Il posto dove abitavo

sabato 2 Giugno 2018

Quando ho cominciato a studiare russo, nel 1988, trent’anni fa, uno dei problemi che c’erano allora, era trovare qualcuno con cui parlare: oggi basta montare su un autobus, si sente qualcuno che parla russo, ma allora, di russi, in Italia, ce n’eran pochissimi. Così noi che studiavamo russo, allora, eravamo magari bravi a leggere e a scrivere, ma parlare era un altro discorso. Anche per quello avevano un discreto successo dei seminari estivi dove si studiava russo per otto-dieci ore al giorno e dove, soprattutto, a insegnartelo, c’eran dei russi, dei russi veri, della gente che il russo lo parlava e con la quale lo potevi parlare, e in uno di questi seminari un’insegnante di russo, resasi conto delle difficoltà, dei freni che avevamo a parlare, della paura che avevamo di sbagliare, questa insegnante, una volta che aveva un po’ perso la pazienza di fronte a una studentessa che non riusciva a spiccicare parola, aveva detto, rivolta a tutta la classe: «Rebjata, čtoby govorit’, nado govorit’», che più o meno significa: «Ragazzi, per parlare bisogna parlare».
Ecco, io credo che una cosa simile si possa dire per chi vuole scrivere.
Una volta hanno chiesto a Bukowski cosa ci vuole per scrivere e sembra che lui abbia risposto: «Per scrivere ci voglion due cose, una macchina da scrivere e una sedia. Delle volte è difficile trovare la sedia».
Insomma per scrivere, bisogna scrivere, tutti i giorni, trovare la sedia tutti i giorni, non basta pensare che si vorrebbe scrivere.
E una cosa bella, una volta che si comincia, è che sei contento che hai cominciato a scrivere, ma non ti basta, aver cominciato a scrivere, vorresti anche scrivere delle cose belle, e il dubbio che credo accompagni tutti quelli che cominciano a scrivere è: ma le cose che ho scritto, son belle oppure no?
E così è successo a me, quei primi mesi in cui provavo a scrivere: mi ricordo la posizione in cui era il mio computer, abitavo a Parma, al numero 3 di via Caduti di Montelungo, tra largo Dispersi dell’Egeo, viale Dispersi e Morti in Russia, via Martiri di Cefalonia e via Anna Frank, e avevo il computer su un tavolo che era contro un muro, e scrivevo guardando questo muro e la mia attenzione era tutta verso l’alto, il triangolo che percorrevo per ore, nella mia testa, era tra me, il computer e il cielo della letteratura dal quale cercavo di attingere quelle parole, quelle espressioni, quella sintassi e quel lessico leggeri, incantevoli, nuovi e antichi contemporaneamente che avrebbe fatto di me un maestro di stile, e scrivevo in una lingua dalla quale non si capiva, non si doveva capire, che io ero di Parma, nel cielo della letteratura non c’era Parma, non c’eran confini comunali, provinciali, regionali, c’eran delle altre cose, c’era il premio Nobel, c’eran dei busti un po’ impolverati, c’era la legge Bacchelli e dietro, là in fondo, c’era la crusca, e i cruscanti, che si intravedevano appena ma restava il dubbio sulla loro natura a metà tra l’umano e il divino, delle cose così.
E le facevo leggere ai miei amici, le cose che scrivevo, e loro mi dicevano che erano belle, ma io avevo il dubbio che me lo dicessero un po’ perché eran gentili e un po’ perché così mi calmavo: una mia amica, mi ricordo, mi aveva detto che una cosa che le avevo dato era bellissima; un mese dopo, gliene avevo data un’altra, mi aveva detto che avevo fatto dei grandi progressi e io avevo pensato “Ma se era già bellissima quella prima, come ho fatto a fare dei grandi progressi?”.
Poi quella mia amica aveva mandato una cosa che avevo scritto a una rivista di letteratura che si faceva allora a Modena, il Semplice, si intitolava, e mi avevan chiamato e io ero andato a una riunione e lì era successa una cosa stranissima che io avevo capito come fare a capire se le cose che scrivevo erano belle o non erano belle.
Perché lì al Semplice loro chiedevano a chi voleva pubblicare dei racconti nella loro rivista di leggerli ad alta voce di fronte alle venti persone che c’erano lì, e io lì mi sembra di averlo capito lì, questo fatto: che quando leggi una cosa in pubblico ad alta voce, se è bella, diventa ancora più bella, se è brutta, diventa ancora più brutta.
E quando ero tornato a casa da quella riunione del Semplice lì, lì non avevo letto niente, quando ero tornato a casa avevo cominciato a leggermele da solo, per conto mio, ad alta voce, le cose che avevo scritto, e mi ero accorto di una cosa stranissima che non avrei mai detto cioè che ogni tanto, siccome io non ero sicuro del valore delle cose che scrivevo, io ogni tanto ci mettevo dentro una parola desueta, colta, complicata, perché volevo che almeno il lettore si accorgesse del fatto che ero uno che aveva studiato: va be’, pensavo, i miei racconti non saran molto belli, però almeno che si veda che li ha scritti uno che si è laureato in lingue e letterature straniere e ho dato sette esami di filologia, non è una cosa da tutti, pensavo (io ero molto fiero del fatto di avere dato sette esami di filologia, non so perché). E a rileggerle ad alta voce era vero, si vedeva, che era un laureato, che le aveva scritte, quelle cose che avevo scritto, ma il fatto che le avesse scritte un laureato che aveva dato sette esami di filologia non le rendeva più belle, anzi, togliere quelle parole desuete messe lì per far bella figura sarebbe stata forse la prima cosa da fare, per mettere a posto quei racconti lì.
Allora io dopo, quando ho cominciato a leggere i miei racconti ad alta voce, era successo che naturalmente io, sapendo che poi li avrei dovuti leggere ad alta voce per capire se erano belli o no, avevo cominciato a scriverli un po’ come se fossero parlati, in un certo senso, e all’improvviso quel triangolo di cui parlavo prima, io, computer e cielo della letteratura, era diventato un triangolo con un vertice infinito, cioè era diventato un triangolo io computer mondo, e improvvisamente le cose da scrivere mi venivano su da tutte le parti, e certe volte avevo l’impressione, per strada, che certe cose che vedevo e che sentivo succedessero apposta per andare a finir nei romanzi, e improvvisamente i romanzi avevano cominciato a riempirsi di una lingua che non era una lingua neutra e non era una lingua scritta da uno che ci teneva che si vedesse che aveva dato sette esami di filologia, era una lingua che aveva molto a che fare con l’italiano che si parlava a Parma, che era il posto dove abitavo, se non l’ho già detto. Ecco. A me più o meno è successo così.

[Uscito ieri sulla Verità]