Una confessione

sabato 30 Maggio 2015

Sto scrivendo un libro dove il protagonista è un signore che ha cinquantacinque anni però anche lui è stato giovane, e quando era giovane ha fatto l’editore, poi ha fatto lo scrittore, adesso fa il giornalista, e quando era giovane non ha mai detto «Noi giovani», quando era un editore non ha mai detto «Noi editori», quando era uno scrittore non ha mai detto «Noi scrittori» e adesso che è un giornalista non ci pensa minimamente, a dire «Noi giornalisti». Anche per via del fatto che lui pratica una forma di giornalismo che lui chiama Giornalismo disinformato, e la insegna, anche, fa dei corsi di Giornalismo disinformato e ha pubblicato anche un piccolo manuale che si intitola Manuale pratico di giornalismo disinformato.

È  un tipo di giornalismo, il giornalismo disinformato, che i giornalisti che lo praticano delle cose che scrivono non ne sanno e non ne vogliono sapere niente.

E lui, quello che tiene i corsi, che si chiama Ermanno Baistrocchi, lui consiglia di far delle cose, non so, per esempio, «Ragazzi», gli dice a quelli che partecipano ai suoi corsi, li chiama ragazzi, «Ragazzi, se non sapete cosa scrivere, scrivetelo. Scrivete così: Non so cosa scrivere».

E delle regole classiche del giornalismo, delle cinque doppie vu, «when» «what» «where» «who» «why», che, come si sa, vogliono dire «dove» «cosa» «quando» «chi» «perché», e che sarebbero le cinque cose da dire in un pezzo scritto come si deve secondo le regole classiche del giornalismo informato,  ecco, lui, nei pezzi che scrive lui, cerca di non rispondere a nessuna di queste domande, ma si sforza di rispondere a un’altra, domanda: «come».

Bisogna concentrarsi sul «come», secondo lui, e se ci si concentra sul «come» si risponde anche alle altre domande «dove» «cosa» «quando» «chi» «perché» anche senza nominare niente e nessuno.

Per esempio, a parlar di Bologna, che tutti sanno cos’è, un posto famoso nel mondo per la bonomia dei suoi abitanti, per i tortellini, per il buon governo, per le torri, per uno squadrone che tremare il mondo fa, per il cinema in Piazza, per Beppe Maniglia e anche per dei motivi inesistenti come per esempio gli spaghetti alla bolognese che in tutti i ristoranti del mondo, se voi entrate e chiedete gli spaghetti alla bolognese, c’è il caso molto probabile che ve li diano, se li chiedete a Bologna, gli spaghetti alla bolognese, vi rispondono che non esistono, gli spaghetti alla bolognese, se prendiamo Bologna, mettiamo che uno debba scrivere un pezzo su Bologna, come può fare, a scrivere qualcosa su Bologna? Può fare in due modi: o si preoccupa della cosiddetta bolognesità, cioè si informa, si documenta e cerca di mettere insieme delle conferme di quello che sa,  la bonomia, i tortellini, il buon governo, le torri, lo squadrone, il cinema, Beppe Maniglia, cioè si fa guidare, in un certo senso, dal suo cervello, dalla sua sapienza, oppure, altrimenti, uno si fa guidare dai suoi occhi.

Si mette per strada e comincia a guardare. Allora lì, in un certo senso, è un’avventura, può saltar fuori qualsiasi cosa, può andare a finire che uno diventa testimone di un omicidio, oppure che uno torna a casa, si mette al computer e scrive «Non so cosa scrivere». Ecco, io, oggi, mi sono detto che avrei provato a fare come il protagonista del mio romanzo e non sono stato testimone di un omicidio, devo confessare.

 

[Uscito ieri su Libero]