Adesso c’è anche il vento siberiano
Mi era sembrato strano il comportamento di Pierluigi Bersani, che ha fatto una campagna elettorale tutta in sordina, non l’ho mai sentito nominare, probabilmente ha fatto pochi comizi, ho pensato, è andato poco in televisione, poi sono andato a cercare, ho trovato che invece qualche intervista televisiva l’ha fatta; il 27 febbraio, per esempio, pochi giorni fa, era da Lilly Gruber in un programma che si chiama Otto e mezzo dove lui ha detto che tutti gli chiedono «Ma dove sei andato a finire?» e che lui risponde «Io son sempre stato qui, sono loro, che si sono spostati».
E ha detto che, per lui, l’esperienza di questa campagna elettorale è stata molto positiva, che «la gente è venuta, è uscita dal bosco», e che, secondo lui, la nascita di Liberi e uguali, che è il movimento con il quale si presenta alle elezioni, è stata presa molto bene, che lui trova solo «del popolo che è contento, perché non sapeva dove andare, e adesso dice “Siam qui, è tornata la sinistra”, adesso c’è anche il vento siberiano, non pretendevo tanto», ha concluso poi Bersani l’altro giorno.
Che io, a parte il fatto della gente che esce dal bosco, stavano in un bosco? ma parte quello, che non l’ho tanto capito, devo dire che non ho capito neanche tanto il fatto che lui, Bersani, sia uno che è sempre rimasto lì dov’era.
Io invece ho l’impressione che il principale partito della sinistra, nel quale Bersani ha fatto politica per tanti anni, quel partito lì che quando Bersani è stato eletto consigliere comunale a Bettola, in provincia di Piacenza, nel 1985, il partito di Bersani, allora, nel 1985, si chiamava Partito Comunista Italiano, e è cambiato ininterrottamente, dal 1985 ad oggi, quel partito lì, come testimonia anche il cambiamento dei nomi ultimo dei quali Partito Democratico.
Ecco, il Partito Democratico, l’ultima volta che si è presentato alle elezioni politiche, nel 2013, il suo leader era proprio Bersani, e quella campagna elettorale, io, non che l’avessi seguita tantissimo, ma me la ricordo soprattutto per un video: sul terrazzo di un edificio che si immagina romano, un gruppo di signore e signori di spalle, guidati da due vestiti come uno che non ne sa tanto si può immaginare che siano vestiti dei dee-jay (io non ne so tanto e me li immagino vestiti così, gli uomini in nero, con i capelli lunghi e la barba, e una collana al collo e una catena che esce da una tasca, le donne in nero con gli occhiali da sole e degli elementi di viola e degli stivali un po’ aggressivi, da dee-jay), queste signore e questi signori fanno un saltello su se stessi, si trovan di faccia, si battono i palmi delle mani sulle cosce e cominciano a ripetere, in coro: «Lo smacchiamo, lo smacchiamo, lo smacchiamo, lo smacchiamo, lo smacchiamo». Quello che avrebbero voluto smacchiare, elegante metafora per battere, umiliare, annichilire, era il loro avversario politico, il giaguaro, che oggi, cinque anni dopo, alle elezioni politiche successive, è ancora lì, con tutte le sue macchie, che son tante, secondo me.
Io, Bersani, anzi, più che sembrarmi uno che è sempre rimasto lì, lo collego proprio a questo continuo cambiamento, perché mi ricordo il suo comizio di chiusura della festa nazionale dell’unità del 2012, al Campo Volo, di Reggio Emilia, che all’orario in cui doveva cominciare, il comizio, non c’era nessuno, a sentire, allora è stato rimandato di qualche ora, e quando ha cominciato a ammucchiarsi un po’ di gente, dei ragazzi con dei giubbetti neri e la scritta, dietro la schiena, Staff, si sono messi a distribuire delle bandiere e dei cappellini che non erano rossi, come le bandiere e i cappellini della festa dell’unità e del PCI, avevano i colori del PD, bianco, rosso e verde (gli stessi colori del partito del Giaguaro), e quando poi Bersani era arrivato, la prima cosa che aveva detto, a quel comizio, non era stata «Buongiorno», o «Salve», o «Cari compagni», o «Amici cari», era stata: «Care democratiche, cari democratici».
Che io mi ricordo mi sono chiesto “Ma come si fa, dopo un inizio del genere, a dire qualcosa di sensato?”.
E ero andato via, ero andato al ristorante a mangiare, che intanto Bersani aveva finito, chissà cosa aveva detto, e dopo che io avevo mangiato quelli del ristorante si eran messi a cantare Bandiera rossa e l’ultima strofa non avevan cantato, come da testo di Bandiera rossa, «Evviva il comunismo e la libertà», avevano cantato «Evviva il PD, e la libertà».
Cioè si era spostato tutto, altro che restare al proprio posto, si era spostato tutto fin da allora, fin dal 2012, quando comandava Bersani, e adesso, se dovessi dire un politico che mi ricorda Bersani oggi, io direi Achille Occhetto, che dopo la svolta della Bolognina, e dopo aver perso le elezioni politiche del ’94, era tornato in pista nel 1998 con un libro intitolato Governare il mondo, che aveva presentato con un giro alle feste dell’unità e, quando dagli altoparlanti si diceva che, al tendone della libreria, l’onorevole Achille Occhetto stava per cominciare a parlare del libro Governare il mondo, ti correva un brivido lungo la schiena, se così si può dire.
[Uscito ieri sulla Verità]