Niente, Qualcosa, lunatici e rompicoglioni

sabato 30 Giugno 2018

L’altra volta abbiamo detto che, per scrivere una cosa che valga qualcosa, servono urgenza e disperazione, e abbiamo detto che questa settimana avremmo dato dei consigli per provocarle: cominciamo dalla disperazione.
Una volta una signora, alla presentazione di un libro, mi aveva chiesto, con tono dispiaciuto: «Ma perché lei scrive così?».
L’accento cadeva sul «Così», e era stata una domanda che mi aveva fatto piacere, perché voleva dire che era un «così» che la metteva in difficoltà e, se una cosa che hai scritto mette qualcuno in difficoltà, non è detto per forza che sia un brutto segno.
Con un gruppo di una cinquantina di persone, da tre anni circa, stiamo provando, a Bologna, a fare una rivista.
Ci troviamo, per farla, una volta ogni due mesi in una saletta al primo piano della Biblioteca Salaborsa. All’inizio avevamo pensato di chiamarla Niente, la rivista, perché ci piaceva poter rispondere, a chi ci chiedesse «Dove stai andando?», «A far Niente».
Poi, fare Niente si è rivelato un compito al di sopra delle nostre forze e ci siamo trovati, qualche mese dopo, a immaginare un’altra rivista, che adesso, è incredibile, uscirà veramente, e si chiama Qualcosa.
Qualcosa sarà una rivista che, anche se pubblicata da una casa editrice romana, che si chiama Sempremai, avrà un cuore emiliano, se così si può dire, e sarà una rivista che deriva da due altre riviste della fine del secolo scorso e dell’inizio di questo, Il semplice e L’accalapiacani, che si facevano una a Modena e l’altra a Reggio Emilia, la prima guidata da Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni, la secondo con la collaborazione, tra gli altri, di Daniele Benati e Ugo Cornia.
Celati, Cavazzoni, Benati e Cornia hanno diffuso, anche attraverso le cose che hanno scritto sul Semplice e sull’Accalappiacani, una poetica che viene riconosciuta come la poetica dei cosiddetti lunatici, che è una poetica che ha portato a grandi libri, ma che, alla fine, dopo tanti anni, come etichetta, come forse tutte le etichette, ha l’effetto, un po’, di depotenziare quello a cui viene appiccicata.
Un discorso, se diventa il discorso di un lunatico, è un discorso che sì, è divertente, o anche molto divertente e, essendo divertente, o molto divertente, non è una cosa da prendere sul serio, è da lunatico.
Io, tra l’altro, apro una parentesi, quando faccio una lettura in pubblico, e ne faccio tante, il commento che mi dà forse più fastidio, alla fine, non è «Ma perché scrive così?», è: «Molto divertente».
Mi viene un nervoso, quando sento dire che una cosa che ho scritto è «Molto divertente», che non riesco a spiegarlo, chiusa la parentesi.
Alla fine del primo numero di Qualcosa, quando uscirà, in settembre, ci sarà scritta una frase che dice «Noi non siamo lunatici, siamo rompicoglioni». Cioè siamo della gente che si propone, tra le altre cose, di dare fastidio (che era un po’ il compito che si proponeva, tra gli altri, lo scrittore austriaco Thomas Benhard, se non ricordo male).
Su Ivan Puni, che è uno dei grandi pittori della grande avanguardia Russia, un centinaio di anni fa Viktor Šklovskij ha scritto un pezzo che dice: «Ivan Puni è l’uomo timido per eccellenza. Ha capelli neri, parla piano, suo padre era italiano. Ho veduto di questi timidi sullo schermo cinematografico. È come un imbianchino che se ne va con una lunga scala sulla spalla. Modesto, silenzioso. Ma la scala urta i cappelli dei passanti, fracassa i vetri, ferma i tram, distrugge case. Puni invece dipinge. Se dovessimo raccogliere tutte le recensioni scritte su di lui in russo e spremerne il furore, si potrebbero raccogliere alcuni secchi di liquido molto corrosivo e inoculare con questo la rabbia a tutti i cani di Berlino. I cani a Berlino sono 500.000. Puni offende la gente perché non si beffa mai di nessuno. Dipinge un quadro, lo guarda, pensa: Io non c’entro, doveva essere fatto così. I suoi quadri sono irrevocabili e obbligatori. Puni vede lo spettatore, ma è organicamente incapace di tenerne conto. Accetta gli insulti dei critici come un fenomeno atmosferico» (la traduzione è di Maria Olsoufieva). Ecco, io credo che, per uno che scrive, l’atteggiamento da tenere, nei confronti della critica, sia quello di Puni, considerarla un fenomeno atmosferico, guardare fuori dalla finestra e pensare «To’, nevica», e rimettersi a lavorare. Credo però che sia una cosa impossibile. Quando il più grande scrittore russo di tutti i tempi, Aleksandr Puškin, era agonizzante, dopo il duello che l’avrebbe ucciso, sembra che gli abbiano chiesto se voleva dire qualcosa ai critici, e sembra che lui abbia risposto «Dite a quelli che hanno voluto ferirmi che ci sono riusciti», che è una risposta che mi sembra così bella forse perché è vera.
Un’altra domanda che fanno, ogni tanto, a chi scrive dei libri è: «Perché scrive?». Senza «così». «Perché scrive?». E basta. Che anche questa, uno poi può avere anche un buon carattere, ma se uno che ha letto un tuo libro ti chiede «Perché scrive?», è difficile che sei contento, dovrebbe essere evidente da quello che hai scritto, perché scrivi, secondo me.
Però fai finta di niente, e rispondi, e a me quando me l’han chiesto ho risposto «Per disperazione», che era vero, poi però, quando ho sentito la risposta che aveva dato Garcia Marquez, quando l’avevano chiesto a lui: «Perché la gente che mi vuole bene mi voglia ancora più bene», mi son ricordato di quando, da piccolo, ho scoperto che non tutti mi volevano bene, che mi era sembrata una cosa incredibile, e ingiusta, e mi ricordo, tanti anni dopo, nel 1999, quando stava per uscire il mio primo romanzo, non me lo dicevo chiaramente, ma, sotto sotto, io pensavo che l’uscita del mio primo romanzo avrebbe rimediato a questa ingiustizia, che sarebbe piaciuto a tutti e tutti avrebbero capito che bisognava volermi bene.
Ecco.
Non succede così.
Quindi: per la disperazione, non preoccupatevi, viene da sola.
Per l’urgenza, il primo romanzo che scrivete, se scriverete un romanzo, dovrete pensarci voi. Dal secondo in poi, voi firmate un contratto e poi, per i primi nove-dieci mesi non fate niente.
Cominciate a lavorare quando mancano quindici, massimo venti giorni alla consegna. Vedrete che l’urgenza, viene anche l’urgenza. Basta saperla aspettare.

[Uscito ieri sulla Verità]