La bellezza, Renzi e Camus

mercoledì 18 Aprile 2012

Il nuovo libro di Matteo Renzi, che si intitola Stil novo (Rizzoli 2012, pp. 193, 15 euro), mi sembra molto difficile da riassumere. Si apre con un’epigrafe di Camus («La bellezza non fa rivoluzioni, ma viene il giorno che le rivoluzioni hanno bisogno di lei») e parla di molte cose: di bellezza, di Firenze, dell’Italia, dell’America, del mondo. Di Dante, di Leonardo da Vinci, di Michelangelo, di Savonarola. Dei fiorentini, dei toscani, degli italiani, degli americani. È pieno di frasi in un certo senso memorabili, come queste: «Scrivere di Firenze è difficile. Forse arrogante. Per qualcuno persino inutile». «Anche questa città, patria dell’arte e della cultura, si fa spesso raggiungere dalla mucillagine del banale». «Una sorta di Manhattan ante litteram? Sì e no». «Ovviamente, se ascoltate gli storici vi diranno che questa ricostruzione è parziale. Lo ammetto anch’io, sia chiaro. Ma non è che vi dovete preparare a un esame universitario: state assaggiando una città». «Ormai è maturo il tempo in cui l’Italia regolarizzi il servizio civile obbligatorio, la cui introduzione è stata richiesta da molte associazioni e dal settimanale “Vita”, la più autorevole testata del terzo settore in Italia». «Dobbiamo avere la forza di sconfiggere il pensiero debole dei poteri forti, o presunti tali». «Una città non è un ammasso casuale di pietre». «Diciamoci la verità, a Firenze ci sono cose meravigliose, che spaccano il pensiero». «Se vogliamo essere onesti, però, a Firenze non mancano nemmeno le autentiche cialtronate, che andrebbero proibite con un’ordinanza». «Sono sicuro che se Dante fosse in vita scriverebbe sul suo blog parole al vetriolo contro queste assurdità». «Dante appartiene a questi personaggi rovinati dalla scuola». «Spesso ce lo presentano in modo monotono. E invece Dante era un ganzo. Amava l’amore, amava la politica, amava le passioni forti. Detta male: gli garbava vivere». «Dante ha inventato l’italiano riuscendo nel brillante paradosso di fondare un’appartenenza dall’esilio». «Io sono convinto che Dante era di sinistra, anche se non lo sapeva». «Crea l’italiano anche se probabilmente non ne è consapevole, pur avendo una sufficiente dose di autostima, diciamo così». «In questi momenti mi viene quello che, tecnicamente parlando, si chiama discreto giramento di scatole, giusto per uscire dall’atmosfera poetica». «Anche perché diciamo la verità, la Gioconda è più enigmatica che bella». «Non possiamo indugiare qui nei particolari, rimandando a testi più seri». Ecco: a me è sembrato stranissimo, che in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta. A un certo momento mi è tornato in mente Camus quando, nei suoi taccuini, pensa a quel che avrebbe voluto ancora fare, nella sua vita, e scrive: «Ma soprattutto, soprattutto, rifare a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da Monte San Savino a Siena, costeggiare quella campagna di ulivi e di viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli, arrivarci di notte, solo e senza soldi, dormire accanto a una fontana ed essere il primo sul Campo a forma di palmo, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande. Sì, vorrei rivedere la piazza inclinata di Arezzo, la conchiglia del Campo di Siena e mangiare ancora i cocomeri per le strade calde di Verona. Quando sarò vecchio, vorrei che mi venisse concesso di tornare su quella strada di Siena, che non ha eguali al mondo, e di morirvi in un fossato, circondato soltanto dalla bontà di quegli italiani sconosciuti che io amo». E mi è venuto da pensare che Camus, quando parlava della bellezza, era come un falegname che parlava del legno, sapeva quel che diceva.

[è uscito oggi sul Fatto quotidiano]