Una confessione

sabato 30 Maggio 2015

Sto scrivendo un libro dove il protagonista è un signore che ha cinquantacinque anni però anche lui è stato giovane, e quando era giovane ha fatto l’editore, poi ha fatto lo scrittore, adesso fa il giornalista, e quando era giovane non ha mai detto «Noi giovani», quando era un editore non ha mai detto «Noi editori», quando era uno scrittore non ha mai detto «Noi scrittori» e adesso che è un giornalista non ci pensa minimamente, a dire «Noi giornalisti». Anche per via del fatto che lui pratica una forma di giornalismo che lui chiama Giornalismo disinformato, e la insegna, anche, fa dei corsi di Giornalismo disinformato e ha pubblicato anche un piccolo manuale che si intitola Manuale pratico di giornalismo disinformato.

È  un tipo di giornalismo, il giornalismo disinformato, che i giornalisti che lo praticano delle cose che scrivono non ne sanno e non ne vogliono sapere niente.

E lui, quello che tiene i corsi, che si chiama Ermanno Baistrocchi, lui consiglia di far delle cose, non so, per esempio, «Ragazzi», gli dice a quelli che partecipano ai suoi corsi, li chiama ragazzi, «Ragazzi, se non sapete cosa scrivere, scrivetelo. Scrivete così: Non so cosa scrivere».

E delle regole classiche del giornalismo, delle cinque doppie vu, «when» «what» «where» «who» «why», che, come si sa, vogliono dire «dove» «cosa» «quando» «chi» «perché», e che sarebbero le cinque cose da dire in un pezzo scritto come si deve secondo le regole classiche del giornalismo informato,  ecco, lui, nei pezzi che scrive lui, cerca di non rispondere a nessuna di queste domande, ma si sforza di rispondere a un’altra, domanda: «come».

Bisogna concentrarsi sul «come», secondo lui, e se ci si concentra sul «come» si risponde anche alle altre domande «dove» «cosa» «quando» «chi» «perché» anche senza nominare niente e nessuno.

Per esempio, a parlar di Bologna, che tutti sanno cos’è, un posto famoso nel mondo per la bonomia dei suoi abitanti, per i tortellini, per il buon governo, per le torri, per uno squadrone che tremare il mondo fa, per il cinema in Piazza, per Beppe Maniglia e anche per dei motivi inesistenti come per esempio gli spaghetti alla bolognese che in tutti i ristoranti del mondo, se voi entrate e chiedete gli spaghetti alla bolognese, c’è il caso molto probabile che ve li diano, se li chiedete a Bologna, gli spaghetti alla bolognese, vi rispondono che non esistono, gli spaghetti alla bolognese, se prendiamo Bologna, mettiamo che uno debba scrivere un pezzo su Bologna, come può fare, a scrivere qualcosa su Bologna? Può fare in due modi: o si preoccupa della cosiddetta bolognesità, cioè si informa, si documenta e cerca di mettere insieme delle conferme di quello che sa,  la bonomia, i tortellini, il buon governo, le torri, lo squadrone, il cinema, Beppe Maniglia, cioè si fa guidare, in un certo senso, dal suo cervello, dalla sua sapienza, oppure, altrimenti, uno si fa guidare dai suoi occhi.

Si mette per strada e comincia a guardare. Allora lì, in un certo senso, è un’avventura, può saltar fuori qualsiasi cosa, può andare a finire che uno diventa testimone di un omicidio, oppure che uno torna a casa, si mette al computer e scrive «Non so cosa scrivere». Ecco, io, oggi, mi sono detto che avrei provato a fare come il protagonista del mio romanzo e non sono stato testimone di un omicidio, devo confessare.

 

[Uscito ieri su Libero]

Tutte le cose che capisco

sabato 23 Maggio 2015

Al salone del libro di Torino, sabato scorso, ho fatto un incontro pubblico, in un posto che si chiamava Arena Bookstock, con un mio amico che si chiama Leo Ortolani e è l’autore di un celebre fumetto: Rat-Man. Di questo incontro ha scritto un giornalista che si chiama Davide Gambaretto, che ha cominciato il suo pezzo così: «“Io sono qui solo perché c’è anche Paolo. Visto che ormai ci vediamo poco, allora ho deciso di accettare”. Se ci fosse bisogno di ulteriore conferma, le parole di Leo Ortolani mettono in chiaro, fin da subito, che tipo di incontro sarà. Ortolani e Nori si conoscono da anni; cresciuti entrambi a Parma, sono ottimi amici. “Scherziamo sempre su chi sia il più famoso tra i due – racconta Nori – io forse l’ho battuto perché sono stato da Fazio, ma intanto mia figlia adora Rat-Man”». Nel tornare da Torino, domenica mattina, sul mio stesso treno, c’era una donna che lavora nell’editoria, della quale taccio il nome per delicatezza, che mi ha detto che, quando era partita, suo fratello, che sapeva che sarebbe andata a Torino al Salone del libro, le ha chiesto di portagli una ciocca di capelli di Leo Ortolani. Ecco: a me nessuno ha mai chiesto una ciocca di capelli, e è anche per quello che io, a Torino, all’Arena Bookstock, la cosa che io sono più famoso di Leo perché sono andato da Fazio non l’ho detta, e non l’ho detta perché non è vera. Leo è molto più famoso di me e io credo che sia giusto così e mi sembra anche bello il fatto che io, se devo dire il momento che son stato più famoso, il momento che il mio nome è entrato nei trending topics, cioè tra gli argomenti più dibattuti, è stato quando, un paio di anni fa, mi avevano dato per morto; che è un bellissimo modo, morire, secondo me, di diventare famosi. E prima di quello, il picco della mia notorietà c’era stato all’inizio del secolo, dev’essere stato il 2001 o il 2002, quando c’era una trasmissione televisiva che si chiamava, se non ricordo male, Passaparola, condotta da Gerry Scotti, e c’erano ventuno domande e ciascuna di queste domande cominciava con una delle lettere dell’alfabeto e il concorrente, una sera, doveva rispondere a un’ultima domanda, e la risposta cominciava con la lettera N, e la domanda era: «L’autore di Bassotuba non c’è». E la riposta ero io. E se il concorrente avesse indovinato avrebbe vinto una cifra che adesso non ricordo esattamente, ma tipo cento milioni di lire, e il concorrente aveva sbagliato e Gerry Scotti alla fine aveva detto che la risposta ero io e quella sera, avevo ancora il telefono fisso, sul mio telefono fisso erano arrivate tra le dodici e le quindici telefonate che mi avevano avvisato che ero diventato famoso. Io non ero tanto contento, diventare famoso è una cosa che mi ha sempre fatto un po’ impressione, così come mi fa impressione quando dicono che scrivo dei romanzi divertenti, mi sembra che parlino di un altro, come un altro mi sembra quello lì che a Torino avrebbe detto che lui è famoso perché è stato da Fazio e che usa delle parole come «adora»; che io, è vero che a mia figlia piace molto Rat-Man, però è falso che io abbia detto che «Adora Rat-Man», perché «adora» è una parola che io non uso mai perché non esiste in dialetto parmigiano. In dialetto parmigiano, mi dispiace, non si adora, ed è un posto, il dialetto parmigiano, dove succedono delle cose che mi sembra di capirle tutte.

[Uscito ieri su Libero]

Il cadavere sott’aceto

sabato 16 Maggio 2015

Questa settimana mi sembra che abbian ricominciato a succeder le cose, per esempio un libro che ho scritto ha vinto un piccolo premio, e mi hanno telefonato per dirmelo e mi han fatto dei complimenti e io ho reagito come reagisco sempre quando mi fanno dei complimenti, che quando mi fanno dei complimenti io penso, sempre, «Certo certo», e nella mia testa mi dico «Voi mi fate dei complimenti perché non mi conoscete, che se mi conosceste, altro che complimenti, che ci sarebbe da farmi».
E subito dopo, appena messo giù il telefono, mi son messo a scrivere a penna e mi è successo come mi succede spesso quando scrivo a penna che quando scrivo a penna, io, quando prendo degli appunti, che vedo la mia grafia, mi dico «Ma guarda che bella grafia. Ma chi è che scrive così bene, ma sono io?». E mi do un bacio sulle mani pensando che son proprio io, a scriver così, e mi rimetto a lavorare con impegno per essere degno di me, come diceva Cesare Zavattini.
Poi, sempre questa settimana, sono andato a Salerno dove dovevo fare un incontro all’università e lo dovevamo fare in un’aula che però non l’abbiamo potuto fare lì perché l’aula era chiusa e non c’era nessuno che aveva le chiavi e allora l’abbiamo fatto in una biblioteca e il tema dell’incontro era «Il libro che non ho scritto» e io ho parlato per un’ora di un libro che non ho scritto e che probabilmente non scriverò mai e mi è venuto in mente un racconto di Ernesto Ragazzoni che si intitola Le mie invisibilissime pagine dove Ragazzoni, che era un poeta bravissimo dell’inizio del secolo scorso, ha raccontato un po’ dei libri che non ha scritto per esempio dei gialli intitolati Il teschio che morde, Lo stagno dei miasmi di stricnina, Il delitto della principessa tatuata, I fabbricanti di colera, I divoratori di dinamite, Il cadavere sott’aceto, Il francobollo maledetto, Il Sherlock Holmes automatico, che già come titoli sono titoli bellissimi, secondo me. E mi è venuto in mente di quando, una ventina di anni fa, sono andato alla libreria Feltrinelli di Parma a chiedere se avevano i libri di Ragazzoni e il libraio mi ha portato nella sezione dei libri sulle automobili perché pensava che volessi un libro di Clay Regazzoni, il pilota. E dopo, quando ho finito l’incontro, lì a Salerno, sono andato per prendere il treno e mi son trovato nel piazzale della stazione davanti a un albergo dove, quindici anni prima, avevo dormito una notte per via che ero a Roma, dovevo tornare a Bologna, ero arrivato a Roma Termini di corsa aveva preso il treno al volo, mi ero seduto, contento, nel mio posticino, mi ero messo a leggere, dopo un’ora e mezzo il treno si era fermato, «Bene», avevo pensato, siamo a Firenze, poi era ripartito, dopo un’ora circa aveva rallentato per fermarsi ancora io mi ero alzato per scendere avevo visto il cartello SALERNO, mi ero detto, nella mia testa, «Cosa ci fa il cartello SALERNO alla stazione di Bologna?», mi ero avvicinato all’uscita, avevo visto un altro cartello SALERNO, «Ma pensa te, – avevo pensato, – non son neanche capaci di mettere i cartelli come si deve», il treno si era fermato, ero sceso, c’era un gran caldo, solo lì, sul marciapiede della stazione, per via del caldo avevo capito che non ero a Bologna ero a Salerno. Allora avevo telefonato a casa, avevo detto che sarei arrivato il giorno dopo ma non prestissimo, nel primo pomeriggio.

[Uscito ieri su Libero]

Non risponde mai nessuno

sabato 9 Maggio 2015

Questa settimana mi hanno chiesto di fare un discorso su Raffaello Baldini, a Ravenna, il 21 di maggio, e io ho accettato e adesso lo devo scrivere e non so da che parte cominciare. Un po’ perché, in generale, io quando devo fare una cosa non so mai da che parte cominciare, un po’ perché, in particolare, di Baldini mi sembra che non si debba dir niente: mi sembra che valga anche per lui la cosa che diceva Giorgio Manganelli in una recensione di Oblomov, il celebre romanzo di Gončarov, recensione nella quale Manganelli diceva che Oblomov è un libro «che non è lecito recensire. O lo conoscete e vi ha sedotto, e un recensore non può dirvi nulla, o non lo conoscete, e allora, per favore, non perdete altro tempo con queste fatue righe, e andate a leggerlo». Ecco, per Baldini, mi sembra, vale lo stesso discorso, e la cosa migliore che posso fare a Ravenna il 21 di maggio mi sembra sia leggere le sue poesie, e farò così, leggerò per esempio quella che dice: «E be’, sai, i brutti, anch’io ero poco bello, però poi con gli anni, che dovrebbe essere peggio, invece, cambi in meglio, davvero, io mi sono anche innamorato». Oppure quella che si intitola 1938 e dice: «La maestra di Sant’Ermete delle volte, il pomeriggio, si chiude in camera e accende una Giubek. Non fuma. Sdraiata sul letto la guarda consumarsi. Le piace l’odore. Delle volte le viene da piangere». Oppure quella che si intitola Ombre e dice: «Il caffè adesso lo manda avanti Dino, il mio grande, l’altro studia da ragioniere, io non vado giù quasi mai, ma da sopra sento tutto, il mercato la mattina, vermut, Campari quando sono le undici e tre quarti, poi tazze, cucchiaini, avanti e indietro, e verso sera ai tavolini di fuori la gente che parla, sempre le stesse cose, ma litigano, degli urli, battono i pugni, io vado alla finestra, ma ho la cataratta, vedo delle ombre». Oppure quell’altra che si intitola Tom che fa così: «Quanto abbiamo giocato con Tom, quel che mi sono divertito, ma intelligente, era il cane di mio zio, più intelligente di lui». Oppure quella, conosciuta, che si chiama I capelli che fa così: «Matto, è sempre stato matto. Ma da quando gli sono cominciati a cadere i capelli passa dritto e non saluta nessuno». O quella che si intitola Basta!, col punto esclamativo, che dice: «E poi basta, mi son stufato, è tutti i giorni uguale, non se ne può più. Mi voglio far crescere i baffi!». O, ancora, La camera cieca, che fa così: «Che poi mi succede di rado, e non sente nessuno, nella camera cieca, di sotto, tra i panni sporchi, chiudo la porta, e urlo. Dopo sto meglio». E poi credo che leggerò quella che dice: «Ma così, delle volte, quando torno a casa, la sera, prima di infilare la chiave, suono, drin, drin, non risponde mai nessuno», che è una poesia che mia mamma quando la legge le vien da ridere, io quando la leggo mi vien da piangere e poi alla fine, anche se non ce ne sarebbe bisogno, anzi forse proprio perché non ce ne sarebbe bisogno, qualcosa finirò per dirla e credo che dirò una cosa che dico sempre, quando parlo di Baldini, che una volta Ivano Marescotti ha fatto una lettura delle poesie di Baldini e una signora, alla fine, gli si è avvicinata gli ha detto «Mi son divertita, ma così divertita, son così belle che non sembrano neanche delle poesie».

[Uscito ieri su Libero]

Essere #matteorenzi

lunedì 4 Maggio 2015

È uscito per il Mulino un libro di Claudio Giunta che si intitola Essere #matteorenzi e che a me ha ricordato l’Unione Sovietica. Il libro è una specie di analisi della lingua di Renzi. Secondo Giunta, Renzi parla male, ma bene, cioè parla velocemente e correttamente, senza perdere il filo, ma usa delle metafore come “buttare la palla in tribuna”, “evitare il derby ideologico”, “lotterò su ogni pallone”, e usa seriamente, «senza ironia», formule come «la madre di tutte le battaglie», che va bene per la scuola, per la burocrazia, per il lavoro, un po’ per tutto. Quando parla in inglese, Renzi, secondo Giunta, ha un inglese «da querela», quando parla delle nuove tecnologie è sempre «entusiasta» e, «non fosse il presidente del consiglio, lo si incontrerebbe al Media World in trance acquisitiva, come Fantozzi, mentre mette nel carrello l’ultimo modello di iPhone». Secondo Giunta il fastidio che gli intellettuali provano nei confronti di Renzi è legato «a questo modo sguaiato di usare il linguaggio». Un amico di Giunta gli ha detto che «Quando in treno sento la voce dell’altoparlante che dice Concediti una pausa di gusto! io penso a Matteo Renzi. Quando il cameriere al bar dice bollicine invece di spumante, a me viene in mente la faccia di Matteo Renzi… Poco dopo che Renzi è diventato presidente del Consiglio, – continua l’amico di Giunta, – Trenitalia ha sostituito l’annuncio del pranzo: adesso urlano Prova la convenienza del menù sfizioso. E io per un pezzo sono stato lì a riflettere che certamente le due cose erano collegate, che c’era una regia occulta dietro l’ingresso di sfizioso nel lessico del Frecciarossa…». Mi è sembrato un libro (giustamente) impietoso, questo Essere #matteorenzi, un libro in cui Giunta arriva, esagerando forse appena, a paragonare il libro più importante tra quelli che ha scritto Renzi, Stil novo, con il Mein Kampf di Hitler, e sono stato sorpreso, alla fine, quando Giunta dice che lui, Renzi, lo potrebbe anche votare. E lì mi è venuta in mente l’Unione Sovietica, e mi son ricordato di quando ho conosciuto i primi russi che ho conosciuto, la maggior parte dei quali avevano, dei loro governanti, del Politburo, una pessima opinione. non credevano ai politici e erano conviti di avere degli ottimi motivi, per non crederci, sembrava che li sopportassero, che li considerassero come il pittore russo Ivan Puni considerava la critica, «Un fenomeno meteorolgico». Cioè Puni, che era un pittore d’avanguardia e faceva dei quadri stupefacenti, per il periodo in cui li faceva, e venivano molto criticati, i suoi quadri, lui quando usciva una nuova critica era come se guardasse fuori dalla finestra e pensasse «Ve’, piove», e poi ricominciasse a dipingere, e così i miei conoscenti russi con le decisioni del Politburo, «Ve’ piove», e ricominciavano a stare al mondo. In un modo simile, come una constatazione, senza alcuna passione, mi è sembrato che Giunta immagini di poter votare per Renzi, il quale Renzi, a pensarci, è a capo di un governo che chiama la sua riforma della scuola La buona scuola, che è come uno scrittore che chiama un suo romanzo Il romanzo bellissimo. O: Il romanzo stupefacente. O: Il capolavoro. O come un editore che chiama un suo quotidiano La verità (che sarebbe la Pravda, in sostanza).

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Un grande poeta

domenica 26 Aprile 2015

Questa settimana il presidente del consiglio, Matteo Renzi, ha detto «Il cuore continua a battere forte, a domandarsi come questa bellezza di cui noi parliamo può salvare il mondo, avrebbe detto il poeta, un grande poeta come Dostoevksij». Da un certo punto di vista è una cosa bella, che un politico citi Dostoevskij, la cosa che non si capisce tanto è come mai dica che è un poeta, visto che Dostoevskij di poesie non ne scriveva. Se, per esempio, il presidente del senato, Grasso, dicesse «Tutte le famiglie felici sono uguali, come ha detto quel grande aforista, Tolstoj», ecco, io, a sentire una cosa del genere, da una parte sarei contento, Tolstoj citato al senato, solo che subito dopo credo che penserei che magari, va bene parlar di Tolstoj, ma bisognerebbe forse parlarne in un altro modo. Anche se forse, mi vien da pensare, Renzi diceva poeta in un senso lato, nel senso di artista, cioè nel senso in cui delle persone che non sono tecnicamente dei poeti vengono chiamati poeti, come Claudio Sala, per esempio, l’ala destra del Torino che era chiamato il poeta del gol, o come Fabrizio De Andrè, che era un cantautore e molti gli dicevano che era un poeta solo che lui, quando sentiva dire, sembra che dicesse «Fino a diciotto anni scrivono tutti delle poesie, dopo i diciotto anni solo i poeti e i cretini, diceva Benedetto Croce», diceva De Andrè. E a proposito di cretini, quella frase lì ricordata da Renzi, «La bellezza salverà il mondo», è una frase che è vero che l’ha scritta Dostoevskij, ma non l’ha detta lui in prima persona, l’ha attribuita a un personaggio che è il principe Miškin che, in quanto protagonista del romanzo L’idiota, è un idiota, cioè non un cretino, ma qualcosa del genere, e lo dico con grande rispetto per gli idioti, per i cretini e per gli imbecilli in generale tant’è vero che io, ormai quasi vent’anni fa, quando ho cominciato a scrivere, ero a Parma, in via Cavour, in mezzo alla gente, avevo sentito uno che diceva «Oh, deficiente!», e mi ero voltato convinto che chiamasse me, e quello era stato un momento che io ero stato contento, e all’inizio non capivo come mai questa contentezza nel momento in cui mi rendevo conto di avere un’autostima ai minimi storici, dopo a pensarci ho pensato che scrivere, per me, io per mettermi a scrivere, ero già grande, avevo più di trent’anni, per provare a scrivere avevo dato le dimissioni da un lavoro normale, facevo il responsabile amministrativo di una joint venture franco italiana, e ero nel mondo, dentro un organigramma, ero lì a metà strada, impegnato a salire, e scrivere, per me, aveva voluto dire uscire dall’organigramma, rifiutare l’idea che dovevo sforzarmi per essere più bravo, più furbo, più ricco degli altri, voleva dire in un certo senso, avere la patente del deficiente o del cretino, ma Matto Renzi, mi sono chiesto, con tutto questo nostro cretinismo, o idiotismo, che cosa c’entra? E mi sono risposto con una frase dell’aforista, lui sì, Stanisław Lec, che nella raccolta di aforismi Pensieri spettinati a un certo punto scrive «La gente che non ha niente a che fare con l’arte, non dovrebbe avere niente a che fare con l’arte. Mi sono spiegato?» (Pensieri spettinati è appena stato ristampato da Bompiani ed è a cura di Pietro Marchesani).

[Uscito ieri su Libero]

Anche in città

sabato 18 Aprile 2015

A andare a correre, al mattino, questa settimana ho fatto più fatica del solito. Mi son chiesto perché, mi son risposto che un po’ è per il fatto che divento vecchio, che, a pensarci, è una cosa incredibile, tutti i giorni uno diventa sempre più vecchio, un po’ probabilmente è anche per via del fatto che questa settimana, a Bologna, è successa una cosa della quale parla Lev Tolstoj all’inizio del suo romanzo Resurrezione quando dice: «Per quanto gli uomini si sforzassero, radunandosi a centinaia di migliaia in un posto piccolo, deturpando la terra sulla quale si erano stretti, per quanto soffocassero quella terra di pietre perché niente, in lei, nascesse, per quanto estirpassero ogni erba che spuntava, per quanto esalassero fumo di fossili, di carbone e petrolio, per quanto tagliassero gli alberi e cacciassero tutti gli animali e gli uccelli, la primavera era primavera anche in città». E con l’arrivo della primavera anche in città vien caldo anche in città e correre diventa più faticoso anche se è un’esperienza un po’ meno triste e solitaria perché in giro c’è più gente per esempio questa settimana, un giorno, dalla staccionata dell’asilo nido della Croce di Casalecchio è spuntata la testa di un bambino che mi ha detto «Come ti chiami? Ce l’hai la multa?». E il giorno dopo c’era un ragazzo pelato e palestrato che, seduto su una panchina, intanto che passavo parlava al telefono con il vivavoce e diceva alla sua interlocutrice, che immagino gli avesse chiesto «E cosa succede dopo che hai fatto tanto esercizio fisico?», questo ragazzo pelato e palestrato rispondeva: «Dopo che hai fatto tanto esercizio fisico succede che riesci a stare in mezzo alla gente senza tanti imbarazzi», e quella interlocutrice mi sembra che gli abbia risposto «E quando poi sei in mezzo alla gente senza tanti imbarazzi, dopo poi cosa fai?». Che io, stavo correndo, la risposta del ragazzo pelato e palestrato non l’ho sentita, ma ho pensato a cosa corro a fare io, che correrei in teoria per dimagrire solo che non dimagrisco potrei anche smettere, di correre, mi sono detto, solo che io, mi sono aggiunto, la cosa che mi piace di correre, a parte dimagrire che mi piacerebbe, ma non dimagrisco, a parte quello la cosa incantevole del correre è quando arrivo alla fine che ho una stanchezza che mi gira la testa e penso «Ecco, questo sì che è bello», e mi dico che ci vorrebbe un modo per provare quella sensazione di stanchezza senza però dover fare tanta fatica e patir tanto caldo, che poi è un pensiero simile al pensiero dei miei colleghi quando, da ragazzo, lavoravo in un prosciuttificio che scaricavamo dei camion di prosciutti e c’era sempre un mio collega che, quando prendeva in mano l’ultimo, dopo due ore magari di scaricamento diceva «Ecco, cercavo proprio questo qua». Dopo, per finire, questa settimana ho lavorato anche a un libretto che uscirà in settembre che hanno scritto quindici abitanti della città di Torino e che si intitola Repertorio dei matti della città di Torino e ci sono dei racconti brevi come per esempio questo (l’ha scritto Luca): «Uno nel 2009, due anni prima di diventare sindaco di Torino, aveva detto a un giornalista di RepubblicaTv: “Perché se Grillo vuole far politica, fondi un partito, metta in piedi un’organizzazione, vediamo quanti voti prende, e perché non lo fa?».

Vacanze di Pasqua

sabato 11 Aprile 2015

Ero al mare, per Pasqua, mi ha chiamato un mio conoscente che non sentivo da mesi e mi ha detto, tra le altre cose, che aveva parlato di me con uno scrittore romano e che questo scrittore romano gli aveva detto che io, secondo lui, dovrei scrivere in italiano.
Cioè, i miei libri, secondo questo scrittore romano, sarebbe bene che io li scrivessi in italiano, mi ha detto questo mio conoscente per Pasqua.
Che io, la mia reazione non è stata di dirgli che io scrivo già, in italiano, è stata di dirgli che lui, quello scrittore romano, se vuol scrivere in italiano ci può scrivere lui, io non voglio, scrivere in italiano.
Che a pensarci è stata una reazione simile a quella di una bambina di dieci anni che ha l’avventura di esser mia figlia che quando di anni ne aveva due e ha scoperto che era italiana la sua reazione era stata: «Io non sono italiana, io non voglio, essere italiana».
E quando è finita quella telefonata con quel mio conoscente mi è venuto in mente di una volta che ho sentito il mio amico Daniele Benati che, in una relazione dove parlava di lingua scritta e lingua parlata, citava la prima frase di un romanzo che ho scritto, che si intitola La banda del formaggio, frase che è pronunciata dal protagonista del libro, che si chiama Ermanno Baistrocchi, e che dice: «Ma quelli che scrivono sopra ai giornali, non gli capita mai che gli viene il dubbio che quello che scrivono son delle cagate?»,.
In quella relazione, Daniele aveva poi trasformato quella prima frase della Banda del formaggio in una frase grammaticalmente corretta che era, se ho trascritto bene: «Ma ai giornalisti, non capita mai che sorga il dubbio che i loro articoli siano assurdità?».
Ecco.
Questa seconda frase, cioè la variante in italiano corretto della prima frase della Banda del formaggio, è una frase che io non scriverei mai, e che mi sembra non solo poco interessante, repellente, proprio e che mi rimanda a un personaggio non solo poco interessante, repellente, proprio, mentre molto interessante e attraente mi sembra la voce che pronuncia la prima frase, quella scorretta, cioè la voce di Ermanno Baistrocchi, praticamente.
Proprio in quei giorni di Pasqua, avevo con me un libro di Roland Barthes che si intitola Il grado zero della scrittura dove c’è un saggio che si intitola La scrittura e la parola, scritto agli inizi degli anni ’50, che comincia così: «Poco più di cent’anni fa, in genere gli scrittori ignoravano che esistessero più maniere – e assai diverse – di parlare il francese».
Ecco. E niente. Questo succedeva per Pasqua.
Dopo, per Pasquetta, a tornare a casa in treno, la bambina di dieci anni che ha l’avventura di esser mia figlia voleva giocare con il mio telefono, solo che era scarico le ho detto di no.
Mi succede raramente, di dirle di no, lei si vede ci è rimasta male mi ha detto che non sapeva cosa fare.
Io le ho detto che poteva leggere.
Lei mi ha detto che a leggere le veniva il mal d’auto.
Io le ho detto che se le veniva il mal d’auto in treno la portavo in ospedale che aprivano un protocollo internazionale che sarebbe stata l’unico caso al mondo.
Lei mi ha detto che forse non le veniva, a pensarci.
E è finita così.

[Uscito ieri su Libero]

Inermità

sabato 4 Aprile 2015

In un’intervista al quotidiano Huffington Post, Francesco Piccolo ha detto che, secondo lui, il segretario della Fiom, Maurizio Landini, è un reazionario, perché ha delle idee che, anche se sono «non solo rispettabili ma anche condivisibili», sono inermi. La cosa mi sembra abbia senso: Landini è in forte polemica con il presidente del consiglio Matteo Renzi, mentre Piccolo, in un libro che è uscito nel 2013, Il desiderio di essere come tutti, scriveva che lui era pronto a seguire il leader del «partito della sinistra riformista che cercherà di governare secondo i criteri del compromesso e della collaborazione» anche se fosse stato «vizioso o scadente»; ora, siccome il leader del principale partito della sinistra riformista è Matteo Renzi e, in questo momento, governa, Piccolo fa, coerentemente, quel che si è impegnato a fare due anni fa, difende chi governa. Se, per ipotesi, tra qualche anno, il leader del Partito Democratico dovesse diventare Maurizio Landini (lo sono stati Dario Franceschini e Guglielmo Epifani, potrebbe esserlo tranquillamente anche Maurizio Landini), e se Matteo Renzi si trovasse all’opposizione, credo che Piccolo direbbe che le idee di Matteo Renzi, anche se rispettabili e condivisibili sono inermi e difenderebbe Maurizio Landini. A leggere questa intervista mi son tornate in mente due cose che non avevo capito quando avevo letto Il desiderio di essere come tutti, cioè questa passione per il potere (che contrasta con la convinzione di uno scrittore stupefacente, Viktor Šklovksij, che, negli anni venti del novecento, in Unione Sovietica, quando dichiararsi contro il potere era un po’ più rischioso di quanto lo sia oggi in Italia, scriveva che «il colore dell’arte non riflette mai il colore della bandiera che sventola sulla cittadella del potere») e questo desiderio di prendere partito a priori, a patto di schierarsi perfino con «i viziosi e gli scadenti», purché di sinistra e potenti (che contrasta con quello che, nel 1940, aveva scritto Simone Weil nella sua Note sur la suppression générale des partis politiques: «Quasi ovunque, e spesso anche per questioni squisitamente tecniche, il fatto di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, ha sostituito il fatto di pensare.
È una peste che si è originata nel contesto politico e si è diffusa a tutto il paese, alla quasi totalità del pensiero»). Poi, nella dichiarazione di Piccolo, c’è un’ultima cosa che mi stupisce, la sua ostilità verso quel che è inerme. Inerme vuol dire senza armi, disarmato, indifeso, impotente. Ecco, l’impotenza, per come la capisco io, è una condizione dello spirito che dovrebbe esser cara, a chi scrive dei libri, se è vera la frase di Giorgio Agamben che dice che un poeta è uno che è «in balia della propria impotenza» che è una frase che a me è cara e che io apparento a quella di Manganelli dove Manganelli dice che lo scrittore sceglie in primo luogo di esser inutile. «Quante volte», scrive Manganelli, «gli si è gettata in faccia l’antica insolenza degli uomini utili: “buffone”. Sia: lo scrittore è anche buffone, non ha collocazione storica, è un lusus, un errore». Ecco. Del principale partito della sinistra riformista, dei criteri del compromesso e della collaborazione Manganelli non ne parla. E neanche Agamben. E neanche la Weil. E neanche Šklovskij, mi sembra.

[Uscito ieri su Libero]

Fermatevi

sabato 28 Marzo 2015

L’altro giorno ho visto su Amazon che c’era un giudizio sull’ultimo romanzo per grandi che ho pubblicato, che si intitola Siamo buoni se siamo buoni. Mi davano una stellina (su cinque), e il giudizio completo che era il seguente: «Brutto libro: vuoto, privo di una sola idea compiuta e sviluppata, inutile, molto sciatto, fastidioso, con pessimo uso della lingua italiana». Ecco io, non so come mai, leggere dei giudizi del genere sui libri che ho scritto, ogni tanto mi succede, è una cosa che mi mette di buon umore. Sentir dire, di un libro che ho scritto, che è un «Brutto libro: vuoto, privo di una sola idea compiuta e sviluppata, inutile, molto sciatto, fastidioso, con pessimo uso della lingua italiana», è una cosa che mi piace e mi sembra ammirevole, questo giudizio che dice che Siamo buoni se siamo buoni è un «Brutto libro: vuoto, privo di una sola idea compiuta e sviluppata, inutile, molto sciatto, fastidioso, con pessimo uso della lingua italiana». Mi piace talmente, questo giudizio (firmato carlo infuso), che lo ripeterei per tutta la rubrica, per tutti i 3.300 caratteri che mi sono concessi, ma sarebbe un po’ troppo, forse, allora non lo dico più e aggiungo una cosa che mi è successa il giorno dopo aver letto questo giudizio così bello, cioè che l’Ansa mi ha fatto un’intervista a proposito di un altro romanzo che ho scritto, un romanzo per ragazzi che si intitola La bambina fulminante e la giornalista dell’Ansa (che si chiama Maurina Capuano) mi ha chiesto: «Cosa cambia quando si scrive per i ragazzi rispetto a un romanzo per i grandi?». E io le ho risposto che non cambia molto, c’è la stessa sensazione di non esser capaci, si ha sempre l’impressione che non ci si riuscirà mai, ma la cosa che un po’ mi preme, le ho detto, di questo libro come del libro per ragazzi che avevo scritto tre anni prima, che si intitola 13 favole belle e una brutta, è il fatto che, come nei libri che scrivo per grandi, ci sono una sintassi e una grammatica non ortodosse, libere, mi vien da dire, che mi sembrano in armonia, se così si può dire, con le cose che ho provato a dire quando sono andato nelle scuole elementari a fare dei seminari di scrittura, che dicevo ai bambini e alle bambine che quando scrivono per la maestra è giusto che rispettino la grammatica e che stiano attenti ai tempi verbali e all’ordine delle parole e alle ripetizioni e a tutto, ma quando scrivono per raccontar delle storie, la grammatica se la possono anche dimenticare, o fare finta di dimenticarsela: possono, se vogliono, usare le parole come usano i colori quando fanno un disegno, con la massima libertà, come vogliono e come gli viene.
E avrei voluto aggiungere, in quell’intervista all’Ansa, quel che diceva il pittore Malevič nel 1915, dopo le polemiche che c’erano state dopo che aveva esposto per la prima volta il suo Quadrato nero, un quadrato nero su fondo bianco che era stato molto criticato e Malevič aveva detto «L’arte non vi chiede se piace o non piace, come non vi è stato chiesto niente quando sono state create le stelle del firmamento», che è una frase che mi piace molto solo che aggiungerla in quell’intervista lì all’Ansa poi mi sembrava di essere uno che si dava delle arie non l’avevo mica aggiunta e anche qua fate finta che non l’ho scritta fermatevi a leggere a «come vogliono e come gli viene».

[uscito ieri su Libero]