Vagabondo

venerdì 16 Novembre 2018

Quando ero bambino e non avevo voglia di studiare o di mettere in ordine la mia camera, i miei genitori mi dicevano vagabondo. Che detto così sembra niente, ma io sapevo che loro per vagabondo intendevano uno che non ha voglia di far niente, men che meno di lavorare, e quindi vive come un parassita alle spalle degli altri, e magari ruba pure, per cui il suo destino è la galera. E io mi sentivo molto in colpa quando mi dicevano così. Però non capivo una cosa: perché mia madre cantava sempre quella canzone dei Nomadi che faceva “io, vagabondo che son io, vagabondo che non sono altro”? Perché in una canzone ci si poteva vantare di essere un vagabondo? E non era l’unica: ce n’era anche una di Nicola Di Bari che faceva “Vagabondo, sto sognando” e quella, mi pare fosse dei Dik Dik che diceva “Cominciò così a fare il vagabondo girando paesi e città”. Per me erano tutti cattivi esempi e mi scandalizzavano anche un poco. Solo da più grande capii il lato romantico dell’essere un vagabondo, ma ormai nella mia testa rimaneva un insulto infamante, tanto che ancora oggi, quando non ho voglia di lavorare o di aiutare       mia moglie nelle faccende di casa sento come una vocina che viene a dirmi vagabondo. Anche se è una parola che non si usa quasi più, e se la dicessi ai miei figli mi guarderebbero strano. Per loro vagabondo è un cane amico di Lilly.

[Stefano Pederzini, in Qualcosa n. 3]