Ciao

venerdì 11 Marzo 2011

Nel libro Togliamo il disturbo, recentemente pubblicato da Guanda, Paola Mastrocola, che insegna lettere in un liceo scientifico di Torino, descrive gli studenti del suo liceo, e tutti gli studenti «di tutte le scuole di Torino, d’Italia, d’Europa». «Sono così: – scrive la Mastrocola – ammassati fuori a parlare, parlottare, stazionare, sfumacchiare. Ombre, lemuri. Spettrali». «Hanno ciuffi scomposti e occhi addormentati. Giubbotti striminziti e jeans abbassati e lunghissimi, con la stoffa che si accascia esorbitante sul collo delle scarpe. Le mani in tasca, lo zaino in spalla, i cinturoni bassi, le scarpe da ginnastica grosse, gonfie, colorate. A volte dorate». «Hanno zaini obesi, spropositati, appesi a una spalla, sbattuti a terra, carichi di scritte, adesivi, mostri, piccoli peluche, “peluscini”. «Hanno gli occhi cerchiati, tristi, il naso pieno di sonno, le spalle curve, la braccia penzole, inerti. Lo sguardo perduto nel nulla, la bocca semiaperta, i capelli stanchi, le orecchie assenti. Anche i brufoli, chi li ha, sono scoraggiati, pallidi brufoli, muti, apatici». «Forse una stanchezza cosmica impedisce loro la posizione eretta». Sono ragazzi che stanno «perdendo il dono della parola». Sono ragazzi «pressoché muti», che «parlano anche se non hanno niente da dire».
Sono «così vestiti tutti uguali, così omologati come un prodotto marchiato Ue. Da un anno all’altro si mettono i jeans larghi o stretti, la felpa col cappuccio o senza, le scarpe basse o alte, di tela o di pelle, colorate o bianche: dipende da come gira la moda. Come se passasse un vento fittizio che li chiama da un istante all’altro, tutti insieme, e li dirige, li comanda». Camminano in centro, il sabato pomeriggio, «i capelli nero-viola tinto, i giubbotti troppo stretti, i piercing al naso, le loro ragazze strizzate nei jeans stretch, caviglie inanellate, scarpine traballanti sul tacco». «Procedono in massa compatta, e tagliano l’aria come un esercito lento e assonnato». Le ragazze «compongono linee orizzontali a braccetto l’una con l’altra procedendo a far barriera, a lunghi passi, sicure, truccate, pantere». I ragazzi, «uno dietro l’altro e di lato, confusi, si ingrappolano cambiando di continuo posto, si sorpassano, strattonano, inciampano, sbracciano, scalciano. O sostano. Sostano l’intero pomeriggio. Davanti a negozi di elettronica, bar, mercati, outlet. Anche davanti a niente, sostano e basta. Rumorosamente stanno. Ridono, sgomitano, strattonano. Si appendono ai reciproci giubbotti e dondolano, ondeggiano». «Il loro modo di portare le mutande (siano Armani o Intimissimi) fuori dai pantaloni è orribile, servile e volgare». «Nessuna battaglia increspa mai le loro menti, le loro voci, i loro gesti». «Forse sono solo, qua e là, percorsi da un sottile malessere interiore, qualche piccola nuvola alta, leggera, che poi va via». «Fanno versi gutturali, mezze sillabe. Gracchiano, ululano, grugniscono, ruttano. Ogni tanto si spintonano, si insultano, si palpano». Sono «entità fittizie, immagini virtuali, fantasmi, zombie che popolano le aule. Figurine disegnate sedute ai banchi, cartoni animati che fintamente aprono un libro, fintamente prendono appunti, fintamente parlano all’interrogazione, ma che nella sostanza non sono presenti». «Non voglio, – scrive Paola Mastrocola, – dare un giudizio negativo di questi ragazzi, anzi, sono persone gentili e simpatiche, educate, affabili, anche rispettose. /…/ Semmai, mi suscitano una qualche compassione. E poi, sono figli del nostro tempo».
Secondo la Mastrocola, questi ragazzi «vivono di chat e di vestiti e di birre o, peggio ancora, di pasticche, perché noi non abbiamo loro insegnato per davvero, e sul serio, a leggere (capire) il senso delle parole di un libro». Cosa che, secondo la Mastrocola, si doveva fare fin da quando eran piccoli, «educandoli all’espressione del pensiero, a ex-premerlo, a tirarlo fuori in una forma che sia “leggibile” agli altri». Cosa, questa, che «si fa leggendo poesie e racconti al bambino di un anno, lo si fa parlandogli molto, e bene; lo si fa facendolo poi scrivere e leggere, e parlare, raccontare, spiegare, direi tutti i giorni. Un’abitudine quotidiana, senza dirglielo, senza farlo vedere».
La lettura di questo libro paradossale mi ha un po’ confuso. A un certo punto mi è venuto da pensare che tutti i genitori di tutti i bambini italiani abbiano tirato su i propri figli senza minimamente preoccuparsi del fatto che, un giorno, i loro figli sarebbero stati allievi della Mastrocola. Invece a certe cosa bisogna prepararsi, quotidianamente, fin dalla più tenera età, secondo la Mastrocola. Purtroppo, però, secondo la Mastrocola, nella scuola italiana hanno prevalso modelli che veicolavano l’idea che la scuola «dovesse smettere di fare cose noiose tipo la grammatica», e responsabile, in particolare, di questa idea sotterranea, sarebbe La grammatica della fantasia, di Gianni Rodari.
Da un vago ricordo che avevo, non mi sembrava che Rodari dicesse una cosa del genere; ho cercato il libro nella mia libreria, non l’ho trovato, ho appena fatto un trasloco, allora sono andato alla libreria Coop Ambasciatori, a Bologna, la stessa libreria dove, il prossimo 31 marzo, presenterò Togliamo il diturbo, di Paola Mastrocola. L’ho comprato, La grammatica della fantasia, l’ho riletto, Rodari non dice niente del genere. Non c’è scritto da nessuna parte, che non bisogna più fare la grammatica.
C’è il caso, a pensarci, che Rodari e la Mastrocola abbiano due idee diverse, di come “Fare la grammatica”, e c’è il caso che l’idea di Rodari sia più vicina all’idea del più conosciuto linguista vivente, Noam Chomsky, che ci ha spiegato, e ci ha dimostrato, ormai più di cinquanta anni fa, che i parlanti una determinata lingua conoscono già la grammatica di quella lingua, e da ciò viene, forse, l’idea che un modo forse non peggiore di quello tradizionale di “fare la grammatica”, sia fare scoprire ai ragazzi la perfetta coerenza grammaticale della lingua che usano, fargli scoprire che loro la grammatica la sanno senza sapere di saperla.
Ma non c’è neanche questo, nel libro di Rodari.
Ci sono, invece delle storie, come la storia delle parole misurate in centimetri, che mi permetto di copiare qua sotto. «Dopo che io avevo parlato del modo di inventare una storia partendo da una parola data, – scrive Rodari, – l’insegnante Giulia Notari, della scuola per l’infanzia Diana, ha chiesto se qualche bambino si sentisse di inventare una storia con quel nuovo sistema e ha suggerito la parola “ciao”. Un bambino di cinque anni ha raccontato questa storia:
Un bimbo aveva perso tutte le parole buone e gli erano rimaste quelle brutte: merda, cacca, stronzo, eccetera.
Allora la sua mamma lo porta da un dottore, che aveva i baffi lunghi così, e gli dice: – Apri la bocca, fuori la lingua, guarda in su, guarda in dentro, gonfia le guance.
Il dottore dice che deve andare a cercare in giro una parola buona. Prima trova una parola così (il bambino indica una lunghezza di circa venti centimetri) che era “uffa”, che è cattiva. Poi ne trova una lunga così (circa cinquanta centimetri) che era “arrangiati” che è cattiva. Poi trova una parolina rosa, che era “ciao”, se la mette in tasca, la porta a casa e impara a dire le parole gentili e diventa buono».
Ecco.
Alla presentazione del libro di Paola Mastrocola, alla libreria Coop Ambasciatori, il prossimo 31 marzo, la prima parola che dirò sarà: Ciao. Se mi ricordo.

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