari salta fuori una cosa poco ascoltabile e se, date queste premesse, decidete di andare andate pure non mi offendo se fossi al vostro posto probabilmente ci penserei anch’io, a andare.

Ecco. Adesso possiamo iniziare.

Adesso io Tolstoj i primi libri che ho letto come si deve, di Tolstoj, son stati i libri che ho letto all’università, di Tolstoj; l’avevo letto anche prima, da ragazzo, quando avevo quattordici quindici anni, ma non è che mi avesse tanto colpito, da ragazzo, mi aveva colpito di più Dostoeskij, che anche questa è una cosa, , non si capisce tanto il motivo, uno parla di Tolstoj, salta fuori subito Dostoevskij, e viceversa, uno parla di Dostoevski, salta fuori subito Tolstoj, secondo me questa cosa a Tolstoj non gli piacerebbe tanto, secondo me, che Tolstoj aveva un carattere, era un po’ un orignale, come dicono a Parma, e anche Dostoevskij, bisogna dire.

Comunque, niente, cosa stavo dicendo, che quando facevamo gli esami all’univesità, io studiavo a Parma, e la parte istituzionale del corso, cioè i romanzi che uno doveva portare ce li facevan scegliere a noi, ti dicevano il periodo, dal 1860 fino a fine al 1900, per dire, secondo anno, e te sceglievi cinque o sei romanzi di quel periodo lì, e io mi ricordo avevo scelto Padri e figli, di Turgenev, Anna Karenina e Gerra e Pace, di Tolstoj, Delitto e Castigo, i Fratelli Karamazov, i Demoni e Diario di uno scrittore, di Dostoevskij e Oblomov, di Goncarov, che adesso non so se sarebbe più possibile, perché, non so, se uno conta le pagine, son tipo, spetta, millecinque, più ottocento due mila e tre, più settecento tremila, più altre settecento tremilaesette, più seicento quattromila e tre, più duecento quattromila e cinque, più novecento cinquemila e quattro, grossomodo, adesso non posso esser preciso perche sono in treno dovrei avere i l libri sottomano dopo quando torno casa vi do un dato sicuro comunque, mettiamo pur che siano meno, mettiamo cinquemila, mettiamo anche quattromila e cinque, ecco adesso, all’universtià, un esame così, quattromilaecinquecento pagine solo per la parte istituizonale, non so se sarebbe possibile, ho sentito dire, perlomeno qualche anno fa era così, che adesso all’università al massimo te puoi dare un tot di pagine, tipo trecento, per un esame, che, non lo so, a me quando l’ho sentito mi è sembrata una cosa un po’ strana, a parte che con trecento pagine la letteratura russa dell’ottocento cosa leggi? La figlia del capitano e Un eroe dei nostri tempi e bo’, finito, che va bene, son dei romanzi bellissimi, percò, vacco mondo, cioè c’è anche un fracco di altra roba che insomma, uno che si laurea in russo non aver letto Tostoj, o Dostoevskij, almeno, non lo so, a me sembra una cosa così strana, ma anche al di là della letteratura russa, cioè il fatto che c’è della gente che ti dicono quante pagine devi studiare a me sembra una cosa stranissima, e anche un po’ fastidiosa, e se la piega è questa mi sa che magari che tra un po’ diranno anche dove, si deve studiare, cioè ci saranno dei posti, degl appositi uffici, che lì è permesso aprire i libri e studiare, però non tanto, solo quelle trecento pagine che devi portar per l’esame, secondo me questa cosa a Tolstoj non gli sarebbe piaciuta, che Tolstoj aveva un carattere, e anche Dostoveskij, mi vien da pensare, non so cosa farci è proprio così, , quando vien fuori Tolstoj dopo viene sempre fuori anche Dostoevskij, come Stanlio e Ollio, o Gianni e Pinotto, o Ric e Gian, son sempre insieme, e capire il motivo è una cosa che sarebbe bella, capirla, e questo convegno potrebbe essere una bella occaione per indagarla ma ci son due motivi, non so come dire, gnoseologici, per i quali non lo posso fare, e anche un motivo pratico, il primo motivo gnoseologico è che non ne so mica tanto, di Tolstoj, come ho anche già detto, il secondo motivo gnoseologico è che non so mica tanto neanche i Dostoevkij, il motivo pratico è che tra una balla e l’altra sono arrivato a Parma devo interrrompermi ricomincio qundo riprendo poi il treno per tornare a Bologna.

Ecco. Sono sul treno. Sono stato in un posto che, tra loro, si chiamavano Compagni. Avevan delle facce che un po’ si vedeva, che era della gente, mica tutti, ma la maggior parte sì, che era della gente che era una vita che lavorava. Mi viene in mente una cosa, non c’entra niente, ma mi viene in mente la dico, riguarda un signore che si chiama Walter Veltroni che una volta ha fatto una dichiarazione che ha detto: Io non son mai stato comunista. E a me mi era venuto da pensare Si vede. Ma questo non c’entra. Una cosa che c’entra, forse, è il fatto che prima di prendere il treno sono andato in biglietteria per comprare i biglietti per venire qua oggi, io di solito i biglietti li faccio con le biglietterie automatiche ma quella volta, che poi era ieri, non potevo perché avevo bisogno della fattura, per questioni fiscali che non vi spiego, e intanto che facevo il biglietto ho pensato che oggi, se vuoi fare un biglietto del treno, tu devi parlare dentro un microfono, e sentire da un altoparlante, a Tolstoj questa cosa non lo so se gli sarebbe piaciuta.

Dopo, sul treno regionale 2275 delle 10 e 58 che da Bologna mi riporta a Parma, ho trovato posto in una carrozza di prima declassata e scrivere di Tolstoj in prima classe mi sembra meglio, che scriverne in seconda, dal momento che Tolstoj, come si sa, era nobile, e poi, tra l’altro, la prima declassata, che Tolstoj, ricco e nobile, come si sa si vergognava, della sua ricchezza e della sua nobiltà, quindi, un posto migliore probabilmente si faceva fatica a trovarlo, e allora mi rimetto subito a parlar di Tolstoj non prima di aver detto, però, che a Parma ieri il sole non c’era più, c’era nuvolo, piuttosto, tra le 9 e 30 e le 10 e 58 del mattino quando ci sono andato io per andare a parlare in un posto dove la gente si chiamavano ancora compagni, tra loro, altro che Walter Veltroni.

Allora dicevamo che Tolstoj era uno che, benché fosse un conte, aveva un carattere che era abbastanza difficile, come testimoniano diverse testimonianze sulla sua vita e anche una serie di operette che sembra siano state scritte da un signore nato a Pietroburgo nel 1905 e scomparso a Leingrando nel 1942, un signore che coltivava una scrittura che era un po’ il seguito delle scritture delle cosiddette avanguardie russe che a un certo momento sembra abbia scritto una serie di operette che indagano per esempio la vita di Puškin e che sono note col titolo Scene dalla vita di Puškin, come per esempio queste:

Scene dalla vita di Puškin

Puškin era un poeta e tutto il tempo scriveva qualcosa. Una volta Žukovskij, l’ha trovato che stava scrivendo, ha esclamato, forte, Be’, non sei mica uno scrittorucolo. Da quel momento Puškin ha voluto molto bene a Žukovskij, e a cominciato a chiamarlo affettuosamente Žukovyj.

4

Turgenev, voleva essere coraggioso come Lermontov, è andato a comprare una sciabola. Puškin, passava vicino al negozio, l’ha visto dalla finestra. Allora s’è messo a gridare, apposta: Guarda ve’, Gogol’ (ma con lui Gogol’ non c’era), Guarda ve’, c’è Turgenev che compra una sciabola. Compriamo un fucile, io e te. Turgenev, s’è spaventato, quella stessa notte è partito per Baden-Baden.

5

Quando Puškin s’è rotto le gambe, allora ha cominciato a andare in giro con le ruote. Agli amici di Puškin piaceva fargli gli scherzi, e lo prendevano per queste ruote. Puškin si arrabbiava e scriveva sui suoi amici dei versi ingiuriosi. Questi versi li chiamava epigarmi.

7

A Puškin gli piaceva molto tirare i sassi. Come vedeva dei sassi, subito cominciava a tirarli. Delle volte si eccitava così tanto che diventava tutto rosso, dimenava le braccia, tirava i sassi, una roba da matti.

8

Puškin, non è che fosse pigro, era un po’ un posapiano. Turgenev, sembrava avesse il ballo di San Vito, era sempre vittima del bisogno di una qualche attività. Puškin delle volte se ne approfittava. Succedeva che era steso sul divano, entrava Turgenev, Puškin gli diceva Ivan Sergeevič, non per convenienza ma per benevolenza, non andreste a prendermi una birra? E poi tranquillo si riaddormentava. Sapeva, che non c’era il caso che Turgenev tornasse. Che lui, delle volte correva a firmare una petizione, delle volte a un raduno di nichilisti, delle volte a un funerale civile. Oppure delle volte prendeva paura di qualcosa, partiva per Baden-Baden. Di restar senza birra Puškin non aveva paura. Grazie a dio, c’erano i servi della gleba. C’era, qualcuno da mandare.

9

Puškin aveva quattro figli, e tutti idioti. Uno non sapeva neanche star seduto sulle seggiole, cadeva tutto il tempo. Lo stesso Puškin stava seduto abbastanza male, sulle seggiole. C’era da morir dal ridere, son seduti a tavola, da una parte Puškin cade tutto il tempo dalla seggiola, dall’altra parte cade suo figlio. Roba dell’altro mondo!

Meno conosciuti di questi testi su Puškin, ma altrettanto interessanti, e per noi oggi ancora più interessanti, sono i testi su Tolstoj.

Scene dalla vita di Lev Tolstoj

Lev Tolstoj amava molto i bambini, e non gli bastavano mai. Gliene portavano delle stanze piene, che non si poteva neanche camminare, e lui continuava a gridare Ancora! Ancora!

2

Lev Tolstoj amava i bambini, ma i grandi non li poteva sopportare, soprattutto Herzen. Come lo vedeva, gli saltava addosso col bastone, cercava di picchiarlo negli occhi. E quello lì, faceva finta che non se ne accorgeva. Diceva: Oh, Tolstoj, oh!

3

Lev Tolstoj amava suonare la balalajka (anche i bambini, naturalmente). Ma non era capace. Era lì che scriveva il romanzo Guerra e pace, e pensava, tra sé e sé: Ten – der -den – ter – den – ten! Oppure: Bram- pram – dam – daram – pam – pam!

4

Lev Tolstoj amava molto i bambini. Succedeva che gliene portavano cinque unità su una carrozza scoperta, lui li divideva tra gli ospiti. Naturalmente, Herzen ci prendeva sempre male. Delle volte uno coi pidocchi, delle volte uno che morde. Prova, a lamentarti. Prende il bastone, tràc, sulla testa.

5

Lev Tolstoj e F. M. Dostoevskij avevan scommesso su chi tra loro avrebbe scritto il romanzo più bello. A far da giudice avevan chiamato Turgenev. Tolstoj era corso a casa, si era chiuso nello studio e aveva cominciato a scrivere. Di bambini, naturalmente (li amava molto). Dostoevskij invece è a casa sua che pensa: Turgenev è uno pauroso. Adesso è a casa sua e pensa: Dostoevskij è uno nervoso. Se dico che il suo romanzo è il più brutto, è capace di ammazzarmi, perfino. Cosa mi sforzo a fare? (questo lo pensa Dostoevskij). Il romanzo lo scrivo male, apposta, la grana me la becco comunque (avevan scommesso cento rubli). Nello stesso momento Turgenev è a casa sua e pensa: Dostoevskij è uno nervoso. Se dico che il suo romanzo è il più brutto, è capace di ammazzarmi, perfino. D’altra parte Tostoj è un conte. Anche con lui è meglio evitare polemiche. Ma che vadano… E quella stessa notte, di nascosto, è partito per Baden Baden.

Ecco. Forse vi sembrerà che nemmeno queste cose c’entrino molto, con Tolstoj, io ho l’impresione che c’entrino perlomeno per due motivi, il primo per via del fatto che, come volevasi dimostrare, Dostoevskij è saltato fuori anche lì, il terzo che i poeti e gli scrittori russi sono tutti legati uno con l’altro anche scrittori apparentemnte lontanissimi come Charms e Tolstoj.

Mi viene in mente il poeta Aleksandr Blok che anche lui a pensarci non è che apparentemnte si possa molto paragonare, a Tolstoj, invece lui una volta nei diari deve aver scritto una cosa del tipo Ja chotel stat’ Tolstým, a stal tòlstym, volevo diventare un Tolstoj, son diventato un ciccione, e con Charms lo stesso, a leggere i diari di Charms si leggono delle cose che dimostrano la stima di Charms nei confronti di Tostoj, e di Puškin (Dostoevskij no, questa volta) cioè per esempio un passo dei diari dove Charms scrive:

Se si escludono gli antichi, dei quali non posso giudicare, di veri geni se ne trovano solo cinque, e due sono russi. Ecco questi cinque geni-poeti: Dante, Shakespeare, Goethe, Puškin e Gogol’.

Oppure un altro passo degli stessi diari che dice:

È interessante che quasi tutti i grandi scrittori avevano la loro idea e credevano che essa fosse più importante delle loro opere. Così, per esempio, Blake, Gogol’, Tolstoj, Chlebnikov, Vvedenskij.

Ecco. Adesso siamo a metà circa del nostro discorso e siamo già quasi a Bologna, e piove, e dopo quando arrivo devo prendere la bicicletta, andare a far spesa, andare a casa, cambiarmi, che sarò bagnato, mangiare, andare a prendere una bambina a scuola poi stare un po’ con lei, andare in un locale a Bologna a fare una cosa un po’ strana, la lettura integrale delle Anime morte di Gogol’, poi devo parlare con una studentessa che fa la tesi su un poeta che si chiama Velimir Chlebnikov, che è, tra l’altro, uno dei grandi scrittori ricordati da Charms, poi dopo c’è un incontro con gli studenti della scuola elementare di scrittura emiliana, fino a mezzanotte circa, questo discorso non so quando lo finirò, bo’, oh, in qualche modo, non lo so, non è che, cioè, pazienza, adesso, no perché, bisogna anche dormire, delle volte, adesso vediamo, no, perché, io, a un certo momento, sì, va bene, ho capito, no perché io, domattina, cioè stamattina, per venire a Siena, devo prendere, cioè avrò preso, il treno delle sette e ventitre, e allora capite bene che non è che ho tutto quel tempo, che uno dice Chi ha tempo non aspetti tempo, va bene, ma chi il tempo non ce l’ha cosa deve fare?

Ecco.
Son le cinque del mattino di stamattina, 23 novembre 2010. Allora? Cosa facciamo? Eh, è comoda. Cioè ci manca ancora quasi metà della roba. Non è che possiamo finire qua, non ho detto niente, di Tolstoj. Aspetta un attimo. C’era quella cosa là. Quella cosa là, quella là, della settimana scorsa, che parlava di quella cosa, per Gli altri, spetta, eccola qua, guarda qua, guarda come si intitola, Tolstoj e Dostoevskij, sembra fatta apposta. Ecco. È questa qua.

Tolstoj e Dostoevskij

Il tassista a un certo punto aveva detto «Ecco, quando arriviamo da queste parti mi sbaglio sempre» e si era fermato a pensare. Poi era ripartito e aveva ricominciato a girare ma un po’ così, a vuoto. Era stranissimo, girare su un taxi ai venti all’ora con un tassista che faceva andare la testa a destra e a sinistra alla ricerca di un punto di riferimento. Mi era venuto da dirgli di provare a chiedere la strada a qualcuno, solo che un tassista che chiede la strada a qualcuno non figura benissimo, avevo pensato. «Scusi, – gli avevo detto dopo un po’, – non ce l’ha una cartina?». «Sì, ce l’ho», aveva detto lui, e l’aveva presa e si era messo a guardar la cartina ma era una cartina stranissima, c’eran solo dei nomi e dei numeri. La cosa forse più strana di tutte era che dovevamo andare in via Asiago 10, sede Rai, che i tassisti a uno gli vien da pensare che la conoscon benissimo. Alla fine poi dopo comunque l’abbiamo trovata.
Era domenica, ma non sembrava, non c’era nell’aria quella deformità del mondo tipica della domenica, quando guardi fuori dalla finestra e il panorama che vedi, che solo due giorni prima era in tre dimensioni, adesso è come se gli avessero tolto lo scheletro, non era così, era domenica ma a guardarsi intorno poteva essere benissimo mercoledì.
Appena imboccato il corridoio mi era venuto incontro un signore con un maglione verde e un bastone: «Fofi», avevo pensato. Ci eravamo abbracciati. Era la prima volta che ci vedevamo. Avevamo degli amici in comune. Nell’entrare nello studio, lui era di spalle, mi aveva detto «Credevo che fossi più giovane». «No, – gli avevo detto io, – sono vecchio, e non porto neanche tanto bene i miei anni».
C’era Sergio Givone che diceva che Tolstoj faceva dei romanzi a tesi, però poi succedeva spesso che la forza del romanzo deformava la tesi e alla fine l’interpretazione era ambigua, se ho capito bene.
C’era Marta Albertini, pronipote di Tolstoj, che diceva che tra suo bisnonno Tolstoj e sua bisnonna Tolstaja, lei era imparziale, però preferiva la bisnonna, se ho capito bene.
C’era Igor Sibaldi, traduttore di molte cose di Tolstoj, che diceva che Tolstoj praticamente non scriveva dei romanzi, scriveva dei saggi, se ho capito bene.
C’era Fofi che diceva che Tolstoj, la sua grande forza, era non accettare lo status quo, mettere in discussione tutto, se ho capito bene.
Io quando vado alle cose, come le trasmissioni radiofoniche dove parlano in tanti, intanto che parlano gli altri io, è una mia debolezza, mi ripeto dentro la testa quello che potrei dire io, mi faccio dei gran discorsi le cose che dicono gli altri non le capisco molto bene, probabilmente.
C’ero io che dicevo che Tolstoj, a me, che ne sapevo poco, ricordava il nichilista Bazarov, di Padri e figli di Turgenev, che non riconosceva l’autorità di nessuno e rimetteva in discussione tutto, e Tolstoj era così anche lui: Tolstoj ci aveva detto cos’erano la famiglia, l’adulterio, il denaro, la proprietà, la fustigazione, la pena di morte, i vangeli, Cristo, la storia, il tempo, la schiavitù, Dio, come se tutte queste cose non fossero state mai raccontate, come se tutte le definizioni a lui precedenti fossero tutte da buttar via; con la differenza che Bazarov traeva, dalla coscienza di questa necessità, un senso di superiorità intellettuale che lo rendeva anche abbastanza antipatico, Tolstoj invece, a leggere le cose che aveva scritto dove compariva come personaggio, come i suoi diari, o come alcuni dei suoi saggi, non vantava nessuna superiorità intellettuale, come si vede da questo pezzo di Che fare, che è un libro dove Tolstoj racconta com’è andato il suo tentativo di mettere in piedi un’attività benefica a Mosca, dopo che aveva visto la miseria nella quale viveva una parte consistente della popolazione moscovita:
«Chi sono io, io che voglio aiutare gli uomini? Voglio aiutarli, e mi alzo a mezzogiorno, dopo un’interminabile partita di whist, infiacchito, molle, bisognoso dei servigi e dell’aiuto di centinaia di persone; e vengo ad aiutare – chi poi? Uomini che si alzano alle cinque, che dormono su tavole, che mangiano pane a cavoli, che sanno arare, falciare, immanicare la scure, squadrare, aggiogare, cucire; uomini che per padronanza di sé, per forza, per aabilità, per temperanza, valgono cento volte più di me; e io vengo ad aiutarli! Cosa altro, se non vergogna, posso provare quando entro in rapporto con loro? /…/ Tutta la mia vita passa così: mangio, parlo, ascolto; mangio, scrivo e leggo, cioè ancora parlo e ascolto; mangio, gioco, mangio, di nuovo parlo e ascolto, mangio e di nuovo vado a dormire, e così ogni giorno, e non posso e non so fare altro. E perché possa permettermi tutto questo, occorre che dalla mattina alla sera lavorino per me il portiere, l’inserviente, la cuciniera, il cuoco, il lacché, il cocchiere, la lavandaia; per non parlare degli operai necessari a produrre gli oggetti di cui questi cocchieri, cuochi, lacché, hanno bisogno per lavorare per me: martelli, botti, spazzole, vasellame, mobilia, vetri, cera, lucido da scarpe, petrolio, fieno, legname, carne di bue. Ognuno di loro lavora duramente tutto il giorno e tutti i giorni perché io possa parlare, mangiare, dormire; e proprio io, questo individuo gramo, ho immaginato di poter aiutare gli altri, quegli stessi uomini che mi nutrono» (Che fare, traduzione dal russo di Luisa Capo, Milano, Mazzetta 1979, pp. 96-7).
Una cosa che non ho detto, mi è venuta in mente dopo, è che la mancanza di fiducia nelle autorità io credo la condividiamo anche noi, oggi, quel che non c’è, oggi, è questa pulsione a rifare tutto, a riscrivere il mondo, a rifarne da capo la mappa. Non so se sarebbe contento, mi è venuto in mente poi, di noi, Tolstoj.
È durata quasi due ore, e è finita poi subito.
Era la puntata di Uomini e profeti di Gabriella Caramore del 7 novembre 2010, centesimo anniversario della morte di Tolstoj.
Alla fine, dopo che era finito, Fofi mi ha raccontato della volta che Oreste Del Buono aveva proposto la traduzione di Anna Karenina a Rizzoli, per la Bur, e gli aveva raccontato il romanzo. Rizzoli, che Tolstoj non l’aveva mai sentito nominare, aveva ascoltato poi aveva detto «Bravo, questo Tolstoj, ma, mi dica, è mica il Dostoevskij, per caso?».

Ecco. Mi sembra che ci siamo. Son circa venticinque minuti, che parlo, io direi mi fermo qui. Resta solo a dire che stamattina, a Bologna, a giudicare da quel che si vede fuori dalla finestra, non piove. C’è l’asfalto asciutto. E poi da resta da scusarsi, per la frammentarietà e l’inconguirtà di questo intervento. C’è andato in mezzo anche Walter Veltroni. Cosa c’entrava Walter Veltroni? Va be’, ormai c’è, lo lasciamo. Volevo poi solo raccontare, c’è ancora qualche minuto, una cosa che mi è successa a Roma, poco tempo fa. Ero stato invitato, qualche settimana fa, a Roma, a una specie di festival delle arti, che era legato a un concorso per i giovani Ero con l’editrice della casa editrice Voland, che ha pubblicato la nuova ezione di Chadži-Murat, l’ultimo romanzo di Tolstoj, pubblicato nel 1912, postumo, per volere dello stesso Tolstoj, che pensava che avrebbe avuto dei problemi con la censura, che infatti poi ebbe, fu soppresso un capitolo e uno mutilato. Eravamo in una specie di discoteca, e c’era la finale di un concorso nazionale di letteratura e di teato, con della gente che recitava e leggeva delle cose, non lo so, c’eran dei mimi, con la faccia imbiacata, che sul palco salivano su delle scale, c’era una ragazza che, in un angolo, leggeva un testo con un pianista che in sottofondo suonava il notturno di Chopin, la luce che le permetteva di leggere era azzura, e leggeva da seduta, con un leggio di metallo che disegnava, in alto, dei fiori, sembrava di essere in una via di mezzo tra un night club e un’oratorio. A un certo punto, c’erano quaranta persone in sala, è toccato a me, mi avevano invitato a leggere dei pezzi di Chadži-Murat, e io sono andato sul palco, tra un pezzo di teatro dei mimi e una lettura con musica di sottofondo, e sono andato su e ho spiegato che ero stato invitato per conto della casa editice Voland perché era appena stata pubblicata la nuova traduzione di un romanzo di Tolstoj, Chadži-Murat, e che questo romanzo era la storia di un ribelle caucasico veramente esisitito che era il luogotenenete di Šamil, l’ataman che, a metà dell’ottocento, si era ribellato ai russi, e che il romanzo raccontava la storia del passagio di Chadži-Murat ai russi, che Chadži-Murat a un certo punto aveva litigato con Šamil e si era accordato coi russi, e il romanzo partiva da lì, da un momento che Chadži-Murat, inseguito dagli uomini di Šamil, si rifugiava in un piccolo villaggio russo e veniva protetto e ospitato da una famiglia di ceceni. Ecco, avevo detto a Roma in quella discoteca, io adesso leggerò due capitoli da questo romanzo di Tolstoj, avevo detto, e non avevo fatto in tempo a dire così che trenta delle quaranta persone che c’erano in sala si erano alzate erano uscite. A Tolstoj questa cosa non se gli sarebbe piaciuta, mi era venuto da pensre, invece a me era piaciuta, devo dire. cioè era stato un momento proprio bellissimo. Mi era venuto in mente un mio amico che diceva che, quando era uscito il suo secondo romanzo, tutti quelli a cui l’aveva mandato, avevano smesso di telefonargli. Prima lo chiamavano magari anche spesso, adesso, dopo che aveva mandato il libro, silenzio di tomba. Qualcuno faceva anche finta di non conoscerlo quando si incontravan per strada. E allora lui aeva pensato che, c’erano dueche a lui porpiro gli earno antipatici che lo chiamavano continuamente gli chiedevano continuamente di uscire, allora lui li ha chiamati gli ha detto Venite qua, che ho un libro da darvi.
Che non c’entra niente neanche questo, ma ormai, abbiam messo dentro Veltroni, mettiamo dentro anche questo.
Volevo poi anche aggiungere che in quel romanzo là, in Chadži-Murat, una cosa bellisisma è il rispetto, con il quale Tosltoj descrive i caucasici, che son mussulmani, e ogni volta che si incontrano alzano i palmi delle mani verso l’ato e dicino una preghiera e quando la preghiera è finita si passano le mani sulla faccia, dall’alto al basso, e le congiungono all’altezza della barba.
E queste descrizioni restano ancora più impresse se le si paragona alle descrizioni della religiosità dei russi, e in particolare di Nicola I, lo zar, che quando prega ripete meccanicamente le pregheire che gli hanno insegnato quanado era piccolo, il credo, il padre nostro, e non capisce nemmeno il significato delle parole che dice. E quando va a messa, Tolstoj dice che c’è un’aria, in chiesa, che sembra che sia Dio a ringrzziare Nicola di essere andato.

Ecco. Son già le sei. Qua sotto, su via Porrettana, han cominciato, con quegli aspiratori coi motori a scoppio, aspirare le foglie. Io non lo so. Vi sembra un orario, le sei, per aspirare le foglie con un aspiratore col motore a scoppio? Ma lasciale lì, le foglie, ma che fastidio ti danno? Io non lo so. Secondo me, a Tolstoj, questa cosa non gli sarebbe piaciuta, e protremo finire qua, invece vorrei finire con uno dei capitoli di Chadži-Murat che venne censurato, che è un capitolo dove si racconta cosa succede nel piccolo villaggio ceceno dove Chadži-Murat è stato ospitato all’inizio del romanzo, dopo un’incursione dei russi ordinata dallo Zar Nicola primo, ed è il capitolo diciassettesimo.

XVII

Il villaggio saccheggiato era lo stesso villaggio nel quale Chadži-Murat aveva trascorso la notte precedente il suo passaggio ai russi.
Sado, dal quale Chadži-Murat si era fermato, era con la famiglia sulle montagne quando i russi si erano avvicinati al villaggio. Tornato al villaggio, aveva trovato la sua saclia distrutta: il tetto era sfondato, e la porta e le colonnine della piccola loggia bruciati, e l’interno tutto sottosopra. Suo figlio, quel bel ragazzino con gli occhi spendenti che guardava entusiasta Chadži-Murat, era stato portato morto in moschea su un cavallo coperto da un mantello di feltro. Era stato colpito da una baionettata alla schiena. La donna austera che aveva servito Chadži-Murat quando era stato lì’, ospite, adesso, con la camicia strappata sul petto a scoprirle il vecchio seno avvizzito, coi capelli sciolti, stava di fronte al figlio e si graffiava a sangue il volto e non smetteva di piangere a dirotto. Sado, con pala e piccone, era uscito con i parenti a scavare la tomba al figlio. Il vecchio nonno sedeva appoggiato alla parete diroccata della saclia, e, incidendo un bastoncino, guardava fisso davanti a sé. Era appena tornato dai suoi alveari. Lassù due covoni di fieno erano stati bruciati: erano stati spezzati e bruciati gli alberi di albicocche e di ciliegie che egli stesso aveva piantato e che eran cresciuti, e, soprattutto, erano stati bruciati tutti gli alveari e le api. I pianti delle donne si sentivano in tutte le case e nella piazza dove erano stati portati altri due corpi. I bambini piccoli piangevano insieme alle madri. Si lamentava anche il bestiame affamato, al quale non c’era niente da dare. I bambini grandi non giocavano, ma con occhi impauriti guardavano i vecchi.
La fontana era stata imbrattata, evidentemente apposta, tanto che non si poteva prenderne acqua. Era stata imbrattata anche la moschea, e il mullah con i suoi aiutanti la stava pulendo.
Gli anziani si erano raccolti sulla piazza e, seduti sui talloni, ragionavano sulla situazione. Di odio per i russi nessuno parlava. Il sentimento che provavano tutti i ceceni, dal più piccolo al più grande, era più forte dell’odio. Non era odio, era il non riconoscere a questi cani russi lo status di uomini, e un disgusto tale, una ripugnanza e un imbarazzo tali di fronte alla crudeltà insensata di questi esseri, che il desiderio di sterminarli, così come il desiderio di sterminare i topi, i ragni velonosi o i lupi, era tanto naturale quanto l’istinto di conservazione.